TROCHEO
. Si suol dire che nella metrica si chiami piede trocheo (τροχαῖος "di corsa") o coreo (χορετος "di danza") la successione di una sillaba lunga e di una breve - −; veramente per i teorici più antichi, qui come nel giambo e nell'anapesto l'unità è costituita dal raddoppiamento di questa serie minima - − - −; e infatti dimetro, tetrametro e così via sono versi costituiti da due, quattro e così via dipodie. Oppostamente al giambo, è allungabile la seconda breve di ciascuna dipodia: dove questo allungamento ritorna regolarmente si suol parlare di epitrito: epitriti sono spessissimo combinati con serie dattiliche (v. dattilo-epitriti) nella lirica corale (Pindaro e Bacchilide hanno interi componimenti in tale misura), più di rado nei cori della tragedia attica. Quest'allungamento toglie al trocheo l'originario carattere di rapidità e leggerezza che è espresso nei suoi nomi.
Il tetrametro trocaico catalettico -⌣-⌣̅-⌣-⌣̅∥-⌣-⌣̅-⌣- appare già in Archiloco; l'uso di esso come in genere di versi e membri trocaici è estesissimo nella commedia (sia epicarmea, sia attica).
Nella tragedia attica questo verso appare agl'inizî, nei Persiani, e, assai limitatamente, nell'Agamennone (scena finale); e sappiamo da Aristotele che nei primi tempi di essa il tetrametro prevaleva assolutamente. Sofocle ed Euripide si astennero dall'adoperarlo per moltissimo tempo; Euripide lo usa dall'Eracle in poi; Sofocle segue il suo esempio soltanto nei due drammi più recenti, il Filottete e l'Edipo a Colono. Probabilmente questo mutamento si deve interpretare nel modo seguente: la tragedia usò liberamente del tetrametro finché non ebbe raggiunto un carattere di singolare gravità; Euripide torna a usarlo in tragedie in cui lussureggiano anche altre espressioni di vivacità appassionata; se ne servì in seguito man mano sempre più liberamente, per evitare la monotonia degli eterni trimetri; Sofocle lo segue con certa ritrosia.
Il tetrametro ha dieresi fissa. Oltre l'allungamento della seconda breve della dipodia, è consentita la soluzione dell'arsi (onde tribrachi là dove la tesi è breve; anapesto dov'essa è lunga, cioè soltanto in sede pari; riluttante a questa libertà è il secondo piede). Licenza rara ma incontestabile è la sostituzione del dattilo al trocheo. Del resto la storia interna del tetrametro è talmente parallela a quella del trimetro giambico, che valgono per esso tutte le regole enunciate per quello (v. giambo), sicché lo si può considerare praticamente come un trimetro al quale sia stato preposto un cretico. Anche qui i giambografi sono i più rigorosi, la commedia la più libera; dei tragici è più libero Euripide da un certo momento in poi, da quando anche nel trimetro ammette più di una soluzione. Anche qui vigono per giambografi e tragedia la legge di Porson e quella regola più generale che non consente fine di parola dopo tesi lunga, tranne dinnanzi alla dieresi (regola di Havet-Maas); vigono anche i divieti di strappamento.
Il settenario è recitativo; lunghe serie di dimetri catalettici o acataletti, mescolati o no, costituiscono parti essenziali della commedia (πνίγη, μακρά) nella parabasi e altrove. La commedia fa largo uso del trocheo anche in strofi liriche e lo adopera puro o mescolato con cretici (peoni) che rappresentano la sua forma catalettica. Tali strofi comiche hanno carattere popolare. Quanto alla tragedia, Eschilo usa largamente dei trochei nelle parti liriche, e li adatta al canto, conferendo loro insieme gravità, per mezzo di frequenti sincopi; la dipodia appare, secondo che sono soppresse la seconda breve, la prima, o ambedue, quale cretico - − -, palimbacchio - - −, o spondeo - -, eccezionalmente si trova anche il molosso - - - . Qui, come sempre in metrica, il contesto ritmico decide della scansione. Sofocle si mostra riluttante rispetto ai trochei anche nelle parti liriche; Euripide li adopera largamente da quando lo stile dei suoi cori e particolarmente delle sue monodie diviene librettistico, cioè ha la mira ai virtuosi del canto. Le responsioni sono in lui liberissime, a segno che spesso a una dipodia acataletta risponde una catalettica. Aristofane esagera e parodia queste libertà euripidee nella Lisistrata; nelle Rane egli deride particolarmente l'uso che Euripide fa troppo frequentemente del dimetro catalettico, che da un verso parodico di questa commedia è da allora in poi chiamato lecitio (ληκύϑιον "ampollina").
Frequente, dopo trochei, ma anche come clausola di altre strofe è l'itifallico - − - − - -. L'itifallico fu in origine un membro a sé, non analizzabile ulteriormente, e anzi fu adoperato stichicamente da Saffo. In Saffo esso ha numero di sillabe fisso, come tutte le forme metriche eoliche. Più tardi esso fu sentito come un dimetro trocaico; lo spondeo finale rappresenta, come spesso in versi trocaici, un'intera dipodia. In questo stadio, p. es. in Euripide e Aristofane, le arsi possono essere sciolte.
Nella più antica poesia romana, in saturnî, l'itifallico forma spesso, alternandosi con il reiziano, la seconda parte del verso. I Romani, probabilmente, lo conobbero quale verso indipendente a Cuma durante l'età regia e di lì l'introdussero nella loro letteratura (v. saturnio, verso).
Nella metrica del dramma, ha posizione centrale il settenario trocaico (v. senario), geniale trasformazione del tetrametro. Plauto adopera anche talvolta, per esprimere esaltazione singolarissima, l'ottonario trocaico, cioè un tetrametro acataletto, usato anche dalla lirica greca; più spesso, sul modello della commedia antica, dimetri; egli usa anche l'itifallico. Membri trocaici e giambici si alternano talvolta tra loro sia in lui, sia in Terenzio, che non fa quasi uso di altre specie liriche.
Bibl.: Sul tetrametro trocaico, J. Kanz, De tetrametro trochaico, Giessen 1913; W. Krieg, in Philologus, XCI (1936), p. 42; sulla regola di Havet-Maas, L. Havet, Cours élémentaire de métrique, 1886, pp. 1-4; 1893, 3a ed., pp. 112-122; P. Maas, in Philologus, XVII (1904), p. 298; id., Responsionsfreiheiten, II, Berlino 1921, p. 18, 2. Sui trochei in genere, Wilamowitz, Griechische Verskunst, Berlino 1921, p. 264. Sull'itifallico, v. da ultimo G. Pasquali, Preistoria della poesia romana, Firenze 1936, p. 36.