Tucidide
Lo schedario di Machiavelli. – La raccolta di «flores» tratti dagli autori antichi da «inserere scriptis suis», di cui parla Paolo Giovio quando descrive il metodo di M. come schedatore di materiali preparatori (Elogia virorum literis illustrium, 1577, pp. 162-63), è un buon dato di partenza. Ci si deve interrogare sul modo, magari distorcente, certo originalissimo, con cui M. ha ‘piegato’ quei testi al senso e al filo della sua riflessione. Una suggestione avanzata da Pasquale Villari aiuta a comprendere:
Egli dové da una cultura comparativamente ristretta sentir qualche danno: ma ne ebbe anche l’inestimabile vantaggio di serbare più viva la spontanea originalità del suo ingegno e del suo stile, i quali non furono perciò, come a tanti seguiva allora, soffocati sotto il peso della erudizione (Niccolò Machiavelli e i suoi tempi illustrati con nuovi documenti, 1877, 4a ed. postuma a cura di M. Scherillo, 1° vol., 1927, p. 285).
Insomma l’uso genialmente orientato dei classici (almeno di alcuni) è anche da considerarsi, in lui, un effetto positivo delle non molte, ma assai meditate letture.
Tucidide in Machiavelli. – Che M. abbia letto almeno in parte lo storico ateniese T. (460 a.C. circa - 395 a.C. circa), ovviamente in latino, sembra assodato. Con ogni probabilità in copie manoscritte della traduzione di Lorenzo Valla (almeno tre sono a Firenze nella Biblioteca medicea laurenziana; per non parlare dell’autografo Vaticano latino 1801). Citazioni esplicite da T., M. ne fa ben poche: ma sono scelte con sapienza politica. Si può anzi sostenere che egli fu uno dei più penetranti lettori politici diT., s’intende prima di Thomas Hobbes. È sintomatica la scelta dei luoghi tucididei che affiorano a supporto dei suoi ragionamenti: a) la guerra civile a Corcira nel suo intreccio con la grande guerra in atto tra Sparta e Atene; b) la valutazione realistica della pace di Nicia; c) il significato della crisi costituzionale del 411 a.C. Ed è significativo che si tratti, in tutti e tre i casi, dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cioè dell’opera nella quale programmaticamente la riflessione politologica si nutre di storiografia greca e romana, non soltanto di Livio.
Corcira (Discorsi II II 22-24). L’episodio che M. rievoca è forse il più feroce della lunga guerra civile corcirese (T. IV xlvi-xlviii). È anche un bell’esempio di come M. deformi e arricchisca il racconto della fonte. Dal latino di Valla «negare se aut exituros aut aliquem introire, quoad possent, permissuros», M. ha ricavato che gli oligarchi corciresi, intrappolati e massacrati con la complicità degli Ateniesi, «deliberarono [...] e, armatisi di quello potevano, combattendo con quelli che vi volevano entrare, la entrata della prigione difendevano» (Discorsi II ii 24).
Il proposito degli oligarchi prigionieri e ormai consapevoli di essere destinati al massacro diventa un fatto: hanno impedito con la forza l’ingresso ai loro massacratori. Si può peraltro osservare che, così traducendo, M. integra un passaggio (il tentativo da parte degli assedianti di forzare la porta) che nella realtà non può non esserci stato, prima della decisione, presa dagli assalitori, di scoperchiare il tetto e colpire dall’alto. La vicenda di Corcira assurge per T. a emblema generale dell’intreccio tra guerra civile e guerra esterna. Tale fenomeno viene da lui sviscerato con un’ampia riflessione riguardante anche il linguaggio della guerra civile (III lxxxii-lxxxiv). La ferocia degli episodi conclusivi (IV xlvi-xlviii) è il portato ultimo delle premesse poste nel libro precedente. È dunque molto significativo che M. abbia ben colto la centralità di Corcira nell’ambito del bilancio politico che T. ha tratto dalla riflessione sul significato del grande conflitto di potenza spartano-ateniese.
In questo caso (Discorsi III xvi 2-5) T. viene esplicitamente menzionato; ed è ben presente perché è sui materiali presenti all’inizio del quinto libro che M. fonda la sua riflessione intorno all’effettivo esito della guerra decennale (431-421 a.C.). La frase chiave del commento machiavelliano è: «sendo la republica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca, e avendo frenato l’orgoglio degli Spartani, e quasi sottomessa tutta l’altra Grecia» (Discorsi III xvi 3). M. sta qui seguendo un altro filo di ragionamento (a partire da T. VI ix 2), che lo porta a considerare il dibattito in Atene pro e contro la decisione di attaccare Siracusa (415 a.C.) e in relazione a ciò a una diagnosi della situazione dei rapporti di potenza in quel momento; che è quanto dire sugli effetti della pace di Nicia del 421 (è, infatti, su Nicia e le sue scelte che si concentra l’analisi). In quel contesto M. lascia cadere quasi per incidens («sendo la republica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca [...]») una dichiarazione che coglie nel segno: che cioè la pace di Nicia, comportando il riconoscimento ufficiale, da parte spartana, dell’impero ateniese, costituiva un vero successo per Atene. Sono le clausole del trattato di pace, a noi note grazie alla trascrizione che ne fa T. (V xviii-xx), che consentono di formulare quel giudizio. Ed è interessante osservare come M. chiami «peloponnesiaca» la guerra decennale, con ciò adottando un modo di esprimere le partizioni del conflitto che trova riscontro in Diodoro Siculo (XIII xxiv 2). La compresenza di differenti suggestioni adeguatamente integrate non deve sfuggire: è uno degli aspetti del modo originale e fecondo con cui M. si appropria e rielabora i materiali schedati nel corso delle sue letture. Ma la profondità della lettura dei luoghi cruciali di T. e l’originalità nel metterli in relazione tra loro appare qui spiccatamente: solo chi abbia bene in mente il decisivo capitolo tucidideo I lxxxviii (gli Spartani si decisero per la guerra non già per voler dare ascolto ai Corinzi, ma perché vedevano Atene dominare ormai «la gran parte della Grecia» [τὰ πολλὰ τῆς Έλλάδος]) e ne abbia apprezzato la portata può affermare che la pace del 421, codificando lo status quo, segnava la vittoria di Atene e ne sanciva il predominio («quasi sottomesso tutta l’altra Grecia»).
Insomma, in un solo nesso di vera profondità diagnostica, M. connette I lxxxviii, V xviii-xx e VI ix. E approda non solo a una fondata diagnosi sulla portata della pace di Nicia, ma anche a un motivato apprezzamento per le ragioni di Nicia nel dibattito intorno all’opportunità o meno, sul piano politico e strategico, dell’attacco alla Sicilia. Il che a sua volta implica un giudizio, non espresso ma implicito, sull’errore commesso dagli Ateniesi con quella opzione militare.
Qui si tratta di un semplice cenno, all’interno del celebre capitolo Di quante spezie sono le Repubbliche, e di quale fu la Repubblica Romana (Discorsi I ii) e dell’esempio, qui addotto, della durata tutto sommato non grandissima della «libertà» in Atene dopo la cacciata dei Pisistratidi («non più che cento anni», § 29). Qui, mentre sta, com’è noto, parafrasando e amplificando gli estratti dal VI libro delle Storie di Polibio, M. ha in mente anche un icastico e compromettente luogo tucidideo del libro VIII (lxviii 4). Si tratta dell’elogio – per i perbenisti inopinato – che T. tributa agli artefici del colpo di Stato del 411: «era grande impresa togliere la libertà al popolo ateniese circa cento anni dopo la cacciata dei tiranni». Il calcolo arrotondato (510-411), il nesso tra la cacciata di Ippia e la vittoria di Antifonte e compagni, la definizione complessiva dei «cento anni» intercorsi tra i due avvenimenti come ininterrotta fase di «libertà», sono elementi che si trovano, tutti insieme, sia nel luogo tucidideo sia nel cap. ii del libro I dei Discorsi. La fonte è certa, giacché solo in T. l’effimero episodio dei Quattrocento (nel 411) assume un così grande rilievo. Ma quel che più interessa qui è che proprio questo cruciale e ‘compromettente’ giudizio di T. sulla ‘grandezza’ di quei golpisti sia finito nello ‘schedario tucidideo’ approntato da M. per sé.
Fortuna e virtù. – Il cap. xxv del Principe costituisce, come si sa, un vero plaidoyer in favore della libertà contro il fatalismo delle concezioni più o meno metafisiche che attribuiscono alla «fortuna» un grande peso e un ruolo determinante nell’esito delle azioni umane. Tale visione metafisica M. la esorcizza pur dichiarandosi consapevole dell’argomento in favore di essa ricavabile dalla «variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura» (§ 2).
La soluzione cui approda, che può sembrare un compromesso intellettuale, è invece un atto di ribellione: «perché il nostro libero arbitrio non sia spento», alla fortuna si dovrà attribuire il ruolo di «arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi» (§ 4). In realtà la fortuna «dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle» (§ 7; corsivo nostro). Non è escluso che in questa calzante formulazione, che chiaramente esprime il primato della «virtù» sulla «fortuna», riecheggi, tra l’altro, il celebre e polemico scambio di battute del dialogo melio-ateniese (T. V cii-ciii) secondo cui chi si appoggia totalmente alla speranza – cioè alla fortuna – prepara la propria rovina. La suggestione tucididea, in questo campo, va comunque ben oltre la più che probabile conoscenza, da parte di M., del «terribile dialogo», come lo chiamò Friedrich Nietzsche (Menschliches, Allzumenschliches, 1878; trad. it. Umano troppo umano, 1° vol., parte seconda, 1979, fr. 92). È tutto l’impianto del racconto tucidideo che esclude il soprannaturale dalla dinamica e dalla spiegazione delle vicende storiche, come ben rilevò Leopold von Ranke nella sua Weltgeschichte (Storia universale, trad. it. dalla 5a ed. tedesca a cura di A. Neppi Modona, 1° vol., Firenze 1932, p. 291). Si può anzi osservare che T. è il solo, e perciò vero moderno, tra gli storici antichi ad avere assunto un tale punto di vista unicamente umano di fronte al grande problema dei fattori di storia. M. ha avuto esperienza e assidua frequentazione di altri caposaldi dell’antica storiografia, quali Livio, innanzi tutto, e poi Diodoro Siculo e Polibio: tutti adepti della visione ellenistica dell’onnipotenza di «Tyche» surrogato semifilosofico degli dei omerici. Ma una tale visione urtava la sua laica e integralmente umana visione della politica: onde può davvero dirsi che, sotto questo riguardo, fu T. il suo vero autore.
Bibliografia: Il Principe, ed. L.A. Burd with an introduction by Lord Acton, Oxford 1891; The Discourses of Niccolò Machiavelli, transl. from the Italian with an introduction and notes by L.J. Walker, London 1950; Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, a cura di C. Vivanti, Torino 1983.
Per gli studi critici si vedano: G. Ellinger, Die antiken Quellen der Staatslehre Machiavellis, Tübingen 1888; M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 1998; M. Chambers, Valla’s translation of Thucydides in Vat. Lat. 1801 with the reproduction of the codex, Città del Vaticano 2008.