TUCIDIDE (Θουκυδιδθς, Thucydĭdes)
Storico ateniese, figlio di Oloro del demo di Alimunte; nacque intorno al 460-55 a. C. Il nome del padre è quello stesso del re tracio Oloro, la cui figlia Egesipile aveva sposato Milziade, il vincitore di Maratona. Questo e il trovarsi la tomba di T. nel sepolcreto della famiglia di Cimone, fa ritenere che tra le due famiglie vi fosse qualche parentela; probabilmente il padre dell'ateniese Oloro aveva sposato un'altra figlia del re tracio di questo nome e aveva perciò dato al figlio il nome non greco del nonno materno. Ciò spiega anche i possessi che T. aveva nella regione tracia di fronte a Taso, a Scapte Ile, dove sfruttava le miniere d'oro. Le varie notizie su T. che abbiamo nella sua vita, opera di un tale Marcellino, scrittore, come pare, del sec. V d. C., in una vita anonima e in un articolo del lessicografo bizantino Suida sembrano in gran parte autoschediasmi fondati sui pochi cenni che T. dà di sé stesso nelle sue storie. Così ci vien detto che, fanciullo, pianse udendo una lettura di Erodoto e si sentì punto di emulazione verso di lui. Ciò è basato sopra un accenno critico alle letture di Erodoto che si trova nelle storie (I, 22); sembra però che quando Erodoto poté cominciare ad acquistar fama con le sue letture, T. non fosse più un fanciullo. Fu detto discepolo di Antifonte l'oratore, a causa probabilmente della particolare deferenza che mostra verso di lui (VIII, 68), sebbene non nasconda le gravi ragioni che lo fecero condannare a morte per alto tradimento. Che T. fosse discepolo di Anassagora, è pure induzione dalla sdegnosa indifferenza che ostenta verso la religione popolare, cioè da quello che i contemporanei avrebbero chiamato l'"ateismo" dei due pensatori. Ma non è dubbio che T. nella sua giovinezza s'imbevé largamente di tutta la cultura retorico-filosofica che i sofisti diffondevano nell'Atene di Pericle. Della guerra del Peloponneso egli dice d'aver misurato fin dall'inizio la grandezza e l'importanza (I,1). Colto, ricco, imparentato con la famiglia di Cimone, non è meraviglia che nel 424-23 fosse eletto a far parte del collegio degli strateghi, la magistratura più autorevole dello stato. Come stratego venne inviato nell'Egeo settentrionale per sorvegliare le mosse dello spartano Brasida che, recatosi con forze peloponnesiache attraverso la Grecia nella Macedonia, minacciava i possessi ateniesi della Calcidica. T., che si tratteneva con una squadra nelle acque di Taso, non giunse in tempo per difendere il più importante possesso ateniese di quel territorio, la colonia di Amfipoli sullo Strimone, e poté solo salvare Eione alla foce del fiume. Dopo ciò narra egli stesso che dovette per venti anni esulare dalla patria (V, 26, 5). Evidentemente il gravissimo scacco diede occasione ad un processo. Che egli fosse accusato di tradimento da Cleone, non pare se non antica congettura fondata sull'avversione profonda che dimostra verso quell'uomo di stato e le tendenze demagogiche di lui. Ma certo, abbia o no Cleone intentato l'accusa, la condanna di T: fu opera del partito che Cleone capeggiava, il quale attribuiva agli strateghi la colpa d'ogni insuccesso. Se la condanna di T. fosse alla morte o all'esilio, non sappiamo: ma la prima ipotesi è più verosimile ed è probabile che, deposto per apochirotonia dall'ufficio, egli, invece di recarsi ad Atene per il processo che seguiva normalmente alla deposizione, si ritirasse nei suoi possessi traci e fosse condannato in contumacia. Quanto alla sua colpabilità, se ne discute in senso vario dai moderni. Indubitato è che T., il quale del resto era alle sue prime armi come stratego, non fu pari alla gravità del compito affidatogli e si lasciò sorprendere dalle mosse audaci e rapide del geniale avversario. Il silenzio che egli serba sulle accuse di cui fu fatto segno e l'omissione, che non può non parere intenzionale, di qualsiasi cenno apologetico, sono stati interpretati variamente. La condanna, mentre metteva T. al bando di tutto l'impero ateniese, gli dava la possibilità di viaggiare nel territorio dei neutrali e degli amici di Sparta, e così, secondo avverte egli stesso, di conoscere a fondo le condizioni e le forze degli avversarî d'Atene. Sembra che si recasse anche in Sicilia. La sua descrizione dell'assedio di Siracusa dimostra una cognizione così esatta dei luoghi da far presupporre nello storico l'autopsia. In altri casi, per es. quanto alle operazioni presso Pilo e Sfacteria, qualche grave inesattezza topografica fa invece ritenere che l'autopsia gli mancasse. L'interesse particolare con cui riconosce l'opera di civiltà compiuta dal re Archelao di Macedonia fa pensare che abbia visitato quella regione e possa essersi trattenuto alla corte di quel re che amava circondarsi di Greci illustri. Ciò avvalora la testimonianza, per sé non probante, del peripatetico Prassifane che presenta T. come interlocutore di un dialogo tenuto da letterati residenti in Macedonia alla corte del re Archelao (Marcell., Vita, 29). T. dopo il lungo esilio poté tornare in Atene. Di ciò è prova non dubbia, prescindendo dalle testimonianze antiche, oltre al luogo citato sopra sui venti anni d'esilio, quel che egli dice sull'aspetto che presentavano le fortificazioni del Pireo abbattute nel 404 (I, 23). Si discute se tornasse in seguito all'amnistia concessa con decreto di Patroclide negli ultimi tempi della guerra del Peloponneso (406-405), ovvero con quella imposta dagli Spartani nell'atto della capitolazione di Atene (primavera 404), o finalmente con quella che si accompagnò alla restaurazione democratica nel 403. La questione si complica per la menzione presso Pausania (V, 23, 9), di un particolare decreto di Enobio per il richiamo di Tucidide. La cifra che egli stesso dà dei venti anni di esilio non aiuta a scegliere tra le varie possibilità. Comunque, T. visse in Atene sotto la democrazia restaurata e vi attese con vigore all'elaborazione e al compimento delle sue storie. La morte lo colse mentre era in pieno fervore di lavoro. Su questa morte le fonti non ci dicono nulla di preciso. Taluno asserisce che morì per malattia, altri che fu assassinato o in Tracia o dopo il ritorno in Atene o nel viaggio. Evidentemente non se ne sapeva nulla e solo si argomentava dalla brusca interruzione del libro. Questa fa ritenere anche a noi che egli non sopravvivesse di molto al ritorno. Precisare non si può, perché qualche passo, come III, 116, dove si ignora l'eruzione dell'Etna nel 396-95, non è decisivo. Ma l'inizio della guerra corinzia (395) sembra segnare un sicuro terminus post quem non.
L'unica opera di T. è la storia della guerra del Peloponneso, cui egli dedicò tutta la sua vita. Sebbene il libro cominci con le parole "Tucidide figlio di Oloro Ateniese scrisse la guerra dei Peloponnesiaci e degli Ateniesi", egli non condusse l'opera a termine. Essa s'interrompe bruscamente sullo scorcio dell'estate 411 e le parole con cui l'opera si chiude nella maggior parte dei manoscritti: "quando termini l'inverno che succedette a questa estate si compie il ventunesimo anno" sono evidentemente posteriore aggiunta altrui. L'opera non doveva avere né titolo a parte né divisione in libri. Da intestazione come in altre opere antiche, p. es. le Storie di Erodoto e le Genealogie di Ecateo, serviva la frase iniziale. Dai grammatici essa fu intitolata ‛Ιστορίαι o Ξυγγραϕή e fu divisa variamente in libri. Questi libri sono 8 nei manoscritti a noi pervenuti, e quindi anche nelle nostre edizioni, ma ci vengono ricordate altresì partizioni in 9 o in 13 libri.
Nel libro I, al proemio dove T. dichiara l'argomento dell'opera sua (c. 1) segue la cosiddetta "archeologia", in cui dimostra la grandezza ed importanza della guerra del Peloponneso confrontandola con gli eventi anteriori della storia greca fino alle guerre persiane inclusivamente (cc. 2-23). Qui sono però intercalate alcune considerazioni metodiche (cc. 20-21), cui si collega una breve digressione su Armodio e Aristogitone, diretta ad esemplificare gli erronei apprezzamenti dei più su cose antiche, e un cenno (c. 22) sul carattere dei discorsi che si propone d'inserire nel suo racconto. Poi T. entra in argomento illustrando le cause del conflitto, cioè prima la questione di Corcira (cc. 24-55), poi quella di Potidea (cc. 56-66). Segue il racconto dell'assemblea spartana in cui si deliberò la guerra (cc. 67-88), e poi per illustrare le cause profonde di questa una digressione sull'origine e sullo sviluppo dell'impero ateniese nel periodo tra le guerre persiane e la guerra peloponnesiaca (cc. 89-118,2) che è la nostra fonte principale per la cosiddetta pentecontaetia (478-432 a. C.). Dopo ciò lo storico torna ai precedenti immediati del conflitto (cc. 118,3-145), intercalando nel racconto a proposito della controversia diplomatica tra gli Spartani e gli Ateniesi una breve digressione sulla sommossa ciloniana (c. 126) e due maggiori su Pausania (cc. 128-134) e Temistocle (cc. 135-138) destinate anche a integrare il cenno storico dato dall'autore sulla pentecontaetia. Col libro II comincia il racconto della guerra, premessavi la precisazione cronologica del suo inizio (c. 1). Tale racconto procede annalisticamente, dividendo ogni anno in estate ed inverno per tutto il periodo decennale (431-421) della guerra cosiddetta archidamica, dalla sorpresa di Potidea alla pace di Nicia (II, 2-V, 19), e si chiude con la precisazione della data di quest'ultimo evento e la giustificazione del sistema cronologico adottato dall'autore nel precedente racconto (c. 20). Segue un breve cenno sulle complicazioni che condussero poco dopo al trattato di alleanza fra Atene e Sparta del quale è unito il testo (cc. 21-24). Qui, fatto quasi un nuovo principio, l'autore avverte che il periodo che seguì fu di pace soltanto apparente ond'egli lo considererà effettivamente come parte della guerra e continuerà il racconto fino alla caduta di Atene (cc. 25-26). È dato poi un riassunto sommario delle vicende che si svolsero dal principio dell'undecimo anno di guerra (421-20 a. C.) fino all'inverno del sedicesimo (416-15), nel quale gli Ateniesi s'impadronirono di Melo (cc. 27-116). A questo punto lo storico avverte che gli Ateniesi si apprestarono a una guerra in Sicilia non molto minore di quella contro i Peloponnesiaci, e la racconta ampiamente nei due libri seguenti, VI e VII, premettendovi un'introduzione sulla Sicilia, i suoi antichi abitatori e le colonie greche inviate nell'isola (VI,1, 2-5) che è la nostra fonte principalissima per la più antica storia di Sicilia, e intercalandovi una nuova digressione intorno alla caduta dei Pisistratidi (VI, 54-59) e brevi notizie sui contemporanei avvenimenti di Grecia, dall'estate del 17° anno (415-14) in cui s'iniziò la grande spedizione siciliana allo scorcio dell'estate dell'anno 19° (413-12) in cui essa terminò con la catastrofe (VI, 8-VII, 87). Il libro VIII si apre con un cenno sulla impressione che destò in Atene la catastrofe di Sicilia e sui provvedimenti che si presero per fronteggiarne gli effetti (c. 1). Poi si discorre del contraccolpo di essa tra gli avversarî degli Ateniesi e dei primi moti di ribellione tra gli alleati, dopo di che si torna ai provvedimenti presi ad Atene (cc. 2-6). Vien ripreso poi col c. 7 il racconto particolareggiato delle vicende in Grecia che ci conduce dal principio dell'anno 20° (412-11) fin verso la fine dell'estate dell'anno 21° (411-10), il punto dove l'opera rimane interrotta (cc. 7-109).
La critica tardò a porre sul tappeto il problema della composizione dell'opera tucididea. Si faceva appena questione fin dall'antichità intorno all'VIII libro che ad alcuni pareva privo di elaborazione, tanto che si negava perfino che fosse stato composto dallo stesso T. e si ascriveva alla figlia dello storico ovvero ai suoi continuatori Senofonte e Teopompo. Vi si rilevava soprattutto la mancanza di orazioni, sostituite da brevi cenni in discorso indiretto, che pareva in contrasto con l'uso costante di T., mentre altri asseriva che T. aveva omesso le orazioni, perché col procedere del suo lavoro si era convinto della loro inopportunità. Il merito di avere veduto e impostato il problema della composizione della storia di T. spetta a F. W. Ullrich (1845-46) e dopo di lui esso è stato variamente dibattuto senza che però si sia giunti a una soluzione concorde. Ma la maggior parte dei critici, seguendo più o meno le tracce dell'Ullrich, conviene che T. ha sulle prime dopo la pace di Nicia considerato la guerra archidamica come una guerra a sé e, come tale, ha cominciato, di sui materiali raccolti, secondo che egli stesso scrive fino dall'inizio della guerra (V, 26, 5), ad elaborarne il racconto. Questa elaborazione, nella quale con οὗτος ὁ πόλεμος intende la guerra archidamica e non si presuppone punto l'unità della ventisettennale guerra peloponnesiaca, anteriore almeno in parte alla catastrofe siciliana (vedasi, ad es., III, 87, 2, dove è detto che nulla più della peste abbatté le forze degli Ateniesi), ci è conservata, salvo pochi ritocchi e alcune aggiunte, p. es. l'epitafio di Pericle, negli odierni libri II-IV. Di fatto, anche prescindendo dai singoli argomenti dell'Ullrich che sono stati ribattuti, ma spesso con scarsa efficacia, da altri critici, è verosimile in sé che T. ritenesse sulle prime la guerra effettivamente chiusa nel 421 con la pace dei cinquant'anni. E a ogni modo il concetto a noi ovvio della grande guerra peloponnesiaca protrattasi per 27 anni attraverso un periodo di pace torbida che si deve comprendere nella stessa guerra è un concetto elaborato per l'appunto da T., durante e dopo la guerra deceleica, concetto non certo arbitrario, ma artificioso come quello di chi volesse considerare come una guerra sola la prima e la seconda guerra punica o le tre guerre sannitiche dei Romani. Appunto perché T. si accinse all'elaborazione della storia della guerra archidamica come opera a sé, egli non chiarisce il nuovo e più pregnante significato da lui attribuito all'espressione "guerra dei Peloponnesiaci e degli Ateniesi" se non al libro V, c. 26, nell'atto in cui riprende il racconto interrotto dopo la pace di Nicia. Quest'ipotesi inoltre ci spiega come il libro V, in cui è trattato il periodo tra la pace di Nicia e l'inizio della guerra di Sicilia, sia la parte più frammentaria e meno elaborata di tutta l'opera. Evidentemente lo storico, conclusa la pace, aveva tralasciato di continuare la raccolta di materiali per una storia, iniziata con la guerra archidamica, e solo più tardi si era accinto a colmare la lacuna del racconto e delle sue proprie informazioni. Così solo si spiega ad es., la grave difficoltà, in vario modo tentata dai critici, che offrono alcuni passi secondo i quali uno dei punti capitali nei dissensi e nelle trattative che seguirono la pace fu l'impegno preso scambievolmente da Atene e da Sparta di non accordarsi unilateralmente con altri; mentre di tale impegno non è traccia nel trattato d'alleanza che T. ha poi inserito nella sua opera senza aver tempo di eliminarne la contraddizione col contesto; e non poteva esservi un impegno simile né espresso né sottinteso né come clausola aggiuntiva, data la natura di questo trattato che era di semplice alleanza difensiva (ἐπιμαχία). Con ciò non si vuole punto asserire che la trattazione della guerra archidamica fosse effettivamente condotta a termine da T. come opera a sé. Questa è un'ipotesi che manca di prove e che presuppone, come premessa al racconto della guerra, un libro I condotto a termine in una redazione sostanzialmente diversa da quella in cui ci è pervenuto. Più verisimile è che l'incalzare degli eventi facesse a T. abbandonare la già avviata elaborazione dei materiali di questa prima parte innanzi d'averla compiuta. La gravità del conflitto che scoppiò tra Atene e Siracusa e la terribilità della catastrofe con cui si chiuse dovettero commuovere profondamente lo storico, offrendogli al tempo stesso un campo in cui adoperare il suo ingegno maturato attraverso le esperienze degli anni precedenti. Chi ben guardi, i libri VI e VII, in cui è narrata la guerra di Sicilia, costituiscono, se si prescinde dal libro I, la parte più organicamente elaborata delle storie di T., il capolavoro della sua opera di storico. Ma i contemporanei avvenimenti dell'Oriente ellenico son qui appena accennati di scorcio, ciò che ben si spiega ammettendo che i relativi capitoli non sono se non posteriori aggiunte provvisorie destinate a inserire l'impresa di Sicilia nella grande guerra del Peloponneso. Così è che sopra un fatto tanto grave di conseguenze come la ripresa delle ostilità dirette tra Atene e Sparta si sorvola senza punto indagarne le ragioni profonde e che della perdita più notevole che subì in questo periodo l'impero ateniese, la defezione di Efeso, la maggiore città della Ionia, che passò ai Persiani, non si fa cenno alcuno. E d'altronde non solo il racconto è chiuso in sé con una propria introduzione sulla Sicilia, le sue genti indigene e le sue colonie, ma sono tagliati anche almeno in gran parte i legami ideali che congiungono la grande spedizione siciliana con le precedenti vicende di Grecia e in certo senso persino con la precedente spedizione di Sicilia. È una bega improvvisa tra due città della Sicilia occidentale che provoca l'intervento ateniese e indirizza verso l'isola l'irrequieta bramosia d'impero del popolo. Dove non solo non s'intravvede il nesso strettissimo che lega questo con gli eventi anteriori, ma non viene neppure giustificato né qui né altrove perché della guerra di Sicilia che è propriamente cosa diversa dalla guerra del Peloponneso, come lo stesso T. riconosce (VI,1,1), sia qui data entro la storia di quella guerra una trattazione così ampia ed esauriente. Di tutto ciò la sola spiegazione ragionevole è quella proposta da L. Cwiklinski, che T. abbia pensato la storia della guerra di Sicilia come opera a sé, e, come tale, ne abbia condotto l'elaborazione fin quasi al compimento, cioè ad uno stadio più avanzato di quello della guerra archidamica. Ma gli eventi incalzavano: scoppiarono le ribellioni degli alleati di Atene, mentre Sparta riusciva con l'aiuto persiano a costruire una grande armata navale. Lo storico prese a seguire il corso della nuova guerra che gli parve costituisse la continuazione e la chiusa della guerra archidamica e cominciò non solo a raccogliere materiali, ma anche ad elaborarli provvisoriamente; e così, poco dopo i fatti del 412 e del 411, stese il libro VIII che nella forma in cui ci è pervenuto è quasi per intero anteriore al 404. Di qui certe sue gravi deficienze, come l'ignoranza di alcuni dati importanti, a noi trasmessi dalla Repubblica degli Ateniesi di Aristotele, intorno alla reazione oligarchica del 411, l'accettazione senza sufficiente controllo di notizie non in tutto attendibili fornite allo storico da Alcibiade o dai suoi amici e infine l'errore d'aver dato come effettivamente conclusi da Sparta tre successivi e diversi trattati con la Persia, mentre i due primi non possono essere che schemi o preliminari di trattato. Ma nella sua stessa imperfezione, con le piccole contraddizioni che lo storico non ha avuto tempo di eliminare, questo libro rimasto in stato di abbozzo ci mostra con quale energia T. si sforzava di ordinare e dominare il suo materiale documentario a mano a mano che ne veniva in possesso. Comunque, noi non sappiamo bene quando lo storico giunse al suo concetto della unitaria guerra peloponnesiaca, e qualche indizio tenderebbe a mostrare che non fu prima del 410-09 (cfr. Thuc., IV, 48, 5). Allora a ogni modo egli sentì innanzi tutto la necessità di colmare la lacuna tra la pace di Nicia e la ripresa delle ostilità e cominciò la stesura della parte del libro V che segue al c. 20. Non era che un tessuto connettivo provvisorio preparato forse prima della caduta di Atene, steso subito dopo senz'avere neppure, nel momento in cui lo stese, la conoscenza precisa del trattato d'alleanza tra Atene e Sparta di cui dovette poi procurarsi il testo dopo il suo ritorno in Atene. Probabilmente quando fece questa provvisoria stesura del libro V, ancora non aveva deliberato di inserire nella sua storia il racconto già quasi compiuto della guerra di Sicilia, ciò che spiega il silenzio su di essa nel nuovo proemio dei cc. 25-26. E tuttavia egli aveva già presente davanti a sé l'impalcatura della sua nuova costruzione, della quale il punto centrale e quasi la chiave di vòlta doveva essere il dialogo tra gli Ateniesi e i Melî sulla chiusa del libro V, dove la brutale affermazione del diritto della forza segna il momento in cui l'imperialismo ateniese trionfante raggiunge la sua acme, e prelude nello stesso tempo al prossimo declinare della potenza d'Atene fino al totale sfacelo dell'impero. Ma la costruzione doveva adattarsi al nuovo piano e soprattutto le si doveva dare un vestibolo degno della grandiosità con cui era concepita. Così, mentre cominciava a ritoccare saltuariamente il lavoro fatto, preparandolo per inserirvi non meno la storia della guerra archidamica che quella della spedizione di Sicilia, T. dava all'opera, al posto della breve premessa sulle cause della guerra, certo in parte già stesa, la monumentale introduzione del libro I, di cui meglio si valuterà poi la novità e l'importanza.
Questa indagine intorno alla composizione dell'opera di T. non ha solo interesse filologico o letterario, ma ne ha uno grandissimo, sia per la valutazione dell'opera come fonte storica, sia per la storia stessa del pensiero greco. Essa permette infatti di seguire l'evoluzione dei concetti politici di T. e quindi il variare e precisarsi della sua valutazione dell'impero ateniese, e con ciò delle ragioni e del significato della guerra stessa che narrava. Ci concede inoltre di seguire le tappe dello storico nella sua ascesa e di pervenire quindi, nella conoscenza dello sviluppo progressivo del suo spirito, cioè di uno degli spiriti maggiori dell'antichità greca, ad una precisione che l'opera, se fosse stata appieno finita ed elaborata, difficilmente ci darebbe, e nello stesso tempo di rintracciare, attraverso al divenire dell'opera di T., il processo per cui la storiografia greca superò a grado a grado la maniera erodotea. Su questi aspetti del problema della composizione della storia di T., cercando di segnare alla trattazione di esso vie nuove, hanno insistito i critici che più recentemente lo hanno affrontato, come Schwartz, Pohlenz, Schadewaldt, Momigliano.
Erodoto aveva portato l'indagine storica sulle vicende umane dal cielo alla terra, cioè dai miti ond'era costituita la pseudostoria antichissima a vicende recenti d'interesse nazionale meritando per tal modo d'essere detto il padre della storia. Questo, che era il punto di arrivo d'Erodoto, fu il punto di partenza per T. Il giovane ateniese, cui le discussioni dei sofisti e le esperienze svariate dell'età periclea avevano acuito lo sguardo, trovava che più del passato era grande e interessante il presente e prevedeva che la guerra del Peloponneso avrebbe assunto una grandiosità a petto della quale sarebbero impallidite le stesse guerre persiane. Inoltre l'indipendenza e libertà di giudizio, cui la sofistica lo aveva assuefatto di fronte alla tradizione, gli faceva apparire il presente come solo veramente conoscibile in quanto materia della diretta esperienza, mentre il passato gli appariva a rigore inconoscibile, non disponendo egli per studiarlo se non di tradizioni incontrollabili che non voleva accettare o correggere a capriccio (ὡς ἐμοὶ ἐδόκει), come gli sembrava avessero fatto i predecessori, e di monumenti e documenti insufficienti e insufficientemente noti. "Le vicende della guerra, per quanto riguarda i fatti, dice, io non ritenni doverle scrivere informandomi dal primo venuto né come a me pareva, ma esattamente per quanto mi era possibile investigando intorno ad ogni cosa, sia che fossi stato presente, sia mercé le informazioni degli altri. Ma a fatica si potevano assodare, perché quelli che erano stati presenti a ciascun fatto non riferivano lo stesso intorno alle stesse cose, bensì a seconda della loro tendenza e del loro ricordo". Certo T. qui scopre e delinea, per primo, il canone fondamentale dell'accertamento dei fatti e, poiché questo accertamento egli lo ritiene possibile solo quanto ai fatti contemporanei, qui sta la grandezza e nello stesso tempo la limitazione dell'opera sua. Essa è la prima narrazione storica di avvenimenti contemporanei e può anzi dirsi, se si bada al metodo rigoroso dell'accertamento dei fatti, la prima vera narrazione storica dell'Occidente.
Che se peraltro T. si fosse limitato al puro accertamento dei fatti, vi sarebbe un abisso tra la sua concezione della storia e la nostra. Egli in realtà ha fatto assai più: si è sforzato cioè quasi sempre d'intendere gli avvenimenti, di scoprirne il nesso, di segnarne il posto nello sviluppo storico. Ciò peraltro non sempre gli riesce, specie nella sezione della sua opera che si riferisce alla guerra archidamica che è, come abbiamo veduto, la parte più antica dell'opera sua. Qui non mancano tratti di carattere cronachistico staccati tra loro non solo per la disposizione rigidamente cronologica, ma per la mancanza di un vero nesso ideale e può anzi dirsi che veramente nel suo complesso la storia della guerra archidamica è una serie di accadimenti slegati tra i quali lo storico non è riuscito a trovare una direttiva che li coordini e ne chiarisca il processo, onde, stesa a breve distanza dai fatti che narra, questa parte è la più erodotea dell'opera di T., nonostante il fermo consapevole contrasto in cui egli si è posto con Erodoto circa il modo di assodare i fatti.
In un altro punto del resto egli si differenzia già fin da allora nella maniera più recisa da Erodoto. "Forse, scriveva, ad ascoltarla il mancarvi del favoloso farà apparire la mia opera meno dilettevole, ma se quanti vorranno conseguire chiara conoscenza sia degli avvenimenti passati sia di quelli che, conforme alla natura delle cose umane, tali o simili si compiano in futuro, troveranno il mio racconto giovevole, questo sarà suffinciente". Erodoto e gli altri ionici non miravano, o solo indirettamente, a scopi pratici. T. invece, che a differenza di Erodoto subisce in pieno l'influsso della tendenza pratica dominante nell'insegnamento dei sofisti, professa qui e altrove di scrivere per un fine pratico, perché cioè vengano tratti dalla sua storia ammaestramenti utili: utili, come poi appar chiaro nel corso del libro, all'uomo politico. Questa è di nuovo in confronto con la ἱστορίη degli Ioni una limitazione grave e, nonostante il superamento che consiste nello sdegnare la ricerca del particolare curioso, interessante o pittoresco che quella amava per sé stesso prescindendo dalla sua maggiore o minore importanza nello sviluppo storico, potrebbe quasi parere un parziale regresso. Tale in realtà sarebbe stata se T. vi si fosse rigorosamente attenuto, se mutilando i fatti li avesse astrattizzati per metterne in luce l'esemplarità. In effetto, per il profondo interesse che prendeva alla sua narrazione, ha evitato questo scoglio sforzandosi di rappresentare sempre i fatti in tutta la loro concretezza. L'interesse per la sfortunata spedizione di Sicilia lo indirizzò al superamento della visione frammentaria e cronachistica e insieme con la maturità raggiunta dallo storico nel precedente sforzo di registrare e intendere i fatti anteriori alla pace di Nicia, gli diede il proposito e nello stesso tempo la capacità d'investire con poderosa intuizione unitaria l'imponente materiale che gli si offriva. Qui pertanto non solo non è più nulla che ricordi la slegatezza delle narrazioni erodotee sulle guerre persiane, ma superata almeno implicitamente la dichiarazione praticistica del proemio, il particolare interessante e pittoresco, che lo storico aveva sdegnato d'usare alla maniera d'Erodoto, riprende nell'esposizione storica il posto che gli compete, perché illuminato dalla stessa intuizione che anima tutto il racconto e, stretto con questo in un nesso inscindibile, esso determina o precisa la concreta individualità del fatto, la quale gli si impone ormai in tutto il suo universale valore umano e non più nella generalità astratta della sua importanza di paradigma per l'uomo politico.
Un ulteriore progresso sulla fonica compì T. quando si accinse alla prima stesura del libro VIII. Egli avvertì allora la necessità di allargare e approfondire la sua indagine inserendovi elementi di fatto fino allora da lui non ritenuti degni di attenta registrazione. Non già che, come si è scritto, egli scoprisse dopo la rivoluzione oligarchica del 411 l'importanza della politica interna nello svolgersi delle vicende esteriori della guerra. Questa a lui, che aveva partecipato attivamente alla vita politica ateniese, non poteva essere ignota. Ma non era riuscito a staccarsi a sufficienza dalla consuetudine erodotea di registrare i fatti per la loro appariscente grandezza: quindi può dirsi che delle vicende di carattere interno aveva parlato soltanto nei limiti in cui era assolutamente indispensabile a chiarire i fatti di guerra che narrava, p. es., a proposito della rivoluzione di Corcira. La reazione oligarchica del 411 con la sua gravità e imponenza, con gli effetti che ebbe nella vita dell'impero e in quella della città non gli rivelò nulla di nuovo, ma lo indusse a portare per la prima volta su tale ordine di fatti la sua indagine. Così nella storia d'Europa, anzi nella storia umana in generale, la rivoluzione oligarchica del 411 è il primo fatto della vita interna d'uno stato conosciuto mercé una relazione che ne espone le vicende e ne ricerca le ragioni.
Con l'allargarsi della sua visuale storica, con la crescente consapevolezza della necessità di dover portar luce su tutti gli elementi onde risulta la complessità delle vicende politiche, T. doveva sentire la necessità di spezzare un'altra pastoia ereditata dalla ionica. Questa era essenzialmente narrativa o descrittiva e tale fin allora era rimasta l'opera sua; considerazioni sulle ragioni profonde dei fatti egli non ve ne aveva introdotte che quasi in margine o di straforo. Ora nell'accingersi all'elaborazione definitiva cercò e scoprì il modo di esprimere il suo pensiero di storico sui fatti che narrava. Glielo offersero le orazioni di cui tutte le più importanti, quelle in specie del libro I, furono o composte o rielaborate dopo la caduta di Atene. Del suo primitivo proposito nell'introdurle ci informa lo storico in quello stesso luogo in cui discorre del suo metodo circa l'indagine dei fatti. "Quanto ai discorsi - egli scrive - difficile era ricordare il testo esatto delle cose dette, sia che le ascoltassi io stesso sia che altri me le riferissero. Ma secondo quel che pareva a me ciascuno dovesse dire nel modo più conveniente alle particolari contingenze, attenendomi il più da vicino possibile al senso complessivo delle cose effettivamente dette, così sono stati redatti i discorsi". È indubbio che questo programma di stretta aderenza nei limiti del possibile al contenuto effettivo dei discorsi non è di regola mantenuto in T., e non c'è qui bisogno di darne le prove che sono state raccolte, p. es., dal Pohlenz. Basterà accennare che vi sono persino luoghi nella storia di T., in cui la stessa prospettiva reale dei discorsi viene alterata, parte per concinnità ed efficacia di esposizione, parte per altre più gravi ragioni. Così, per es., i dibattiti intorno alla grande spedizione ateniese in Sicilia vengono concentrati nel racconto della seconda assemblea del popolo, quantunque il problema se intervenire o no nell'isola fosse allora già res iudicata e la discussione versasse soltanto intorno alla misura dell'intervento. Del pari i dibattiti che ebbero luogo quando si diede risposta alle tre successive richieste spartane che precedettero lo scoppio della guerra sono rappresentati dall'unico discorso di Pericle all'ultima assemblea, quella che si tenne dopo la terza ambasceria; e in tale discorso si discute largamente circa l'opportunità o meno di cedere alla seconda richiesta, la rescissione del decreto contro il commercio megarese, sebbene questa allo stato degli atti fosse dalla terza domanda, quella di rendere la libertà agli alleati, già sorpassata e annullata. Ma qui è evidente che al fine di dare alla rappresentazione storica una concentrazione ed efficacia maggiore si associa quello di sminuire l'importanza della richiesta concernente il decreto megarese, discutendola quando la domanda ulteriore molto più grave poteva farla apparire come semplice pretesto di schermaglia diplomatica. È quindi chiaro che la prassi più frequente di T. rispetto alle orazioni non corrisponde alla sua dichiarazione; e poiché è impensabile che egli abbia voluto trarre in inganno il lettore, è anche evidente che quella dichiarazione presupponeva un piano più antico dell'opera in cui le orazioni dovessero essere elemento della rappresentazione storica ad eguale titolo dei fatti e costruite sulle stesse basi d'informazione: è il primitivo piano che potremmo dire erodoteo, quello in cui T., pure polemizzando aspramente con Erodoto e sforzandosi di superarlo, non ha trovato ancora la sua via, e la novità sua consiste nell'accertamento il più possibile esatto, esteso tanto ai fatti quanto ai discorsi nella misura diversa in cui ne sono suscettibili. E di questo piano primitivo, anche per ciò che riguarda i discorsi, non mancano tracce nella storia della guerra archidamica. Ma procedendo nel lavoro T. si è avveduto da una parte che cercare di riprodurre quello che effettivamente fu detto o avrebbe dovuto essere detto era vano conato, dall'altra che i discorsi gli offrivano il modo di esporre, senza turbare o aggravare con considerazioni personali il racconto dei fatti, quelle che erano o parevano a lui le ragioni profonde di essi, i moventi veri delle deliberazioni, anche se gli oratori li nascondevano o non ne erano in tutto consapevoli. Con che i discorsi, al posto di un'irraggiungibile verità fotografica, acquistavano la veracità che solo può conferire ai dati di fatto il pensiero che li investe e li illumina.
Con l'allargarsi della visuale di T. progrediva la sua comprensione dei fatti di cui era stato spettatore. Di ciò dà testimonianza l'analisi di quella parte delle storie che nella sua forma attuale è la più recente, il libro I. T. promette nel proemio di scrivere le cagioni e le divergenze per cui fu rotta la pace dei Trent'anni "affinché nessuno più abbia a cercare da che nacque tra i Greci tanta guerra". Segue l'esposizione lucida e strettamente aderente ai fatti dei precedenti immediati della dichiarazione di guerra, a partire dall'intervento ateniese nel conflitto tra Corinto e Corcira. Il racconto, in sé conchiuso, ha una rigorosa logica interna. Nell'apparente obiettività l'opinione dell'autore intorno alla "Schuldfrage" risalta con assoluta nettezza. Autori veri della guerra sono i Corinzî, gelosi dell'incremento della potenza ateniese che li colpiva nella regione del Mar Ionio popolata dalle loro colonie, non gli Spartani per sé poco desiderosi di novità, che si lasciano trascinare a malincuore dalla pressione degli alleati. Non si sbaglia ritenendo che questa etiologia della guerra archidamica è tra le parti più antiche della storia, scritta o pensata almeno quando T. prendeva ancora parte alle lotte dell'agorà ateniese accanto agli amici di Pericle e ai continuatori della sua politica. Ma se si bada alle parti più salienti del libro I, le digressioni e i discorsi, l'etiologia della guerra ci si configura in modo del tutto diverso. Nel prologo dopo l'accenno solenne, già sopra citato, alle cause e divergenze e al proposito di trattarne a fondo per disperderne ogni oscurità, segue, quasi a menomarne l'effetto, una frase che i più dei critici ritengono a buon diritto un'inserzione posteriore dello storico: "ma il più vero motivo, sebbene meno espresso nei discorsi, ritengo fosse che l'incremento della potenza ateniese e il timore da essa ispirato ai Lacedemoni li costrinse alla guerra". E cioè il furibondo accanimento che Sparta spiegò nella lotta contro Atene durante la guerra deceleica e la potenza formidabile che Atene dimostrò sia nella spedizione di Sicilia sia nel resistere così lungamente alla coalizione avversaria, avevano chiarito agli occhi dello storico quella che gli parve la ragione vera e profonda dell'immane conflitto. Questa nuova intuizione, di fronte a cui perdono d'importanza le analisi dei fatti di Corcira e di Potidea, trova la sua espressione sia in taluni discorsi del libro I, la cui redazione è certamente posteriore alla caduta di Atene, p. es. il discorso degli Ateniesi davanti all'assemblea spartana (cc. 73-78), il terzo discorso dei Corinzî nel sinedrio degli alleati (cc. 120-124) e quello di Pericle all'assemblea ateniese (cc. 140-144), sia, e più, nell'inserzione delle digressioni che sono parte integrante del libro I, e senza le quali non s'intende quello che era divenuto il concetto fondamentale di T. nel darvi l'ultima elaborazione. La digressione sulla pentecontaetia insieme con l'altra, strettamente connessa, che la compie, su Pausania e Temistocle, serve a un doppio scopo. Per un lato la storia di T., che non è più una monografia sopra una guerra sostanzialmente inconclusiva come la archidamica, ma vuol essere la trattazione di un conflitto smisurato in sé non meno che nei suoi effetti, viene collegata con la sola grande storia greca che esistesse, quella di Erodoto che trattava della guerra persiana; sicché attraverso alle due opere i Greci avevano l'esposizione compiuta della loro storia nazionale. D'altro canto, riconosciuta nella strapotenza ateniese la vera cagione della guerra, conveniva chiarire come questa potenza si fosse formata, studiando le origini e lo sviluppo progressivo della lega marittima e la sua inevitabile trasformazione in impero: dove gli scheletrici fatti vanno integrati con le interpretazioni che ne dànno nei loro discorsi gli Ateniesi e soprattutto Pericle.
Ma conveniva ancora chiarire come fin dall'inizio delle guerre persiane Atene, ed essa sola, si trovasse in grado di assumere l'egemonia marittima. Questo è l'argomento della "archeologia" la quale, inserita subito dopo la protasi, serve a dare risalto alla grandezza e all'importanza dei fatti narrati da T. in confronto dei fatti anteriori. Qui l'indagine sulla formazione della potenza degli stati è condotta con un acume che si direbbe quasi divinatorio, con una larghezza di visuale che non si vede come possa essere stata da alcuni critici riferita agl'inizî dell'operosità di T. quale storico anziché alla piena maturità del suo genio potenziato dalla ricchezza delle sue esperienze. Mai nell'antichità le forze operanti nella storia sono state ravvisate in modo così preciso e nello stesso tempo così largo e comprensivo. E qui può dirsi che T. superi, almeno virtualmente, la limitazione che ha posto alla storia assegnandole il campo del presente inteso nel senso empirico. Addita infatti il modo di fare storia del passato rendendolo presente alla luce delle esperienze di vita.
Ma lo storico che era giunto a tale altezza non poteva attardarsi nella unilateralità di taluni suoi precedenti giudizî. Si è già accennato al punto centrale che l'assedio di Melo, episodio di pochissima importanza per sé, di moltissima per la risonanza che ebbe negli animi, occupa nella storia di T. Ora l'assedio di Melo è preceduto dal famoso dialogo tra Melî e Ateniesi, in cui gli Ateniesi giustificano il loro procedere contro la piccola isola affermando nel modo più brutale il diritto della forza. Lo storico in apparenza riferisce senza fare alcuna valutazione. Ma non può esser dubbio che egli qui non trascrive punto un effettivo colloquio tra Ateniesi e Melî, bensì prende l'occasione per chiarire quella che era ai suoi occhi la vera essenza dell'imperialismo ateniese. Il significato di questa sua concezione non s'intende che mettendola in relazione col momento in cui il dialogo fu scritto. Composto come esso fu fra il tripudio che salutò la caduta della Dominante, la fredda, gelida anzi, obiettività apparente dello storico, che, attraverso alle battute del dialogo, registra senza commento quella brutale proclamazione del diritto della forza, si trasfigura nella recisa condanna di tale diritto. La speranza peraltro che la caduta dell'impero ateniese segnasse l'inizio di un'era di libertà e di giustizia, doveva crollare subito dopo tra il fango e il sangue delle orribili rivoluzioni oligarchiche scatenate sotto il patrocinio di Lisandro in Atene come in tutte le città dell'impero. E mentre, più esosa della ateniese, si assideva sulla Grecia l'egemonia di Sparta, si rivelava al vecchio storico quello che aveva costituito la grandezza dell'impero ateniese, lo sforzo consapevole di contemperare nella misura del possibile con la massima libertà delle città e degl'individui la potenza acquistata dalla Dominante mercé la guerra persiana e conservata poi e accresciuta per la stessa necessità della sua logica interna. Così egli era ormai in grado di celebrare con profondo senso storico e con altezza di sentimento pari alla larghezza della visione, nell'epitafio di Pericle, l'epicedio dell'impero ateniese. Queste furono tra le sue ultime pagine. Ché la vita gli mancò per adeguare alla concezione più alta, più umana, più comprensiva, l'opera che egli veniva elaborando.
La storia di T. nel suo primo abbozzo come nell'ultima stesura è e vuol essere solo una storia politica. T. non ha altri interessi che politici e perciò nel caratterizzare le attitudini e le azioni degl'individui e dei popoli non ha altro riguardo e altra mira che alla loro efficacia politica. Ma non per questo Temistocle, Pericle o Alcibiade sono presso di lui individui astratti o tipici, sono anzi individualità politiche nettamente disegnate con quei particolari pregi o quelle particolari deficienze che hanno agevolato o intralciato l'opera loro. E può anzi dirsi che nella sua storia l'individuo ha veramente una posizione centrale spiccatissima. E agli occhi di T. appare non dubbia la capacità che hanno di fare storia uomini come quei tre grandi Ateniesi, anche se contingenze talora indipendenti dalla loro volontà, come la peste in Atene, talora dipendenti da loro stessi, come il sospetto che suscitava l'ambizione smodata di Alcibiade, intralciano in tutto o in parte la loro azione. Questa sua concezione appare nettamente nei discorsi più caratteristici come il terzo di Pericle (II, 60-64) e il primo d'Ermocrate (IV, 59-64).
Quali siano o debbano essere i rapporti tra politica e morale è un problema a cui T. nei discorsi dei suoi personaggi accenna più di una volta. Certo sarebbe arbitrario ascrivergli l'una o l'altra delle sentenze che in questa materia si trovano in quei discorsi. Ma è a ogni modo importante ricordare l'implicita condanna del diritto della forza, che, come si è veduto, sottostà al dialogo tra gli Ateniesi e i Melî. Altrove poi, quando egli mette in luce, parlando della peste (II, 52-53) o della rivoluzione di Corcira (III, 81), lo scatenamento delle passioni brutali che s'associò al prolungarsi e all'inasprirsi della guerra, e alle calamità che l'accompagnarono, si manifesta il senso d'amarezza e di orrore con cui lo storico vi assisteva. In questo come nell'austerità priva di lenocinî della sua trattazione e nello sforzo per cercare la verità dei fatti traluce la diritta coscienza dello scrittore. Ma scrivendo di cose contemporanee, di fatti a cui partecipava e che lo commovevano, di uomini che amava come Pericle o che odiava come Cleone, col suo amore per la verità interferivano passioni contingenti che non potevano talora non oscurargliela. Ciò si vede chiaro soprattutto nella luce malevola sotto cui presenta la spedizione di Cleone a Pilo o nella penombra favoreggiatrice in cui lascia il decreto megarese di Pericle. Ma è prova solenne del suo amore per la verità che, come da molti si è messo in chiaro, nell'un caso e nell'altro egli ha fornito tutti gli elementi necessarî per correggere i suoi giudizî e giungere a una valutazione dei fatti più equa.
Più difficile è giudicare sulla religione di T. A differenza di Erodoto, la cui storia è piena d'interventi divini, presso T. nessuna potenza invisibile sembra assistere alle lotte degli uomini, nessuna speranza che non sia quella del successo o della gloria li conforta. Delle credenze popolari egli non parla se non per respingerle o sorridendo come a proposito dell'oracolo ambiguo che si poteva applicare alla peste e alla fame (II, 54, 2) e di quello sul Pelargico (II, 17,1-2) o sprezzantemente come a proposito delle speranze fallaci cui si aggrappano con loro danno i superstiziosi (V, 103, 2). Nessuna traccia apparente della fede nella divinità tradizionale. Che non si trattasse però d'una pura e semplice negazione del divino ci fa credere un accenno della Storia, a cui il luogo che occupa dà una particolare pregnanza di significato: l'invocazione da parte dei Melî del fato divino (τύχη ἐκ τοῦ ϑείου: V, 104; 112, 2), il quale non può permettere che essi siano ingiustamente oppressi. Questa invocazione, fatta nel dialogo tra i Melî e gli Ateniesi, viene dagli Ateniesi irrisa, ma non collima certo col giudizio loro quello dello scrittore che la registra mentre, caduta Atene e distrutto l'impero, i Melî superstiti tornavano sotto la protezione di Sparta nella loro isola e ne rinnovavano l'autonomia cacciandone i coloni ateniesi.
La profondità, originalità e complessità del pensiero, la viva passione che pervade lo scrittore e che egli nel suo studio di obiettività si sforza di dominare, la difficoltà di cercare nella prosa attica che era alle sue prime prove l'espressione adatta al suo pensiero, dànno allo stile di T. quella tensione e nervosità, quella crudezza vigorosa, per cui ha avuto sempre tanta risonanza nell'animo dei lettori. Nel racconto egli raggiunge talora senza lenocinî e senza studio di effetti un'efficacia ed evidenza singolari. Nei discorsi l'accavallarsi dei pensieri, la soppressione dei nessi, la pregnanza dell'espressione sono talora causa di oscurità. Ma questa oscurità che è rotta da vivi bagliori anziché stancare stimola all'approfondimento.
L'impressione che l'opera di T. fece sui contemporanei fu enorme. Da allora non mancò più in Grecia chi, seguendo il suo esempio, narrasse storia contemporanea. Teopompo e Senofonte, pur da lui profondamente diversi per animo e per ingegno, se ne fecero continuatori e ne subirono l'influsso; dell'altro continuatore Cratippo non conosciamo bene né il carattere né l'età. Subirono pure largamente il suo influsso l'autore delle cosiddette Elleniche di Oxyrhynchos e lo storico siciliano Filisto, che è detto da Cicerone pusillus Thucydides. Eforo fece molto uso di T. come fonte per la pentecontaetia e per la guerra del Peloponneso. Ma nel complesso la storiografia del sec. IV, pur dipendendo da T., seguì in gran parte sotto l'influsso della retorica e della nuova filosofia vie diverse dalle sue. Così per molti rispetti anche la storiografia dell'ellenismo. Ma dopo quel passeggero oscuramento, l'opera di T. tornò in grandissima voga dal sec. I a. C. e fu largamente usata e imitata da scrittori latini, come Sallustio, Tacito e il tardo Ammiano Marcellino, e greci, come Cassio Dione e Procopio. L'incomprensione di critici come Dionisio di Alicarnasso non tolse nulla alla popolarità del grande scrittore. Quanto alla sua imitazione, essa, soprattutto presso i Latini, fu in gran parte esteriore e formale e nessuno fino all'età moderna ricalcò veramente le sue orme specie rispetto al modo di ricostruire e intendere il passato.
Manoscritti ed edizioni. - Tutti i nostri codici di T. risalgono ad un unico archetipo abbastanza tardo. Fa solo eccezione a partire da VI, 94, un codice Vaticano del sec. XI (B), e con esso, ma solo per un breve tratto, un codice umanistico Parigino (H). Per il resto anche nei codici che rappresentano la tradizione comune compresi per la parte anteriore a VI, 94 B ed H, si distinguono due gruppi: l'uno, in massima il migliore, di cui il più autorevole rappresentante è un codice Laurenziano del sec. X; l'altro cui appartiene con varî altri codici B; e finalmente vi è un codice Britannico del sec. XI, M, che sta in mezzo tra i due gruppi. I numerosi papiri che ci dànno frammenti di T. e che offrono anche un discreto numero di buone lezioni ignote ai nostri codici, mostrano che "preformazioni delle due famiglie c'erano già nel sec. II-III d. C.", e che per i primi tre quarti dell'opera di T. per cui possediamo solo un'edizione antica... "... siamo sicuri che di moltissimi errori non ci accorgeremo neppure". (cfr. G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934, p. 318 segg.). - Editio princeps: Venezia 1502. Edizioni critiche: E. I. Bekker, Berlino 1821; F. Haase, Parigi 1840; C. Hude, Lipsia 1898-1901. Edizioni commentate di E. F. Poppo e J. M. Stahl, 2a ed., Lipsia 1886; di J. Classen e J. Steup, Berlino 1862 segg. (con numerose edizioni successive d'ogni libro). Prezioso sussidio è M. H. N. v. Essen, Index Tlucydideus, Berlino 1887.
Bibl.: F. W. Ullrich, Beiträge zur Erklärung des Thukydides, Amburgo 1845-1846; L. Cwiklinski, Quaestiones de tempore quo Thucydides priorem historiae partem composuerit, Berlino 1873; id., Die Entstehungsweise des 2. Teils der thukydideischen Geschichte, in Hermes, XII (1877), p. 23 segg.; U. v. Wilamowitz, Die Thukydideslegende, ibid., p. 326 segg.; B. Schöll, Zur Thukydides Biographie, in Hermes, XIII (1878), p. 233 segg.; H. Müller-Strübing, Thukydideische Forschungen, Vienna 1881; J. Steup, Thukydideische Studien, I-II, Friburgo in B. 1881-1886; A. Kirchhoff, Thukydides und sein Urkundenmaterial, Ein Beitrag zur Enstehungsgeschichte seines Werkes, Berlino 1895; E. Meyer, Forschungen zur alten Geschichte, II, Halle 1899, p. 269 segg.; U. v. Wilamowitz, Thukydides, VIII, in Hermes, XLIII (1908), p. 596 segg.; G. B. Grundy, Thucydides and the history of his age, Londra 1911; N. Festa, Sulla pubblicazione della storia di Tucidide, in Rassegna italiana di lingue e letterature classiche, I (1918), p. 3 segg.; E. Schwartz, Das Geschichtswerk des Thukydides, Bonn 1919; M. Pohlenz, Thukydides Studien, I-III, in Nachrichten der Götting. Gesellsch., 1919, p. 95 segg.; F. Taeger, Thukydides, Stoccarda 1925; G. F. Abbott, Thucydides, Londra 1925; E. Täubler, Die Archäologie des Thukydides, Lipsia 1927; W. Aly, Form und Stoff des Thukydides, in Rheinisches Museum, n. s., LXXVII (1928), p. 36 segg.; W. Schadewaldt, Die Geschichtschreibung des Thukydides, Berlino 1929; W. Kolbe, Thukydides im Lichte der Urkunden, Stoccarda 1930; G. De Sanctis, Postille Tucididee, in Rendiconti della R. Accad. Naz. dei Lincei, s. 6a, VI (1930), p. 299 segg.; A. Deffner, Die Rede bei Herodot und ihre Weiterbildung bei Thukydides, Monaco 1933; A. Momigliano, La composizione della storia di Tucidide, in Memorie della R. Accad. delle Scienze di Torino, LXVII (1933), p. 1 segg.; F. Guglielmino, La concezione etico-politica di Tucidide nella redazione definitiva della sua storia, in Archivio di Storia della filosofia, II (1933); O. Regenbogen, Thukydides als politischer Denker, in Das humanistische Gymnasium, 1933, I-II, cfr. Rivista di Filologia, n. s., XII (1934), p. 395 segg.; H. G. Strebel, Wertung und Wirkung des thukydideischen Geschichtswerkes in der griechisch-römischen Literatur, Monaco 1935, diss.; E. Dietzfelbinger, Thukydides als politischer Denker, Erlangen 1934, diss.; A. Rehm, Über die sizilischen Bücher des Thukydides, in Philologus, LXXXIX (1934), p. 133 segg.; W. Jaeger, Paideia, I, Berlino 1934, p. 479 segg.; trad. it., Firenze 1937, p. 559 segg.; G. Pavano, Dionisio d'Alicarnasso critico di Tucidide, in Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino, LXVIII (1935-36), p. 251 segg.; A. Grosskinsky, Das Programm des Thukydides, in Neue deutsche Forschungen (Abt. klass. Phil.), Berlino 1936; M. Pohlenz, Die thukydideische Frage im Lichte der neueren Forschung, in Götting. Gelehrte Anzeigen, 1936, p. 281 segg. - Per l'iconografia di T., v. J. J. Bernoulli, Griechische Ikonographie, I, Monaco 1901, p. 180 segg.; G. Dickins, Some Hellenistic Portraits, in Journal of Hell. Studies, XXXIV (1914), p. 309; F. Poulsen, Greek and Roman Portraits in English Country Houses, Oxford 1923, p. 27 segg.; A. Hekler, Bildniskunst der Griechen und Römer, Stoccarda 1931, tavv. 15, 17. Deve ritenersi che tanto l'erma di Napoli quanto il busto di Holkham Hall risalgano ad un unico originale dei primi decennî del sec. IV, che intendeva rappresentare, sia pure idealizzandoli, i lineamenti dello storico.