Trombosi
Il termine trombosi (dal greco ϑρόμβωσις, derivato di ϑρόμβος, "grumo, trombo") indica la condizione morbosa caratterizzata dalla formazione all'interno di un vaso sanguigno di un agglomerato, detto appunto trombo, costituito da un reticolo di fibrina. La fibrina è il risultato finale della sequenza di reazioni della coagulazione del sangue, che coinvolge in primo luogo le piastrine, ma anche i globuli rossi e bianchi. La trombosi può essere interpretata come una modalità 'patologica' dell'emostasi, il normale processo dell'organismo umano finalizzato al controllo delle emorragie e di per sé dotato di meccanismi di autolimitazione. Il fenomeno trombotico ha come conseguenza una riduzione, che può giungere all'ostruzione completa, del lume del vaso in cui si verifica, determinando una sofferenza su base circolatoria dei distretti corporei che a esso fanno capo. Le diverse caratteristiche anatomiche e funzionali di arterie e vene fanno sì che la trombosi abbia cause e modalità diverse nei due tipi di vasi sanguigni.
Le malattie che conseguono a un evento trombotico, come quelle dovute a interessamento delle arterie del cuore (angina, infarto, morte cardiaca improvvisa), dell'encefalo (ischemia transitoria, ictus ischemico) e di altri organi, o a interessamento dei vasi venosi (soprattutto trombosi venosa profonda ed embolia polmonare) rappresentano, attualmente, la principale causa di malattia e di morte nei paesi sviluppati. Si stima che in Italia circa 500.000 persone ogni anno vengano colpite da trombosi. La mortalità per malattie cardiovascolari rappresenta circa il 60% della mortalità globale e oltre la metà di queste morti è dovuta a eventi trombotici arteriosi acuti. Per quanto concerne la trombosi venosa i dati sono meno precisi, in quanto sovente non è diagnosticata; si calcola un'incidenza annua di circa 2-3 trombosi venose profonde ogni 1000 persone e si ritiene che l'embolia polmonare possa costituire la terza causa di morte nella popolazione generale e la più frequente nei soggetti che sono ricoverati in ospedale. L'impatto sulla salute di questo gruppo di malattie è quindi notevole, non solo in termini di mortalità, ma anche in termini di morbilità e di sequele permanenti di tipo invalidante con elevato costo sociosanitario.
La prima descrizione schematica dei fenomeni che sono alla base della trombosi risale al 1856 e si deve a R. Virchow, l'anatomopatologo tedesco che individuò e definì i tre punti da allora noti come 'triade di Virchow' e che nella sostanza sono ancora oggi validi: 1) modificazioni della parete vascolare, da intendere anzitutto come danno delle cellule che rivestono il lume del vaso (cellule endoteliali); 2) modificazioni locali del flusso ematico, rappresentate in primis dal rallentamento della velocità (stasi) o dall'aumento della turbolenza del sangue che scorre dentro un vaso; 3) modificazioni della composizione del sangue, costituite soprattutto dall'attivazione distrettuale o generalizzata della coagulazione del sangue (ipercoagulabilità o anche stato protrombotico). Queste modificazioni sono normalmente contrastate da meccanismi naturali di difesa; è il venire meno di questi ultimi oppure il loro essere in qualche misura sopravanzati dai meccanismi protrombotici a determinare l'avvio della trombosi. a) Il danno della parete vascolare. La parte più interna della parete vascolare, a contatto con il sangue circolante, è l'endotelio, costituito da uno strato di cellule adagiato su uno strato sottostante di materiale non cellulare con funzioni di sostegno (subendotelio). Le cellule endoteliali integre sono dotate di proprietà antitrombotiche, in modo da evitare che il sangue coaguli all'interno del lume. Il loro danneggiamento altera questo meccanismo naturale ed espone al sangue il subendotelio, dove si trovano proteine dotate di capacità trombogeniche quali il collagene e il fattore von Willebrand. Il danno di parete può essere il risultato di molteplici cause, spesso agenti in sinergia e coinvolte anche in altri momenti patogenetici della trombosi. Quest'ultima è infatti un fenomeno complesso e risulta pertanto difficile darne una rigida schematizzazione senza tener conto delle numerose interconnessioni tra le sue diverse fasi. Tra le cause di danno endoteliale, vanno ricordate: l'ipertensione arteriosa, l'ipercolesterolemia, l'aterosclerosi, il diabete e il fumo di sigaretta. Esse agiscono in particolare a livello della parete delle arterie, mentre si ritiene che il loro influsso sulla parete delle vene, e quindi sulla trombosi venosa, sia meno rilevante. b) Le alterazioni del flusso. Nei meccanismi della trombogenesi sono coinvolti sia un'accelerazione sia un rallentamento locali del flusso. L'accelerazione dà un contributo importante alla trombosi dei vasi arteriosi; essa si verifica localmente, per es. a livello di una lesione endoteliale dovuta a una placca aterosclerotica che causa restringimento del lume, per una legge fisica che correla inversamente la velocità del flusso al calibro del vaso. L'aumentata velocità del sangue è di per sé capace di attivare le piastrine e la coagulazione (v.), oltre che di sostenere e aggravare il danno dell'endotelio. Inoltre le turbolenze di flusso che si verificano a livello del restringimento, alterando il normale regime di flusso laminare con disposizione assiale delle cellule, facilitano le interazioni tra piastrine e parete lesionata. Il trombo che si forma in queste condizioni di flusso è ricco di piastrine e fibrina (trombo 'bianco'). Il rallentamento è viceversa importante nella trombosi dei vasi venosi; esso agisce in senso protrombotico in quanto capace di attivare i leucociti e di determinare ipossia, condizioni associate all'attivazione della coagulazione e al danno endoteliale. Un rallentamento locale della circolazione del sangue nelle vene, distretto vascolare di per sé a bassa pressione e velocità di flusso, si verifica in diverse situazioni: 1) ridotta attività della pompa muscolare in caso di prolungata immobilizzazione in quanto il tono e la contrazione della muscolatura volontaria, soprattutto a livello degli arti inferiori, sono determinanti nel promuovere il ritorno del sangue verso il cuore; 2) aumento del calibro del vaso, come nel caso della formazione di varici; 3) flusso ostruito, come nel caso di compressioni del vaso dall'esterno. Il trombo che si forma in queste condizioni di flusso è costituito in modo significativo, oltre che da fibrina e piastrine, anche da globuli rossi (trombo 'rosso'). c) L'attivazione della coagulazione. La trombosi costituisce in un certo senso un eccesso patologico del processo fisiologico dell'emostasi. All'emostasi fisiologica contribuiscono: la parete vascolare, in particolare con le proprietà dell'endotelio; le cellule del sangue, prevalentemente mediante le piastrine; la fase liquida del sangue (plasma), con le proteine appartenenti al sistema della coagulazione, che interviene mediante una serie di reazioni in sequenza (a cascata). Le reazioni della coagulazione si concludono con la formazione e deposizione della fibrina, una proteina fibrillare insolubile che costituisce l'ossatura sia del coagulo normale sia del trombo, strutturandosi in un reticolo tridimensionale in cui sono contenuti in varia misura i diversi tipi di cellule del sangue (piastrine, globuli rossi e globuli bianchi). Nella situazione fisiologica, l'eccesso di coagulazione viene impedito da meccanismi protettivi intrinseci, i quali hanno il compito di limitare l'attivazione delle proteine della coagulazione (anticoagulanti naturali), di contrastare l'eccessiva formazione di fibrina (sistema della fibrinolisi) e di impedire una coagulazione disseminata e non finalizzata, eliminando dal sangue le proteine attive della coagulazione (sistema reticoloendoteliale). Un'eccessiva attivazione della coagulazione (ipercoagulabilità) locale oppure sistemica può conseguire all'inadeguatezza di uno o più di questi meccanismi naturali di controllo, e risulta coinvolta nell'insorgenza di trombosi soprattutto a livello delle vene.
La trombosi di un'arteria determina il restringimento del lume di un vaso che normalmente garantisce l'adeguato apporto di sangue (e con esso di ossigeno e di nutrienti) al distretto corporeo pertinente; come conseguenza del ridotto flusso di sangue e dell'insufficiente apporto di ossigeno si instaura un'ischemia (v.), cioè una sofferenza su base ipossica dei tessuti a valle del restringimento. Il quadro clinico di un'ischemia può manifestarsi cronicamente oppure in modo acuto e drammatico; parimenti può riconoscere delle occasioni scatenanti, come lo sforzo che aumenta le richieste metaboliche di un tessuto, oppure comparire in modo assolutamente casuale. Nel campo della trombosi si utilizza il termine di fattore di rischio (v. rischio), piuttosto che quello di causa, riferendosi a quelle condizioni dotate di un nesso di plausibilità biologica con il fenomeno, che più frequentemente si ritrovano nei soggetti affetti rispetto a quelli sani. Tali fattori sono: età (oltre i 65 anni viene a cadere la differenza tra maschi e femmine); sesso (maschile fino a 65 anni circa); familiarità; patologie cardiovascolari pregresse; diabete mellito (accelera l'arteriosclerosi e si associa a dislipidemia); dislipidemia (ipercolesterolemia e/o ipertrigliceridemia); ipertensione arteriosa; iperfibrinogenemia e probabilmente elevati livelli di fattore VII; iperomocisteinemia; obesità; fumo di sigaretta; sedentarietà; stress; tipo di personalità. La trombosi e l'aterosclerosi (v. arteriosclerosi) condividono la maggior parte dei fattori di rischio, fatto tutt'altro che casuale dal momento che dal punto di vista anatomopatologico la maggior parte delle trombosi arteriose si verifica a livello di una lesione aterosclerotica. La stretta interconnessione tra aterosclerosi vascolare e malattia trombotica arteriosa è quindi testimoniata sia dall'osservazione che il trombo arterioso insorge su una placca aterosclerotica complicata (termine che definisce la lesione anatomica della parete a uno stadio avanzato), sia dalla constatazione che la trombosi favorisce l'estensione della lesione aterosclerotica con ulteriore progressione del danno della parete vascolare. L'aterosclerosi è un fenomeno complesso e progressivo di alterazione localizzata della parete di un vaso arterioso avviato, secondo l'ipotesi più accreditata, da un danno dell'endotelio. La placca aterosclerotica, che ne rappresenta la lesione anatomica elementare, ha caratteristiche e composizione diverse in rapporto alla sua evoluzione, che può essere schematizzata in quattro stadi: 1) accumulo di grassi (specie colesterolo) e cellule di tipo monocitario/macrofagico, per alterazioni funzionali dell'endotelio causate da alterazioni del flusso ematico a livello delle diramazioni vascolari; 2) formazione della placca vera e propria con adesione piastrinica, infiltrazione e proliferazione di cellule muscolari e fibrose in seguito all'azione di stimolo dovuta ai macrofagi; 3) complicazione della lesione con sovrapposizione di fenomeni trombotici a causa della rottura della placca sul versante del lume vascolare, dovuta a stress meccanico; 4) evoluzione verso un'occlusione acuta del vaso per la formazione di un trombo occludente, oppure verso una crescita ulteriore della placca per l'inglobamento in essa del trombo, risultante in un restringimento di maggior entità del vaso stesso. Le manifestazioni cliniche della trombosi arteriosa dipendono pertanto dall'entità e dalla rapidità di insorgenza del restringimento del lume vasale e sono ovviamente legate alla sede anatomica del vaso colpito. Per rilevanza clinica ed epidemiologica vanno ricordate in particolare le trombosi delle coronarie, cioè delle arterie che vascolarizzano il cuore, e le trombosi delle arterie cerebrali. La trombosi coronarica si manifesta in modo estremamente variabile, con quadri clinici che vanno dall'ischemia transitoria e occasionale (angina pectoris) di varia gravità, all'infarto miocardico acuto fino alla morte cardiaca improvvisa (v. morte improvvisa). Il dolore toracico è il sintomo che più frequentemente viene descritto e che orienta verso una possibile patologia cardiaca, consentendo la diagnosi di cardiopatia ischemica. Va peraltro ricordato che una quota non indifferente dei soggetti affetti da cardiopatia ischemica nelle sue diverse forme è relativamente o del tutto asintomatica e che è possibile trovarsi di fronte a una malattia coronarica grave con esordio estremamente critico senza significativi sintomi nel periodo precedente la diagnosi. La trombosi cerebrale è a fondamento delle manifestazioni cliniche della malattia cerebrovascolare, a partire dalle sue forme meno gravi di ischemia transitoria fino all'ictus (v.) ischemico completo con sequele neurologiche permanenti. I sintomi neurologici sono estremamente vari e sono caratteristici per ogni particolare distretto encefalico colpito, stante la rappresentazione topografica dell'organismo e delle sue funzioni a livello del cervello. Qualsiasi altro distretto corporeo può in pratica essere colpito da una trombosi arteriosa, in quanto l'aterosclerosi diviene con il passare degli anni un fenomeno sistemico. Le trombosi delle arterie degli arti inferiori hanno come manifestazione tipica la claudicatio, originata dal dolore a livello degli arti che compare con il movimento e scompare con il riposo, segno di ischemia muscolare da sforzo. Le trombosi delle arterie viscerali dell'addome si manifestano in modo spesso non difforme da altre patologie degli stessi organi. Un disturbo focale della vista a insorgenza acuta può esprimere una trombosi a livello retinico. Per il trattamento di una trombosi arteriosa si dispone attualmente di presidi sia medici sia chirurgici: farmaci antipiastrinici, il cui capostipite storico è l'acido acetilsalicilico, comunemente noto come aspirina; farmaci anticoagulanti (i più usati sono le eparine nelle diverse forme e gli antagonisti della vitamina K); farmaci fibrinolitici; farmaci vasodilatatori e con proprietà protettive dell'endotelio; manovre endovascolari di dilatazione e posizionamento di protesi (angioplastica con palloncino ed eventuale posizionamento di dispositivi che mantengono il vaso aperto, o stent); interventi chirurgici di sostituzione del tratto di vaso ostruito (bypass); azioni finalizzate a modificare il profilo dei fattori di rischio (controllo della pressione arteriosa, dei livelli ematici di lipidi e del peso corporeo, abolizione del fumo, attività fisica adeguata, riduzione dello stress). Gli obiettivi dell'intervento terapeutico possono essere così schematizzati: limitare la progressione della lesione trombotica, contrastando i meccanismi patogenetici; limitare il danno tessutale, tentando di ripristinare la pervietà del lume del vaso; prevenire nuove manifestazioni trombotiche nella stessa sede oppure in altre sedi dell'organismo, intervenendo sui fattori di rischio modificabili. Di indubbio interesse sono infine le misure di cosiddetta prevenzione primaria (v. prevenzione) nei soggetti senza precedenti patologici noti, il rispetto delle quali consentirebbe una notevole riduzione sia della morbilità sia della mortalità. Se infatti alcuni fattori di rischio non sono modificabili, altri (come l'ipertensione arteriosa, l'iperlipidemia, l'obesità, la sedentarietà, il fumo di sigaretta, lo stress psicofisico) lo sono, almeno in linea teorica, con interventi di tipo igienico-comportamentale prima ancora che di tipo farmacologico mirato.
L'occlusione di un vaso venoso a opera di un trombo ha manifestazioni dovute principalmente alle ripercussioni dell'ostacolo al reflusso di sangue dal distretto corporeo tributario del vaso stesso. Come si è già detto, i principali meccanismi patogenetici della trombosi venosa sono individuabili nell'ipercoagulabilità e nel rallentamento locale del circolo. Anche a proposito della trombosi venosa è in uso parlare di fattori di rischio piuttosto che di cause. Essi sono rappresentati da: età avanzata; sovrappeso; alterazioni del sistema della coagulazione; neoplasie; malattie cardiovascolari (infarto, scompenso cardiaco); malattie ematologiche (sindromi mieloproliferative, mieloma); malattie infiammatorie sistemiche (lupus eritematoso e altre); sindrome nefrosica; gravidanza e puerperio; contraccettivi orali e terapia ormonale sostitutiva postmenopausa; immobilizzazione prolungata per cause mediche; chirurgia e traumi; condizioni ortopediche (chirurgia maggiore, fratture, apparecchi gessati); precedenti problemi trombotici. La trombosi venosa ha un'ampia tipologia di manifestazioni cliniche che comprende le flebiti superficiali, le trombosi venose profonde degli arti (inferiori e superiori), le embolie polmonari, le trombosi venose cerebrali, le trombosi delle vene retiniche e le trombosi venose dei visceri addominali. Le flebiti superficiali sono manifestazioni trombotiche a carico del circolo venoso superficiale, in genere degli arti. Riconoscono spesso fattori causali di tipo contingente (traumi diretti, occasioni di tipo iatrogeno come le punture endovenose, uso di prodotti ormonali), ma non va trascurata la possibilità che esprimano un disordine sistemico occulto; l'esempio tipico sono le flebiti superficiali migranti e ricorrenti nei pazienti con una malattia neoplastica. Dal punto di vista obiettivo, c'è una evidente infiammazione locale, a volte con chiara sovrapposizione infettiva. Le trombosi venose profonde degli arti (tipicamente gli inferiori) sono la forma clinica classica di malattia trombotica venosa. Le manifestazioni locali (dolore, gonfiore, limitazione funzionale) dipendono principalmente dall'ostacolato ritorno venoso dalla periferia al cuore, a causa di un trombo completamente o parzialmente occludente la vena colpita. Le trombosi venose profonde peraltro sono perlopiù clinicamente silenti; si calcola che circa un terzo di esse non venga diagnosticato al momento dell'insorgenza, a causa della scarsità o assenza di segni e sintomi. è altresì vero che la semplice valutazione clinica, senza il supporto di adeguate indagini strumentali, è spesso poco affidabile nel portare a termine il processo diagnostico. Si ha circa una sola possibilità su tre di diagnosi clinica corretta di trombosi in presenza di segni e sintomi, a causa della loro bassa specificità. La sindrome postflebitica è la conseguenza di una trombosi venosa profonda, possibile anche quando essa è correttamente trattata; in caso di un danno persistente del circolo venoso profondo (per mancata o incompleta ricanalizzazione, o per ridotta elasticità di parete o per lesione irreversibile delle strutture valvolari che orientano il flusso di sangue) viene sovraccaricato il circolo venoso superficiale con formazione di varici secondarie, trasudazione di liquidi a livello delle parti molli e sofferenza dei tessuti. Benché non sia pericolosa per la vita, tale situazione è indubbiamente invalidante e capace di limitare pesantemente la qualità della vita. Oltre che per le ripercussioni a livello locale, prevalentemente legate alle alterazioni della circolazione venosa, le trombosi venose profonde sono temibili soprattutto per il rischio di distacco di frammenti del trombo che, seguendo il torrente circolatorio, possono arrivare alle cavità destre del cuore e da qui al circolo polmonare; questa evenienza viene definita embolia polmonare e può arrivare a mettere in pericolo la vita del malato a causa delle ripercussioni sia sulla funzione circolatoria sia sulla funzione respiratoria. Infatti la parte del polmone embolizzata è inefficace dal punto di vista degli scambi aria/sangue, in quanto è esclusa dalla circolazione; inoltre se l'embolia risulta molto estesa (massiva), o a carico di un grosso ramo del circolo polmonare, provoca un importante ostacolo alla circolazione del sangue, sovraccaricando la pompa cardiaca in modo severo (cuore polmonare acuto, con collasso cardiocircolatorio). Anche l'embolia polmonare ha segni e sintomi clinici poco specifici: ne sono indicatori un affanno respiratorio (dispnea) improvviso, un dolore toracico, una tosse a volte con presenza di sangue nell'espettorato, un aumento della frequenza cardiaca (tachicardia) e un calo della pressione arteriosa (collasso). Essa necessita pertanto sempre di una conferma strumentale e deve in ogni caso essere sospettata nei malati a rischio, tenendo presente che i due terzi delle embolie polmonari si manifestano senza segni evidenti di una trombosi venosa periferica e che circa la metà dei malati con trombosi venosa ha una embolia silente. Assai rare, e talora clinicamente gravi, sono anche le trombosi venose del circolo cerebrale che si manifestano con disturbi di tipo neurologico, quali cefalea, manifestazioni di tipo convulsivo e alterazioni del comportamento o della coscienza fino al coma. L'insorgenza di una trombosi venosa a livello della retina comporta alterazioni della visione, che arrivano fino alla cecità se viene interessata in modo irreversibile la vena centrale della retina stessa. Le trombosi venose delle vene viscerali dell'addome sono ugualmente rare; in genere, esse esprimono una condizione di ipercoagulabilità occulta. In tempi recenti ne è stata segnalata l'associazione con malattie mieloproliferative in fase subclinica, nonché con la β-talassemia. Assai più rare sono le trombosi venose a carico degli arti superiori; oltre alle flebiti superficiali iatrogene, da puntura endovenosa e da iniezione di farmaci come alcuni chemioterapici, le trombosi profonde riconoscono in genere un'occasione come un violento sforzo muscolare o un fattore anatomico predisponente che causa un ostacolo esterno al ritorno venoso. Il trattamento della trombosi venosa, nelle sue diverse manifestazioni, è modulato, a seconda della gravità del fenomeno, con interventi mirati specificamente a limitare la progressione del fenomeno, a favorire la ricanalizzazione del vaso interessato e a prevenire le complicazioni a distanza. In sintesi, si impiegano: eparine e farmaci anticoagulanti orali, in grado di limitare la crescita del trombo e di facilitarne la lisi spontanea, spostando l'equilibrio della bilancia emostatica in favore dei meccanismi antitrombotici; farmaci fibrinolitici, che promuovono una lisi farmacologica del trombo e il cui utilizzo è attualmente approvato solo per le embolie polmonari gravi; dispositivi di tipo meccanico, che riducono la stasi venosa comprimendo gli arti inferiori o che impediscono il passaggio di emboli dalle vene al circolo polmonare (filtri in vena cava inferiore), indicati soprattutto nelle situazioni in cui, per un rischio elevatissimo di sanguinamento, non è possibile fare ricorso ai farmaci precedentemente descritti. La prevenzione primaria delle trombosi venose può dirsi schematicamente orientata in due direzioni. In primo luogo essa mira a intervenire sui fattori di rischio costituzionali con misure igienico-comportamentali (diete, attività fisica, indumenti non costrittivi) finalizzate alla riduzione del peso corporeo, al miglioramento del tono muscolare e del ritorno venoso. È ancora oggetto di dibattito se sia opportuna l'esecuzione di screening di laboratorio di massa alla ricerca di alterazioni biochimiche (genetiche o acquisite) che predispongono alla trombosi. In secondo luogo essa si propone di controllare i fattori di rischio circostanziali, con adeguate misure di tipo profilattico, nelle situazioni a rischio già descritte, e con la valutazione del rapporto rischio/beneficio di terapie ormonali o di taluni interventi chirurgici. Queste misure sono ancor più indicate nella prevenzione secondaria, in soggetti che, per essere già stati colpiti da trombosi, sono a rischio ancora più elevato.
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