troppo (tro')
Avverbio di quantità di media frequenza nelle opere di D., con una trentina di occorrenze in quelle canoniche (quasi un terzo fuori della Commedia), e oltre 50 nel Fiore (due volte nel Detto).
L'allotropo tro', che si registra in tre luoghi del Fiore (XLIII 6 e 7, e CLXV 11), è senz'altro di ascendenza francese: cfr. B. Migliorini, Storia della Lingua Italiana, Firenze 1960, 127-128 (dov'è citato espressamente il tro' grella di XLIII 6), e v. anche GALLICISMI.
L'avverbio compare in rima in If XIII 119 e in XXII 110, in entrambi i casi in posizione prepausale, prima di una virgola (e in contesti in cui una rima ‛ aspra e chioccia ' ben si colloca); è invece all'inizio di verso in Pg XIV 125, XXII 35 e Pd XI 104, con enjambement, mentre in Pd IX 55 è collocato in posizione iniziale ‛ assoluta ' (cioè coincidente con l'inizio di periodo).
Come per l'aggettivo, l'impiego più diffuso dell'avverbio è quello d'indicare un grado, una situazione di ‛ eccesso ' nei confronti di una ‛ misura ' che si pone, dialetticamente, come ‛ giusto mezzo ', e che è generalmente implicita nel contesto: cfr. al riguardo il passo di Pg XXII 35, con il commento del Sapegno, riportato più sotto.
Questo valore (in senso assoluto) è chiaro quando t. è usato come modificatore verbale: Vn XXXVII 1 Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; If XIII 119 l'altro, cui pareva tardar troppo, / gridava; Pg XXII 35 avarizia fu partita / troppo da me (" ogni virtù è, aristotelicamente, mezzo tra due vizi estremi; così l'uso misurato delle ricchezze sta fra i due eccessi della prodigalità e dell'avarizia ", Sapegno; e cfr. XXIV 153); e v. ancora i casi di Fiore XVIII 1 e CLXXX 4, sempre seguendo il verbo cui si riferisce; tuttavia, generalmente l'ordine avverbio-verbo è più consueto: Vn XXXVIII 1 Ricovrai la vista di quella donna in sì nuova condizione, che molte volte ne pensava sì come di persona che troppo mi piacesse; Cv I VI 4, If XXII 70 E Libicocco " Troppo avem sofferto ", / disse (si noti la collocazione enfatica, qui propria del parlato); Pg XIV 125 (con enjambement tra verbo e avverbio), XVII 136, XX 9, XXII 43, Fiore IX 7 (I' credo che tu ha' troppo pensato, e cfr. X 4), XVII 14 (con ‛ fallare ', come in XCIV 9, e in CCIV 9; cfr. pure, con ‛ fallire ', XVIII 1 e XXIV 12; con ‛ misprendere ' CXIX 14, e anche CLXIX 8), III 3, CLXV 13 (se la roba troppo le traina, / levila un poco), Detto 214 e 424 troppo gente assalta (sulla cui interpretazione cfr. ASSALTARE).
Nello stesso senso, l'avverbio si accompagna ad aggettivi (che di regola precede), specificandone, sotto l'aspetto del ‛ grado ' (quantità in generale), il valore: Vn XVIII 9 pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me (con lo stesso aggettivo, in Cv IV XX 4); If X 27 quella nobil patrïa [Firenze] ... / a la qual forse fui troppo molesto (il sintagma avverbio-aggettivo ritorna in clausola finale di verso in XIX 88, Pg XXXIII 25, Pd IV 87, XI 73, XIII 130, con enjambement, e XIV 130, analogo quest'ultimo a Pg XI 126; qui anche Pg XXXII 9 io udi' da loro un " Troppo fiso! "); Pd IX 55 Troppo sarebbe larga la bigoncia / che ricevesse il sangue ferrarese, / e stanco chi 'l pesasse a oncia a oncia (da rilevare, oltre alla collocazione iniziale ‛ forte ' dell'avverbio, il possibile doppio riferimento, se s'interpreta, con Benvenuto, ‛ t. stanco '; ‛ t. larga ', in tutt'altro contesto, ancora in Pd XXX 105; si confronti inoltre la dittologia di Detto 94); Pd XXIV 27, Fiore XLIII 6-7 sì non son troppo grossa né tro' grella, / né troppo grande né tro' picciolella (un'altra coppia antinomica in CLXV 11); CCXI 13 veggh'i' ben ch'è vita troppo dura, / quando tu hai paura di morire; e ancora XXXII 13, LXXXII 11 (‛ t. finamante '), LXXXVIII 9 (‛ t. aperto ', e cfr. il v. 11), XCIV 9 (‛ t. gran ' + sostantivo, qui ‛ dolore '; inoltre CXX 6 ‛ noia ', CCXVI 4 ‛ torto '; anche, nel senso di " estremamente grande ", CLXXI 5 ‛ fretta ' e CCXIV 5 ‛ taglia '); CLIII 11 (‛ t. crespa ' che rinvia a ‛ t. antica ' del v. 14), CLIX 4 e 8 (anche qui in corrispondenza tra loro), CLXII 2, CLXVIII 5, CLXXXVIII 11 e 12, e CCXVIII 11 troppo gli parea l'attender grieve; qui anche Cv II IV 12 troppo maggior numero, da confrontare con Rime CVI 130 (troppo è più ancor) e Fiore CL 6, e v. anche, citato più sotto, Pg XII 116.
In qualche caso, l'avverbio segue l'aggettivo, ai fini di una messa in risalto cui concorrono anche altri accorgimenti stilistico-formali, quali la posizione in rima (in If XXII 110 Malizioso son io troppo, / quand'io procuro a' mia maggior trestizia) o l'enjambement tra aggettivo e verbo (in Pd XI 104 per trovare a conversione acerba / troppo la gente.../ [s. Francesco] redissi al frutto de l'italica erba).
Infine, t. può riferirsi anche ad avverbi o a locuzioni avverbiali: Cv I II 2, If XX 38 (‛ t. davante ', anche in questo caso in clausola finale di verso), XXXI 23 Però che tu trascorri / per le tenebre troppo da la lungi, / avvien che poi nel maginare abborri; Fiore CLI 11 (‛ t. tosto ', come in CLXII 7 e in CLXXII 2), CLVIII 6, CLXXVII 3 e CXCII 14 solamente a costui ben volea / ... ché troppo dolzemente mi scuffiava; qui anche XXXVIII 10 (‛ t. oltre misura ').
Come l'aggettivo, anche l'avverbio ha, accanto al valore più generale, un altro valore che non indica un ‛ eccesso ' bensì una quantità ‛ estremamente grande ' (cfr. Tommaseo, Dizionario, sub v. troppo avv. 2.); tale valore, nelle opere sicuramente dantesche, si ritrova con certezza solo in Pg XII 116 Già montavam su per li scaglion santi, / ed esser mi parea troppo più lieve / che per lo pian non mi parea davanti, mentre è largamente diffuso nel Fiore: CXCVII 14 e' non fece anche oltraggio / in nessun luogo, ch'i' udisse dire, / ma troppo il loda l'uon di gran vantaggio (" che anzi ognuno lo loda moltissimo ", Petronio); e ancora XXVI 10, CXXVI 4, CXXVII 7, CXXXI 4 (‛ t. ben ', come in CCVII 5, e in CCXXIII 11, che va confrontato con CCXXIV 1), CLXXI 5 (‛ t. gran ' come in CCXIV 5, già citato), e CXCIII 5.