Abstract
Il trust, strumento utile alla segregazione del patrimonio al fine del perseguimento di scopi determinati, viene, in questa sede, analizzato quale veicolo impiegato dall’imprenditore che si trovi in uno stato di crisi più o meno avanzata per vincolare l’intera azienda o singoli beni e diritti che la compongono al fine di proteggerla da eventuali azioni esecutive individuali, di prevenire l’ammissione ad una delle procedure concorsuali o di favorirne una più rapida conclusione ovvero, infine, quale mezzo a garanzia dei creditori nell’ambito dei piani di risanamento ex art. 67 l. fall. e negli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis l. fall.
Il trust, istituto di derivazione anglosassone, fa ingresso nel nostro ordinamento a partire dalla ratifica della Convenzione dell’Aja del 1.7.1985, avvenuta con l. 16.10.1989, n. 364 e, da tale data, si annovera tra gli strumenti di cui l’autonomia privata dispone per segregare porzioni di patrimonio al fine del raggiungimento di uno specifico scopo e/o in favore di beneficiari determinati. La natura sostanzialmente internazional-privatistica della Convenzione e della legge che la ha resa esecutiva ha per lungo tempo costituito un forte ostacolo al riconoscimento di trust istituiti in Italia a prescindere da un conflitto di leggi tra più ordinamenti (trust cd. interni).
In mancanza di una disciplina nazionale, il dibattito sorto all’indomani della legge di ratifica ha inoltre fatto emergere profili di incompatibilità del trust con i principi propri del nostro ordinamento, non solo sotto il profilo proprietario, quanto anche sotto quello rimediale.
In particolare, ciò che differenzia il trust.dagli altri vincoli di destinazione disciplinati dall’ordinamento interno (art. 2645 ter, negozio fiduciario, fondo patrimoniale, patrimoni destinati ex art. 2447 bis), è il fatto di garantire una segregazione dei beni vincolati sia rispetto al patrimonio personale del disponente (settlor), sia rispetto a quello dell’intestatario di tali beni (trustee). Sebbene i beni segregati siano posti sotto la gestione del trustee, essi confluiscono in un patrimonio a sé stante, che, di fatto, non appartiene né al patrimonio del disponente né al patrimonio dello stesso trustee che ne risulta intestatario. Ne discende la non aggredibilità dei beni costituiti in trust da parte dei creditori personali del trustee e, in particolare, l’insensibilità dei beni stessi dalle vicende personali di quest’ultimo, non concorrendo alla formazione della massa ereditaria in caso di morte dello stesso né rientrando nel regime patrimoniale della famiglia nel caso in cui il trustee contragga matrimonio.
Quanto destinato a formare il trust fund non è legittimamente utilizzabile per finalità divergenti rispetto a quelle predeterminate nell’atto istitutivo. Il vincolo segregativo impresso dal trust sui beni che lo compongono ha efficacia reale nei confronti dei terzi, con ciò differenziandosi notevolmente dal negozio fiduciario, tipico del nostro sistema di diritto che, sebbene dia luogo ad effetti segregativi dei beni oggetto dell’intestazione fiduciaria, non impedisce al fiduciario di disporre dei beni a lui intestati persino contro la volontà del fiduciante medesimo, fatto salvo, in tal caso, l’obbligo di risarcimento del danno. Viceversa, in caso di gestione inefficiente del patrimonio da parte del trustee, la tutela di cui godranno disponente e beneficiari avrà efficacia non meramente obbligatoria ma reipersecutoria e sarà altresì idonea a travolgere gli acquisti dei terzi dal trustee infedele, a determinate condizioni.
Tra i molteplici utilizzi del trust, la prassi operativa recente ha registrato uno sviluppo considerevole di tale strumento nell’ambito della crisi d’impresa, utilizzato principalmente quale veicolo per segregare l’intera azienda o suoi singoli rami al fine di prevenire il fallimento o l’ammissione ad una delle procedure concorsuali o quale forma di garanzia per i creditori o, infine, per accelerare le operazioni di liquidazione del patrimonio in favore del ceto creditorio.
Il problema sollevato da simili ipotesi riguarda essenzialmente il rapporto tra le norme a tutela dei creditori nell’ambito della crisi di impresa e la funzione propria del trust.
Il rischio di uso distorto del trust.in tale particolare settore è elevatissimo come mostrano le recenti sentenze della giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 17.1.2015, n. 818, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 850) come di legittimità (Cass. 9.5.2014, n. 10105, in Trusts, 2014, 416) nelle quali si afferma l’irriconoscibilità nel nostro ordinamento di quei trust.istituiti al fine di provvedere in forme privatistiche alla liquidazione dell’azienda sociale, che abbiano l’effetto di sostituirsi alla procedura fallimentare sopravvenuta, non permettendo di fatto ai creditori la condivisione del governo del patrimonio trasferito al trustee.
Alla luce delle ricadute che il trust può avere sul piano della disciplina interna, la prima valutazione da compiere allorché si debba vagliare la liceità di un trust, riguarda la sua compatibilità con le norme inderogabili e di ordine pubblico del nostro ordinamento, come indicato dall’art. 15 della Convenzione dell’Aja.
L’interprete dovrà pertanto porre particolare attenzione sia alle circostanze che spingono un’impresa a costituire un trust, che al regolamento di interessi posto in essere tramite tale strumento, al fine di desumere la causa concreta dell’operazione e vagliarne gli eventuali profili di incompatibilità con l’ordinamento interno (Trib. Pescara, 5.5.2016, in www.iltrustinitalia.it, afferma che occorre svolgere un’indagine sulla causa concreta del trust in quanto non sarà riconoscibile laddove diretto ad offrire una tutela ad un regolamento d’interessi che contrasti con i fini di cui siano espressione norme imperative interne).
Nel caso in cui l’impresa non si trovi in uno stato di crisi, ma intenda diversificare la propria attività, vincolando una parte di patrimonio al perseguimento di una determinata finalità, il trust può rivelarsi uno strumento di grande efficacia.
Similmente ai patrimoni destinati a uno specifico affare disciplinati dagli artt. 2447 bis e ss. c.c., anche il trust non comporta la costituzione di un nuovo e diverso soggetto di diritto, ma permette ad uno stesso soggetto di separare dal proprio patrimonio una singola parte di esso ponendolo sotto una gestione economica e contabile del tutto autonoma. Tuttavia, l’ambito di applicazione del trust rispetto ai patrimoni destinati è ben più ampio (l’art. 2447 bis si applica solo alle società per azioni) e la gestione del patrimonio da parte del trustee, a differenza di quanto avviene per i patrimoni destinati, non è condizionata alla conservazione dei medesimi beni su cui si è istituito il vincolo, potendo questi essere surrogati in vista di una gestione dinamica degli stessi.
Tra le ragioni che spingono un’impresa in bonis a istituire un trust vi può essere quella di proteggere il patrimonio aziendale da possibili azioni esecutive da parte di singoli creditori. Segregando determinati beni a garanzia dell’adempimento delle obbligazioni contratte, l’impresa riuscirebbe a gestire la liquidazione dei beni segregati sulla base di un programma in grado non solo di soddisfare le istanze creditorie ma anche di conservare determinati cespiti, considerati essenziali alla continuazione dell’attività di impresa.
L’impresa che non sia in una situazione di dissesto economico-finanziario, ma si trovi in una situazione transitoria di scarsa liquidità, può ricorrere a tale tipologia di trust.(cd. trust protettivo) per evitare azioni individuali da parte dei creditori, a loro volta rassicurati tramite la costituzione di una forma atipica di prelazione (Palazzo, M., Il trust liquidatorio e il trust a supporto di procedure concorsuali, studio Consiglio Nazionale del Notariato, n. 305/2015/I, in www.notariato.it). In tal modo l’imprenditore potrà continuare a usufruire dell’intero compendio aziendale, compresa la parte di beni segregati in trust.a garanzia dei creditori, evitando nocive interruzioni dell’attività, al fine di un rapido superamento del temporaneo momento di difficoltà.
In senso positivo si è pronunciato più di una volta il Tribunale di Milano (Trib. Milano, 16.6.2009, in Trusts, 2009, 553 e ss. e Trib. Milano, 22.10.2009, in Trusts, 2010, 271 e ss.) affermando, in particolare, la legittimità di un trust istituto da un’impresa in bonis quando attraverso la segregazione di parte o di tutto il patrimonio l’impresa sia in grado di perseguire una più ordinata attività di liquidazione del patrimonio evitando azioni individuali dei creditori.
Tuttavia, l’utilizzazione pratica di tale istituto da parte delle imprese ha sollevato non poche questioni applicative.
Un primo problema è rappresentato dal fatto che la segregazione patrimoniale che il trust comporta rispetto a determinate porzioni di patrimonio costituisce un’evidente deroga al principio di responsabilità patrimoniale del debitore stabilito dall’art. 2740 c.c.
Certamente resta ferma la facoltà del creditore di promuovere l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. per far dichiarare inefficaci gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni, tra i quali gli atti dispositivi di trust. Sul punto, il legislatore è poi intervenuto con l’introduzione dell’art. 2929 bis c.c. che esonera il creditore pregiudicato da un atto del debitore in mala fede dall’obbligo di promuovere azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. a condizione che: i) l’atto pregiudizievole, che deve consistere nella costituzione di un vincolo o in una alienazione, non sia a titolo oneroso; ii) il credito sia anteriore; e iii) sussista un titolo esecutivo oltre alla trascrizione del pignoramento entro un anno dalla data di trascrizione dell’atto pregiudizievole.
Ulteriori questioni sorgono in merito alla compatibilità tra la struttura propria del trust e le norme che disciplinano le procedure concorsuali nel nostro ordinamento ogni qualvolta l’impresa divenga successivamente insolvente, giacché le azioni compiute in un momento anteriore alla declaratoria di fallimento potrebbero essere oggetto di revocatoria fallimentare. Sul punto si è espressa anche la giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 16.6.2009, cit.) distinguendo l’ipotesi di trust liquidatorio istituito quando la società disponente è ancora in bonis, nella quale la successiva dichiarazione di fallimento si configura come causa sopravvenuta di scioglimento dell’atto istitutivo del trust, dal caso di trust liquidatorio istituito nel momento in cui l’impresa disponente è già insolvente, in cui il relativo atto istitutivo deve ritenersi radicalmente nullo ab origine.
La nozione di crisi di impresa, originariamente coincidente con quella di insolvenza, a seguito dei mutamenti socio-economici che hanno interessato il mercato nazionale, è stata oggetto di un notevole ampliamento, arricchendosi di quelle situazioni nelle quali l’impresa, pur mostrando delle difficoltà, non può dirsi insolvente ai sensi della normativa fallimentare. Le ragioni di tale rilettura sono rinvenibili nel graduale abbandono di quell’atteggiamento di disvalore nei confronti dell’imprenditore in dissesto economico a favore di una maggiore propensione a garantire la sopravvivenza delle imprese sul mercato più che una loro fuoriuscita. Attraverso successivi interventi di riforma della legge fallimentare (r.d. 16.3.1942, n. 267) sono stati introdotti una serie di istituti finalizzati alla risoluzione della crisi d’impresa alternativi al fallimento e di competenza di organi diversi rispetto a quelli tradizionali, coinvolgendo anche privati e professionisti.
Sulla scia di tale tendenza evolutiva, il trust rappresenta uno straordinario strumento a disposizione dell’autonomia privata per il superamento della crisi di impresa attraverso la segregazione di parte del patrimonio in vista di specifiche finalità liquidatorie e di garanzia nei confronti del ceto dei creditori.
L’impiego del trust nell’ambito della crisi di impresa richiede, tuttavia, un’attenta analisi dello scopo in concreto perseguito da parte dell’impresa disponente, non più in una situazione di difficoltà solo transitoria, ma di crisi economico-finanziaria ben più grave, ovvero in un contesto nel quale il problema di compatibilità con la vigente disciplina in tema di procedure concorsuali è ancora più articolato.
La Cassazione, nella prima sentenza in cui si è occupata della particolare ipotesi del trust istituito da imprese in crisi (Cass., 9.5.2014, n. 10105), ha distinto tre fattispecie in astratto ipotizzabili. Il trust istituito in alternativa alle procedure di liquidazione disciplinate dal nostro ordinamento (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa), sarebbe ipotesi ammissibile solo previo intervento in tal senso del legislatore nazionale. Il trust.creato in alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d’impresa (piani di risanamento ex art. 67 l. fall., gli accordi di ristrutturazione del debito ex art 182 bis l. fall. e il concordato preventivo ex artt. 160 e ss. l. fall.), sarebbe ammissibile a condizione che il programma concretamente perseguito dallo stesso sia tale da garantire il rispetto di tutti gli interessi in gioco. Infine, il trust istituito con la finalità di ostacolare la procedura fallimentare tale da impedire, di fatto, lo spossessamento dei beni dell’imprenditore insolvente e sottrarre alla disponibilità degli organi della procedura il patrimonio aziendale, non sarebbe riconoscibile né produttivo di alcun effetto nell’ordinamento italiano in virtù di quanto disposto dall’art. 15, lett. e) della Convenzione dell’Aja, ponendosi oggettivamente in contrasto con il principio di tutela del ceto creditorio e non consentendo il normale svolgimento della procedura. Da tale irriconoscibilità conseguirebbe, poi, la nullità del trasferimento dei beni o dell’azienda operato in favore del trustee, ai sensi dell’art. 1418, co. 2, prima parte, c.c..
Alla luce dell’atteggiamento di forte critica nei confronti di quei trust.che hanno quale effetto quello di ostacolare il regolare svolgimento del fallimento o delle altre procedure concorsuali, anche denominati ‘trust anti-concorsuali’, merita di essere analizzata la possibile utilizzazione del trust.quale strumento di efficientamento delle procedure medesime.
In particolare, il trust istituito in funzione liquidatoria di determinati asset dell’impresa, se utilizzato a sostegno di talune specifiche fasi del fallimento da parte degli organi della procedura sarebbe in grado di accelerare l’attività di liquidazione del patrimonio in vista del soddisfacimento dei creditori concorsuali.
La giurisprudenza di merito si è trovata ad affrontare più di una volta tale particolare ipotesi e, sebbene non vi sia un orientamento univoco, alcuni Tribunali hanno accolto tale soluzione.
Le prime pronunce in tema di trust applicato a una procedura fallimentare provengono dal Tribunale di Roma che, con due successivi provvedimenti (Trib. Roma 3.4.2003, in Trusts, 2003, 411 e Trib. Roma, 4.4.2003, in Trusts, 2004, 406) ha ritenuto l’operazione di conferimento in trust.dei crediti vantati dalla società nei confronti dell’Amministrazione finanziaria meritevole di tutela e di interesse per la procedura concorsuale. Sempre in senso positivo, si è successivamente espresso il Tribunale di Saluzzo (Trib. Saluzzo, 9.11.2006, in Giur. mer., 2008, 3, 739) il quale ha ammesso l’operazione di conferimento del residuo attivo del fallimento in un trust al fine di ottenere la chiusura della procedura.
In linea teorica, la costituzione di un trust contestualmente alla chiusura del fallimento avrebbe il pregio di garantire il mantenimento della segregazione per quelle attività che non siano suscettibili di monetizzazione nel corso della procedura, ma che potrebbero essere mantenute in vita a garanzia dei creditori. A tal fine, per rendere la gestione dei beni in trust efficiente si potrebbe nominare quale trustee un soggetto terzo e imparziale, esperto in attività liquidatorie, oltre ad un guardiano nominato dai creditori, che sia in grado di verificare l’operato del trustee (Busani, A. – Fanara, C. – Mannella, G.O., Trust e crisi di impresa, Milano, 2013, 45).
In tal senso, la giurisprudenza di merito (Trib. Bologna 2.3.2010, in Trusts, 2010, 4) ha ammesso l’istituzione di un trust nel quale il curatore del fallimento veniva nominato guardiano e lo scopo era quello di segregare un immobile della società, poi dichiarata fallita, per sottrarre le somme eventualmente ricavate dalla vendita dello stesso al debitore con conseguente rischio di distrazione delle stesse, e per evitare di gravare il bene immobile di un’eventuale ipoteca che ne avrebbe diminuito il valore.
Viceversa, la creazione di un trust autodichiarato (nel quale soggetto disponente e trustee coincidono nella medesima persona) non determinando alcun trasferimento ma concretizzandosi nella sola apposizione di un vincolo di destinazione su taluni beni del patrimonio del disponente, non sembra fornire una garanzia idonea ai creditori.
Anche un’interpretazione estensiva dell’art. 106 l. fall. che attualmente permette al curatore di «cedere i crediti, compresi quelli di natura fiscale o futuri, anche se oggetto di contestazione» e, in alternativa, di «stipulare contratti di mandato per la riscossione dei crediti» sembrerebbe legittimare tale operazione. Il conferimento di crediti non ancora monetizzati o oggetto di accertamento in un trust che sia previsto nel programma di liquidazione predisposto dal curatore e approvato dai creditori e dal giudice delegato, sebbene ipotesi non espressamente annoverata dalla norma, permetterebbe una più rapida ed efficiente conclusione della procedura.
Il concordato preventivo, permette all’imprenditore che si trovi in stato di crisi, inteso come situazione di difficoltà economica finanziaria, compreso lo stato di insolvenza, di proporre ai propri creditori un piano in base al quale si preveda la soddisfazione di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. La peculiarità del concordato preventivo consiste nella libera modulabilità del contenuto del piano secondo le esigenze concrete del debitore. Sinteticamente, il piano può prevedere: la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti «in qualsiasi forma», l’attribuzione a un assuntore delle attività di impresa, o, infine, la suddivisione dei creditori in classi tra loro omogenee prevedendo a seconda delle classi trattamenti differenziati.
L’ampia formulazione dell’art. 160 l. fall. laddove indica i possibili contenuti del piano di concordato senza dubbio comprende la possibilità di ricorrere a strumenti di destinazione patrimoniale. Ad ogni modo, la scelta di un programma idoneo al contemperamento di tutti gli interessi in gioco non è compito facile per l’operatore. La previsione di una duplice approvazione del piano di concordato, dai creditori, prima, e dal tribunale, poi, esige un’attenta ponderazione in merito alla progettazione di un programma che sia idoneo a perseguire al meglio gli obiettivi che la procedura si prefigge.
In concreto, un imprenditore che si trovi in stato di crisi potrebbe presentare una proposta di concordato preventivo che preveda la segregazione dell’azienda in un trust con attribuzione al trustee o del compito di liquidare i beni e successivamente pagare i creditori ovvero, nell’ottica di favorire la continuità aziendale, dell’incarico a conservare l’attività sulla base di un programma di crescita predefinito.
Anche gli orientamenti della giurisprudenza in merito all’impiego del trust.‘endo-concordatario’ non seguono un andamento univoco. Il Tribunale di Reggio Emilia, con decr. 12.8.2014, (reperibile su www.ilcaso.it) ha ritenuto inammissibile la domanda di ammissione al concordato contenente la proposta di accrescere la liquidità aziendale facendo ricorso a un finanziamento esterno la cui gestione doveva avvenire tramite trust.
Il caso trattato riguarda un’ipotesi di concordato ‘misto’, fattispecie non infrequente nella prassi, che prevede il coinvolgimento di terzi che apportano propri beni a garanzia del soddisfacimento delle obbligazioni dell’imprenditore. Il Tribunale di Ravenna (Trib. Ravenna, 22.5.2014, in Trusts, 2014, 635) sempre pronunciandosi su di una fattispecie di concordato misto, ha ritenuto, al contrario, ammissibile che la proposta di concordato sia garantita da un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c. o da un trust di scopo, affermando altresì che l’apporto di nuova finanza tramite la gestione di partecipazioni sociali da parte di un trust.di scopo valorizzerebbe l’apporto stesso.
Tuttavia, l’ipotesi di concordato misto attuato mediante la costituzione di un trust in cui è un soggetto terzo a conferire i propri beni non pare esente da rischi giacché non assicurerebbe ai creditori concordatari diritti di prelazione sui beni del terzo, a sua volta esposto ad azioni esecutive dei propri creditori. In tale ipotesi, infatti, non troverebbe applicazione nei confronti del terzo l’art. 168 l. fall.
Sotto il profilo pratico, una possibile articolazione del trust nell’ambito del concordato preventivo potrebbe realizzarsi attraverso la nomina a guardiano del commissario giudiziale, dotato di poteri di controllo sul trustee che, prima di procedere alla liquidazione di ciascun bene, sia obbligato a richiederne il parere, fermo restando il controllo del giudice delegato e la possibilità per lo stesso di intervenire in caso di contrasti sorti tra guardiano e trustee. In alternativa, si potrebbe nominare il commissario giudiziale quale trustee e il comitato dei creditori quale guardiano.
Tenendo conto dei rischi di rigetto da parte degli organi della procedura concordataria di un piano contenente un trust liquidatorio, taluni hanno considerato lecito condizionare sospensivamente il conferimento in trust all’accoglimento della domanda o all’omologazione del concordato preventivo e condizionare risolutivamente il conferimento nel caso di successivo fallimento della società ammessa alla procedura (Trib. Ravenna, 4.4.2013, in Trusts, 2013, 632 ha ammesso un piano concordatario che si caratterizzava per la messa a disposizione in favore della procedura di nuova finanza, ad opera di un terzo, mediante il conferimento di due beni immobili in un trust disciplinato dalla legge di Jersey la cui efficacia era condizionata risolutivamente: a) alla mancata omologazione del concordato entro il termine di diciotto mesi dall’istituzione del trust; b) al fallimento della società).
La recente giurisprudenza di merito appare favorevole soprattutto alle ipotesi di trust istituiti nell’ambito di piani di concordato preventivo misti, in cui i beni segregati provengano da soggetti terzi. Emblematica in tal senso è una sentenza del Tribunale di Forlì (5.2.2015, in www.ilcaso.it) che ha ritenuto meritevole di tutela il trust.con il quale il fideiussore di una società che intendeva presentare una domanda di concordato preventivo ha costituito sui propri beni un vincolo in favore dei creditori del concordato, al fine di garantire la non dispersione del proprio patrimonio personale nonché la successiva liquidazione degli immobili conferiti. Così strutturato, il trust avrebbe lo scopo di facilitare la procedura di concordato assicurando ai creditori una parità di trattamento.
Il trust può trovare una sua sfera operativa anche nell’ambito della risoluzione stragiudiziale della crisi di impresa. I piani attestati di risanamento ex art. 67, co. 2, lett. d), l. fall. e gli accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182 bis l. fall. sono entrambi il risultato di quella tendenza del legislatore degli ultimi anni a favorire lo sviluppo di strumenti privatistici di superamento della crisi di impresa.
I piani attestati di risanamento aziendale perseguono la finalità di salvaguardare gli atti esecutivi attuati in esecuzione del piano stesso nel caso in cui si apra il successivo fallimento dell’imprenditore. In particolare, il piano deve consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e deve necessariamente essere attestato da un professionista indipendente che ne affermi la fattibilità. Le modalità operative attraverso cui il piano può realizzarsi possono basarsi o su un intervento esterno (a titolo esemplificativo la ricapitalizzazione societaria da parte di terzi o la rinegoziazione delle condizioni di finanziamento) ovvero interno (attraverso ad esempio l’alienazione di beni strumentali ma non essenziali all’esercizio dell’impresa o l’efficientamento della produzione). In entrambi i casi, il piano può prevedere che il risanamento dell’impresa avvenga anche mediante la segregazione di parte del patrimonio dell’impresa o di un terzo soggetto in un trust.
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l. fall. permettono all’imprenditore che si trovi in stato di crisi di stipulare con i creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti un accordo che preveda la ristrutturazione dei propri debiti, accompagnato dall’attestazione di un professionista indipendente circa l’idoneità del programma a garantire l’integrale pagamento dei creditori estranei all’accordo. La disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti è stata di recente (d.l. 27.6.2015, n. 85, conv. in l. 6.8.2015, n. 132) oggetto di revisione da parte del legislatore che, al fine di favorire il perfezionamento degli stessi anche in presenza di creditori dissenzienti ha introdotto all’art. 182 septies, la possibilità per il debitore di chiedere che gli effetti dell’accordo vengano estesi anche ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria, quando i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti rappresentino il settantacinque per cento dei crediti della categoria.
A differenza del piano attestato, per l’accordo si prevede la pubblicazione nel registro delle imprese e da tale data esso acquista efficacia, creando uno scudo protettivo nei confronti dei creditori anteriori ai quali è vietato iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore, né acquisire titoli di prelazione a meno che concordati.
L’utilizzo del trust.all’interno di tali accordi potrebbe, tuttavia, realizzare una sottrazione dei beni del debitore a pregiudizio dei creditori e perseguire dunque una causa in concreto non meritevole di tutela. Di contro, la segregazione di beni apportati da soggetti terzi al fine di garantire il soddisfacimento dei creditori, come per il concordato misto sembra non contrastare con le norme a tutela dei creditori.
Il particolare regime di esenzione dalla revocatoria fallimentare di cui godono gli atti esecutivi compiuti in adempimento di un piano attestato o di un accordo di ristrutturazione del debito garantirebbe la sopravvivenza del trust, il tutto a vantaggio non solo del debitore ma anche dei creditori garantiti dalla segregazione di taluni beni del debitore o di un terzo al fine del loro soddisfacimento.
In senso positivo si è espressa anche la giurisprudenza di merito (Trib. Reggio Emilia 14.5.2007) che, al fine di favorire la liquidazione di una società in accomandita semplice mediante un accordo di ristrutturazione ai sensi dell’art. 182 bis l. fall., ha disposto la sospensione della procedura esecutiva attivata da un creditore sociale contro il trustee-socio accomandatario che aveva istituito un trust autodichiarato segregando i propri beni personali con la finalità di gestirli e amministrarli nell’interesse dei creditori-beneficiari del trust.
Artt. 2, 13, 15, conv. dell’Aja del 1.7.1985; l. 16.10.1989, n. 364; artt. 67, 160, 168, 182 bis, 182 septies, l. fall.; artt. 2447 bis, 2645 ter, 2740, 2929 bis c.c.
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