TRONO LUDOVISI
Grande rilievo marmoreo su tre facce rinvenuto nel 1887 nell'ambito dell'antica Villa Ludovisi a Roma, tra l'odierna via Piemonte e via Abruzzi. Il monumento, in un primo tempo venuto a far parte della raccolta Ludovisi, venne poi (insieme al nucleo centrale di questa) acquistato dal Museo Nazionale Romano nelle Terme di Diocleziano.
Si tratta di una cospicua scultura di età severa, forse del più nobile marmo ellenico reso dal suolo di Roma. Il nome tradizionale e oramai inevitabile si deve a una labile ipotesi avanzata da E. Petersen (Röm. Mitt., vii, 1892, p. 33 ss.) a ricollegare questo singolarissimo marmo con la grande testa di dea tardo-arcaica rinvenuta praticamente nella stessa zona e anch'essa passata nel Museo delle Terme. Si sarebbe trattato dell'immagine di culto di Afrodite Ericina e di un suo ornatissimo trono, da un santuario ricordato dalle fonti in quella parte della città. Né altro nome più convincente e adattato è da proporre, visto che la scultura, a circa ottanta anni dalla scoperta, presenta ancora delle questioni aperte tra le più tormentose e insidiose che esistano nel campo della storia dell'arte antica. A che classe di monumenti esso appartenga, che cosa si è inteso rappresentare nei tre pannelli a rilievo, e infine le relazioni accettate o rifiutate con il discusso pendant di Boston (v. trono di boston) simile nella forma e nella sintassi decorativa, sono tutte questioni cui non è stata data una risposta completamente soddisfacente.
La forma è in qualche maniera riconducibile a quella di un altare, come ad esempio quelli "a porte", di cui due notissimi esempî a Thasos. Un recente studio di E. Langlotz, in un estremo tentativo di conciliare opinioni disparate, postula addirittura una fusione, una sorta di scorrimento tra le due forme distinte del trono e dell'altare, a partire dal cosiddetto Trono di Agamennone da Samotracia, sino alla tomba di Giacinto inserita nel Trono dell'Apollo di Amyklai. Ancora più sorprendenti le figurazioni del trittico, così insolite e così cariche di una incomparabile suggestione, quella centrale con una dea emergente a metà figura tra due assistenti, nei lati due donne sedute su cuscini, apparentemente impegnate in un arcano rituale. La chiara opposizione tra la fanciulla ammantata che depone un grano d'incenso nel thymiatèrion e l'etera nuda che suona il flauto sembra proporre aspetti cultuali peculiari ad Afrodite. Mentre indubbiamente la maggior parte delle interpretazioni del monumento si appoggiano quasi unicamente su una lettura del lato principale, sorvolando i lati minori. Così le varie ipotesi che hanno proposto di vedervi Gea, Rhea purificantesi, Hera Tèleia, Teti partoriente, Persefone risorgente dal suolo, un indeterminato bagno lustrale di una divinità, non tengono quasi conto di queste importantissime quinte. In realtà le due ierodule sui lati, nel loro nitido iscriversi in un triangolo, sembrano ripetere la funzione delle figure angolari dei frontoni, in qualche modo distaccate eppure partecipanti, inseparabili dall'evento centrale. Così Helios e Selene, i Fiumi, le vecchie donne atterrite di Olimpia. Vi è in esse come la quieta enunciazione di un modo di essere, l'immobilità essenziale di un simbolo, come nelle figurazioni delle virtù medievali. E da questa quieta e sommessa tensione mistica si arriva all'estatico appello del radioso volto della dea emergente, rivolto in alto tra le due braccia levate.
È indubbio che deve trattarsi di uno di quegli eventi misteriosi e supremi, come una nascita, un ànodos, un ritorno. L'ipotesi troppo blanda e anòdina di una lustrazione, di un bagno rituale, appare troppo inadeguata per l'evento segreto e trionfale che qui viene rivelato. A noi peraltro è impossibile trovare un accordo sul nome della dea, sul tipo di nascita o di ritorno che è qui figurato. Si è discusso per generazioni se i minuti ciottoli in pendio meglio convengano alla spiaggia marina di Afrodite o al bòthros di Persefone, sul grande mantello teso che sembra far presupporre l'elemento umido da cui la figura emerge. Si ha in definitiva la netta impressione che il monumento, per tanti aspetti così singolare, fosse di quelli non esposti agli occhi di tutti i devoti e che di necessità le figure posseggono un senso esoterico che non è dato spiegare sulla base del consueto linguaggio figurativo dell'arte severa. Il dramma si svolge in un'atmosfera esclusivamente femminile, quasi soffocata da drappi e da rituale: e anche i ciottoli del declivio non sembrano portare nessuna nota di aria aperta e di spazi liberi come è consueto nella nascita marina di Afrodite.
Né maggiori chiarificazioni sembra possano aversi dal dato più importante emerso in questi ultimi tempi da una nuova ricomposizione di due pinakes locresi, dovuta a P. Zancani Montuoro. Uno dei due pannelli così riguadagnati ci presenta una piccola dea apparentemente emergente dalle onde, tra due assistenti che l'accolgono con un drappo spiegato; il secondo, Persefone accoccolata e come ripiegata su se stessa sulla cresta di un'onda, che giunge al lido dove l'accoglie Demetra con la face. Per il primo dei due pannelli che presenta così spiccate corrispondenze formali con la facciata principale del T. L., è stato già fatto il nome di Afrodite, per altri aspetti non facilmente inseribile nel contesto del santuario di Locri. In ogni modo i fatti più importanti che emergono da queste ricomposizioni sono la conferma di una affinità formale già da alcuni postulata tra il T. L. e la produzione dei rilievi di Locri: e in più il motivo di un ànodos marino di Persefone e in un certo modo di una usurpazione o contaminazione con schemi figurativi tradizionalmente sacri ad Afrodite. E di conseguenza, questa sorta di graduale fusione tra la storia mitica e le figurazioni rituali delle due divinità, sembra rendere ancora più ardua l'identificazione della dea del Trono Ludovisi.
Bibl.: Si veda anche trono di boston. Dopo la bibliografia trattata in E. Simon, Die Geburt der Aphrodite, Berlino 1959, si aggiunga: L. Alscher, Götter vor Gericht, Berlino 1963, passim; P. Zancani Montuoro, in Essays in Memory of Karl Lehmann, New York 1964, p. 386 ss.