LOMBARDO, Tullio
Nacque probabilmente alla metà del XV secolo, in luogo ignoto, figlio di Pietro e fratello di Antonio, scultore e architetto attivo dall'ottavo decennio del Quattrocento.
Un indizio per stabilire la data di nascita del L. è la nota Laus perspectivae dell'umanista Matteo Colacio, pubblicata con il De verbo, civilitate et de genere artis rhetoricae solo nel 1486, ma scritta entro il 1475 (Savettieri). Alla metà dell'ottavo decennio, l'umanista cita i due giovani figli di Pietro come "surgentes". Tale apprendistato non poté che avvenire nel cantiere della cappella presbiteriale della chiesa francescana osservante di S. Giobbe a Venezia, voluta dal doge Cristoforo Moro (morto nel 1471) come sua sepoltura; la critica ha infatti attribuito al L. il tondo con S. Marco nell'intradosso di uno dei pilastri della cappella (Markham Schulz, 1977, p. 39), stilisticamente impregnato di cultura prospettica padovana. Si può ipotizzare che intorno al 1470-71 (data approssimativa dei lavori nella cappella) il L. avesse all'incirca quindici anni. Quale tipo di formazione abbia avuto, oltre alla frequentazione assidua della bottega paterna fin dalla giovanissima età, non è ancora chiarito. La grafia sicura e l'uso appropriato delle abbreviazioni nelle lettere autografe, dei primi anni Venti, del L. a Isabella d'Este (Brown, 1989-90) dimostrano che egli scriveva fluentemente, non senza alcune ricercatezze e parole latine. In una lettera del luglio 1526 a Marco Casalini, suo committente rodigino, il L. introduceva il topico paragone tra pittura e scultura con un'indubbia proprietà di linguaggio.
Lo stile del tondo di S. Giobbe, evidentemente già in possesso di una sua riconoscibilità, non si lascia rintracciare nelle successive opere del padre Pietro degli anni Settanta. Solo il grande bassorilievo con La Pietà e santi, pala dell'altare della cappella Gussoni in S. Lio, a Venezia, realizzata probabilmente entro il 1478, mostra a tratti una sottigliezza d'intaglio e una cadenza classicheggiante che potrebbe rivelare la mano del Lombardo.
Il vero debutto pubblico del L. fu il grande cantiere veneziano di S. Maria dei Miracoli, chiesa votiva costruita a partire dal 1481 con notevole rapidità. La quantità di materiale intagliato e la velocità della costruzione implicarono certamente un'assidua presenza dei giovani figli di Pietro nella bottega. La mano del L. sembra riconoscibile all'esterno nelle patere figurate inserite nell'intradosso dei portali, quello centrale con la Circoncisione (molto rovinata) e il secondo laterale con S. Chiara in estasi e le Stimmate di s. Francesco, in alcuni degli angioletti angolari e nelle statue di coronamento del timpano del Padre Eterno e degli Angeli. All'interno gli sono stati attribuiti variamente, anche sulla base della menzione di F. Sansovino (1581, p. 63), alcune delle sculture che ornano il presbiterio, in particolare S. Chiara e S. Francesco a mezzo busto, finali della balaustrata della scarsella, e il tiaso marino di tritoni e putti nel basamento sinistro delle lesene dell'arcone trionfale, nonché una collaborazione ai tondi con gli Evangelisti nei peducci della cupola (S. Marco). Alcune di queste sculture, tuttavia, furono probabilmente approntate solo nell'ultimo decennio del secolo, poiché, secondo le fonti, la sistemazione dell'altare non era ancora terminata nel 1498 (Ceriana, in S. Maria dei Miracoli…, 2003, p. 116). Nella seconda metà del nono decennio cadono anche i lavori per la cappella del vescovo Zanetto da Udine (Biscaro, 1899; Munman, 1977) nella cattedrale di Treviso, dove secondo Pomponio Gaurico (1504), che per sua stessa affermazione era amico del L., i lavori di intagli preparati dal L. sollevarono un consenso trionfale.
La cassa del sepolcro del presule è infatti decorata con due tritoni canefori e con complicatissimi girali di acanto attentamente rifiniti e ricchi di sottosquadri, tanto da giustificare l'osservazione fatta da Riccio (per diverse ragioni identificabile forse con Andrea Briosco), cui parve assomigliassero a opere lavorate con il bulino, come oggetti di oreficeria; la lode di Gaurico potrebbe forse spiegare anche la secca citazione di Vasari che include il L. nella vita di Vittore Carpaccio solo come buon "intagliatore". Al L. deve appartenere anche la figura del S. Liberale in preghiera sulla tomba (Ceriana, 1991). Dopo il crollo della cappella, non ancora terminata nel 1486, la ricostruzione e la conclusione del cantiere furono forse uno dei primi suoi incarichi d'architettura: il L. giunse a Treviso il 6 maggio 1488 per ratificare per sé e per suo fratello Antonio l'accordo del padre Pietro con i fabbricieri trevisani circa la riparazione dei danni e la ricostruzione del presbiterio (Biscaro, 1899).
In quegli anni il L. partecipò alla ricostruzione della Scuola grande di S. Marco, a Venezia, bruciata nella primavera del 1485; il padre fu incaricato dell'edificazione della sala a pian terreno e della facciata, per essere poi sostituito, come proto, nel 1490 da Mauro Codussi.
Nonostante tale avvicendamento, chiaramente percepibile anche nello stile del progetto architettonico, il L. continuò a fornire parti figurate al cantiere della Scuola, come dimostrano i due Paggi all'antica nel coronamento, intagliati sotto la sua diretta supervisione. Ma le parti spettacolari della facciata sono le riquadrature prospettiche del piano terreno, ottenute con un sapiente gioco di intarsiature lapidee a ospitare, nelle finte arcate illusionistiche, due Leoni marciani e due bassorilievi con S. Marco che guarisce Aniano e S. Marco che battezza Aniano.
In queste finte architetture compare per la prima volta lo stile maturo del L., caratterizzato da un trattamento semplificato delle membrature, scevre di decorazioni ma disegnate da modanature sofisticate che ne aumentano la monumentalità antiquaria. Converrà tuttavia notare che una conoscenza (diretta o indiretta) dell'ambiente artistico milanese da parte del L. è testimoniata dall'Ultima Cena incompiuta rinvenuta a S. Maria dei Miracoli (Frizzoni, 1889), derivata dal prototipo leonardesco nonché dalla citazione di Lomazzo, che conservò la memoria del L. a Milano come esponente della scultura all'antica, insieme con Gian Cristoforo Romano e con il Bambaia (Agostino Busti), sottolineando l'importanza avuta da un tale stile per i pittori milanesi. I bassorilievi della facciata della Scuola grande di S. Marco sono di un'importanza cruciale per l'arte lombardesca: in essi per la prima volta il L. e Antonio pervengono nel bassorilievo monumentale a un linguaggio figurativo compiutamente all'antica, risolvendo il difficile problema di conciliare l'impostazione spaziale tridimensionale della scena narrativa con la conservazione della consistenza tettonica del materiale. Modello di una tale soluzione furono esempi monumentali antichi come quello dell'arco di Costantino a Roma. Questo ha indotto a ipotizzare che il viaggio a Roma del L., testimoniato da Cesariano (1521), potesse essere avvenuto agli inizi dell'ultimo decennio del secolo.
Una prova ulteriore di questa visita nell'Urbe sarebbe l'eco del medesimo arco, che si ritroverebbe anche nell'impaginato architettonico del monumento sepolcrale per il doge Andrea Vendramin (morto nel 1478), fatto costruire dagli eredi in S. Maria dei Servi, iniziato alla fine degli anni Ottanta e terminato entro i primi anni del decennio successivo, in seguito smontato e ora collocato nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. Nel corso degli spostamenti il grandioso insieme ha perduto quattro delle figure principali: la statua di Adamo (New York, Metropolitan Museum), orgogliosamente firmata alla latina, l'Eva (probabilmente mai terminata e aggiunta tardivamente), nonché i due Paggi reggiscudo (Berlino, Bode Museum, gravemente danneggiati nella seconda guerra mondiale).
La composizione ad arco trionfale con l'arcosolio su colonne libere fiancheggiato da nicchie è il risultato quattrocentesco più riuscito di questa tipologia, elaborata nel corso di un ventennio da Pietro e da Antonio Rizzo a Venezia. Le parti figurate furono eseguite dal L. e dal fratello Antonio direttamente o con l'impiego di aiuti. Lo straordinario Adamo è la più fedele e insieme innovativa rilettura del tipo antico dell'Antinoo di tutto il Rinascimento italiano e certamente impressionò il giovane Michelangelo (a Venezia nel 1494), come si può percepire dal Bacco del Bargello (Stedman Sheard, 1971, p. 209). Un simile esercizio di ricalco dell'anta greco-romana rende ben credibile che i due fratelli Lombardo abbiano restaurato statue antiche delle collezioni veneziane, tra le quali il pezzo più impressionante è certamente la Cleopatra ellenistica, già nella raccolta di Giovanni Grimani (Venezia, Museo archeologico: Pincus, 1979; De Paoli, 2004).
Il piccolo e prezioso tabernacolo del Santo Sangue nella sagrestia di S. Maria Gloriosa dei Frari, intagliato per ospitare una reliquia donata da Melchiorre Trevisan e citata da Sabellico alla fine degli anni Ottanta (Paoletti, 1893, p. 216), sembra alludere allo stile del L. nell'ultimo decennio.
In quel lasso di tempo va senza dubbio collocato il Doppio ritratto della Galleria Franchetti alla Ca' d'Oro (Luchs, 1995, pp. 53-55): le due teste ideali, maschile e femminile, rese in un altorilievo tridimensionalmente sapiente, pur rifacendosi fedelmente a tipi antichi, erano profondamente attuali, come dimostrano i tanti riscontri che possono vantare con l'incipiente ritrattistica giorgionesca. Non è improbabile, nonostante alcune perplessità (Fletcher, 1996), che Francesco Colonna alludesse proprio a un'opera simile nel celebre passo della Hypnerotomachia Poliphili (Venetiis, in aedibus Aldi Manutii, 1499, p. riii); è assai verosimile, infatti, che il L. avesse occasione di frequentare il colto domenicano Colonna, avendo lavorato a più riprese nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. L'analogo Doppio ritratto di Vienna (Kunsthistorisches Museum) è, invece, senza alcun dubbio del primo decennio del XVI secolo (Luchs, 1995, pp. 70 s.) e fu forse fatto, data la presenza nella collezione Obizzi al Cataio di origine ferrarese, per la corte estense. A cavallo tra i due secoli si collocano vari pezzi, attribuiti più o meno a ragione alla mano del Lombardo. Tra le teste ideali, quelle di più alta qualità sono certamente a Sibiu (Todoran Ciungan) e in S. Stefano a Venezia (Markham Schulz, in Il camerino, 2004, pp. 212 s.); mentre più problematica è quella già della collezione Huldschinsky (Bode, 1909, pp. 13 s.). La straordinaria testa in cristallo di rocca del Museo di Belle arti a Budapest è stata spesso considerata come incisa su un modello del L. (Szmodis - Eszláry, 1981). Tra le sculture sacre, ancora negli anni Novanta del XV secolo, si pongono il S. Teodoro a mezza figura del Metropolitan Museum di New York e la Pietà nella sagrestia di S. Maria della Salute a Venezia dove, nel seminario patriarcale, si conserva anche un tabernacolo con la Maddalena e la Vergine (Paoletti, 1893, p. 239), certamente della bottega del L. e forse del secondo decennio del Cinquecento, proveniente dalla chiesa di S. Nicolò di Castello dove il L. in quel periodo lavorava. Ancora all'inizio degli anni Novanta del Quattrocento dovrebbe datarsi una pala d'altare di recente attribuitagli, quella con il S. Marco in cattedra ora nella cattedrale di Ravenna, ma proveniente dalle distrutte chiese gemine di S. Marco e S. Sebastiano, ed eseguita per ordine del podestà veneziano di Ravenna, Marco Bragadin (Ferretti, 1999). Alla fine del decennio deve cadere invece il S. Matteo per la cappella Badoer-Giustinian in S. Francesco della Vigna, parte di una serie eseguita con il fratello Antonio e Giovan Battista Bregno (Markham Schulz, 2003, pp. 55 s.). Assai aperto è ancora il problema dei bronzetti, genere che non sembrerebbe disdicevole alle inclinazioni antiquarie del L.: per il momento l'unico esemplare stilisticamente idoneo sembrerebbe una Venus-Caritas a Cleveland assai più che non la pur bella testa all'antica nel Bayerisches Nationalmuseum di Monaco (Weihrauch). Almeno in un caso il L. lavorò per un umanista, quando progettò e parzialmente intagliò la lastra tombale di Marcantonio Coccio Sabellico, proveniente da S. Maria delle Grazie (Venezia, Civico Museo Correr) dove le immagini cristiane hanno ceduto il posto a sofisticati motivi classici e a scritte latine e greche (Ceriana, in Il camerino…, 2004, pp. 290-292). Un problema a parte è quello di due disegni attribuiti sulla base del soggetto alternativamente al L. o ad Antonio (ibid., pp. 218-221). Se il foglio del Fogg Art Museum di Cambridge, MA, riproduce, con una tecnica vicina a quella della bottega mantegnesca, una sirena con girali d'acanto confrontabile con gli intagli di S. Maria dei Miracoli, l'altro, di collezione privata, è in effetti il progetto per uno dei bassorilievi della serie iniziata dal L. e da Antonio nella basilica francescana del Santo a Padova.
Nel luglio del 1500, infatti, dopo l'approvazione del modello della cappella che accoglie la sepoltura di s. Antonio, fu steso il contratto tra i massari dell'Arca, il L. e Antonio (Wilk Blake McHam, 1994, p. 47).
Il L. eseguì il grande rilievo con il Miracolo della gamba riattaccata, Antonio quello con il Miracolo del neonato: entrambe le opere dovevano essere consegnate entro il giugno dell'anno seguente. Nel 1501 il modello di Antonio fu portato a Padova e subito l'Arca commissionò una seconda serie di rilievi ai due fratelli: al L. la Morte di s. Antonio, ad Antonio il Miracolo del cuore dell'avaro. Dei due rilievi, il primo non fu montato che nel 1505 e il secondo non fu mai portato a termine. Dopo l'interruzione dovuta alla guerra contro la Lega di Cambrai (1508-17), nel 1520 il L. si impegnò nell'esecuzione del rilievo di Antonio, che nel frattempo era morto; ma questa seconda scena, il Miracolo del cuore dell'avaro, è datata in calce 1525. Nel 1528 i massari affidarono infine al L. l'esecuzione del Miracolo della mula, già ordinato ad Antonio Minello, ma il rilievo non fu mai nemmeno cominciato e alla morte dell'artista il marmo fu affidato a Iacopo Tatti, detto il Sansovino (Sartori, 1976, p. 207). Ci sono pochi dubbi che l'impaginato architettonico e compositivo del ciclo sia un'invenzione dei due fratelli: in particolare le grandi aule dove si svolgono le scene, delimitate da portici, coperte da volte a botte cassettonate e chiuse in fondo da un septo che lascia intravedere nella finestra terminale una veduta urbana, sono del tutto in linea con le ricerche del L. in quegli anni. Nel comporre la sua scena, ricalcata su una Pietà, il L. scelse un ritmo ampio e disteso, sviluppato lungo il piano del bassorilievo, dove il corpo del giovane miracolato si distende circondato da figure vestite all'antica atteggiate in gesti ampi e avvolte in panneggi bagnati che sottolineano piani ampli, delimitati da pieghe lineari. Le teste, o staccate dal fondo da profondi sottosquadri o appena rilevate in un bassissimo rilievo, hanno capigliature finemente lavorate con il trapano, a imitare, anche nella tecnica, il modello antico.
Una soluzione del tutto simile agli esempi padovani è quella adottata dal L. nella solenne pala marmorea con l'Incoronazione della Vergine per l'altare Bernabò in S. Giovanni Crisostomo, a Venezia, per il quale si può fissare la data di esecuzione tra il 1504 e il 1506 (Jestaz, 2004, p. 47). Lo sfondo architettonico di quella scena, ancora un'aula voltata a botte, diviene quasi visionaria nella sua spoglia severità.
Nel 1507 si pose la prima pietra della chiesa realtina di S. Salvador, fondazione dei canonici lateranensi nel cuore economico di Venezia. Il sito, la dimensione della fabbrica e i tempi perigliosi della guerra contro la Lega ne fanno la più significativa impresa edilizia della città in quel torno d'anni. A capo del cantiere venne posto Giorgio Spavento, fin dall'inizio del cantiere fu coinvolto il L., con la mallevadoria del padre, e fu chiamato "architectus et gubernator" della fabbrica.
I due proti, Spavento e il L., lavorarono insieme probabilmente con un intreccio di competenze voluto dalla proverbiale prudenza della committenza pubblica veneziana, ma anche reso necessario dalla complessità del progetto: si trattava infatti di reinterpretare il modello planimetrico della basilica palatina, il S. Marco, creando una versione aggiornata di un tipo tradizionale e caratteristico della città lagunare. Da questa esigenza derivano l'impianto formato da schemi a quincunx ripetuti e la sequenza processionale delle cupole, nonché il catino ornato di mosaici. Gli alzati sono, dal punto di vista stilistico, caratteristici del L. e riescono a parlare una lingua del tutto nuova in laguna, un eloquio trionfale all'antica incarnato dall'ordine gigante composito, completo della corretta intersezione con un ordine minore ionico, nonché l'attico aperto da occhi. I documenti confermano che il L., divenuto unico responsabile del cantiere dopo la morte di Spavento nel 1509, fornì tutte le sagome delle modanature ottenendo una omogeneità e una coerenza di articolazioni formali inedita a Venezia. In relazione al ruolo svolto presso il cantiere veneziano del S. Salvador deve essere forse inteso un intervento del L., ancora largamente da chiarire, presso la chiesa di S. Maria Maggiore a Treviso sempre dei canonici lateranensi e terminata nel 1530, intervento che, ricordato da Temanza (1778, pp. 118 s.) e da Crico (1833, p. 301), sembrava difficile da mettere a fuoco già a Paoletti (1893, pp. 243, 252).
Data la rilevanza della chiesa realtina non è da stupirsi che il L. fosse, nel corso del primo decennio, coinvolto in molti dei progetti maggiori della città lagunare: a dopo il 1500 risale la costruzione del Santo Sepolcro nella chiesa omonima, complesso ricco di figure lapidee e lignee del quale alcune parti, con gli Angeli adoranti in marmo bianco, si conservano in S. Martino (Corner, 1749) e, sempre negli anni prima della guerra contro la Lega, Tafuri (1986) ha supposto possa datarsi il progetto per il presbiterio della chiesa di S. Maria Maggiore, realizzata tuttavia solo in seguito, negli anni Venti. Dalla Scuola annessa alla chiesa il L. verrà pagato nel 1513 per la realizzazione dell'altare, quello nel quale doveva essere collocata la grande pala di Iacopo Negretti (Palma il Vecchio). Nel 1509 i confratelli della Scuola grande della Misericordia affidarono a Pietro e al L. la realizzazione del nuovo edificio della Scuola su modello di Giovanni Fontana (Howard, 1975, p. 101). Molto incerta è la questione dei possibili progetti del L. per l'edilizia privata: abbandonata l'ascrizione temanziana di palazzo Loredan-Vendramin-Calergi, bisognerà valutare opere come il palazzo Vendramin a S. Fosca, dove sono riutilizzati lemmi architettonici vicini al S. Salvador. Anche l'attribuzione della villa di Girolamo Giustinian a Roncade, in costruzione nel 1514, si dovrà semmai limitare alla possibile fornitura dei materiali da parte della bottega lombardesca piuttosto che al progetto vero e proprio (Kolb Lewis, 1977, pp. 95-97; Ceriana, 2005). Quanto all'attività in palazzo ducale, del quale il padre Pietro era divenuto proto, non sono più identificabili, forse perduti nelle successive trasformazioni, i camini della sala dell'Udienza, opere marmoree intagliate con figure e cavalli, dei quali nel 1505 il L. e Antonio richiedevano il pagamento, e che, tanto stilisticamente che storicamente, non possono essere identificati con quelli ancora conservati (Lorenzi, 1868, pp. 137 s. n. 283; Hope, in corso di pubblicazione). La realizzazione architettonica centrale del secondo decennio del secolo è certamente il progetto per la nuova chiesa cattedrale di Belluno (Guerra, s.d.).
La fabbrica prese l'avvio dopo l'elezione di Pierio Valeriano ad arciprete del capitolo nell'estate del 1517: l'umanista bellunese, avendo frequentato Venezia e Padova (dove aveva incontrato anche Gaurico) a cavaliere dei due secoli, doveva bene conoscere il L. e avere consuetudine con la sua opera. Il L. lavorò velocemente, tanto che il modello fu spedito ai committenti già nel maggio del 1518. Con questa chiesa il L. offrì una versione moderna dell'impianto basilicale a tre navate concluse da absidi della tradizione adriatica: la grandiosa navata centrale, coperta da una volta a botte, è retta da un ordine gigante di semicolonne composite addossate a pilastri che inquadrano archi e che appare una ripresa dell'ordine teatrale antico, trattato con una grandiosa severità decorativa. Lo schema planimetrico di Belluno è molto simile a un progetto per la chiesa benedettina di S. Maria di Praglia, conservato presso la Biblioteca civica di Padova, il che sembrerebbe confermare la tradizione erudita settecentesca che vorrebbe il L. chiamato dai monaci a ricostruire la propria chiesa nel secondo decennio del XVI secolo; la fabbrica attuale è tuttavia frutto di una radicale rielaborazione del progetto da parte di Andrea Moroni negli anni Trenta dello stesso secolo.
Una notevole ricchezza di materiali e di ornati è invece nella coeva tomba del doge Giovanni Mocenigo (morto nel 1485) nella chiesa veneziana dei Ss. Giovanni e Paolo, realizzazione protrattasi per molti decenni, come dimostra lo stile delle sculture riconosciute al L. già fin da Sansovino (1581, pp. 18v-19).
Stedman Sheard (1977, pp. 249 s. n. 34) ha rintracciato una data finale per il monumento, 1522, ma è possibile che nel 1517 qualcosa fosse già visibile (M. Sanuto, I diarii, XXIV, Venezia 1889, p. 580). Delle parti figurate il bassorilievo con il Battesimo di Aniano è sicuramente autografo e insieme uno dei massimi esiti del L. ancora nel primo decennio del secolo. Di alta qualità anche la più tarda Virtù ammantata della nicchia di sinistra. L'impaginato della tomba ripete, con una fedeltà che rispetta a fondo il modello senza mai copiarlo pedestremente, un arco trionfale antico con semicolonne, risalti della trabeazione e attico; i capitelli compositi sapientemente ricalcati da quelli antichi sono una caratteristica unica del L. in laguna (Jestaz, 1992). Un simile linguaggio trionfale appare nel retroaltare del mausoleo del cardinale Giovanni Battista Zen (morto nel 1501), in S. Marco, realizzato dopo aver ereditato il cantiere della cappella dal fratello Antonio all'inizio del secondo decennio e messo in opera, nelle parti essenziali, entro il 1515 (Id., 1986).
Nel 1518 Vincenzo e Gerolamo Grimani affidarono al L. il progetto di una nuova facciata lapidea di S. Antonio di Castello, destinata anche a commemorare il loro fratello Pietro e il loro padre, il doge Antonio (che morirà nel 1523), una volta defunto (Tafuri, 1982).
Il cantiere si protrasse tra varie difficoltà, anche politiche, tanto che toccherà al Sansovino concludere l'opera nel quarto decennio. La facciata della chiesa, atterrata nel 1807 ma nota attraverso ricordi grafici, era spartita da un binato di colonne libere su alti plinti, con risalti nel fregio e un ordine superiore sempre con il binato di colonne raccordato da volute laterali e concluso da un timpano. Un documento pubblicato da Morresi (2000) ha dimostrato che la fronte era stata costruita dal L. fino alla prima trabeazione e le pietre per il coronamento erano già preordinate: si tratta pertanto dell'unico progetto di facciata che si conosca del L., in cui si nota la precocità dell'uso del binato di colonne, primo caso in laguna in tali dimensioni monumentali.
La più celebre scultura dell'ultima attività del L. è certo il gisant di Guidarello Guidarelli (morto nel 1501) già in S. Francesco a Ravenna e ora nella Galleria dell'Accademia. L'insieme della cappella e del sepolcro è stato pesantemente trasformato, tanto che oggi è difficile dire a cosa si riferissero i pagamenti versati al L. dagli eredi della moglie del condottiero defunto nel giugno 1525, ma è assai probabile che a quella data i lavori fossero più o meno conclusi.
L'effigie di Guidarello non fu portata a completa finitura altro che nel volto straordinariamente lisciato e patetico, del tutto sovrapponibile ad altre opere coeve del L. come l'avaro del bassorilievo padovano o il Cristo dell'altare di Rovigo, tanto che risultano veramente incomprensibili i recenti dubbi sull'autenticità della statua.
In quegli stessi anni lo scultore eseguì per M. Casalini un altare marmoreo in S. Francesco a Rovigo con la Pietà tra i ss. Bellino e Stefano, in seguito pesantemente trasformato (Puppi, 1972): la qualità compositiva del gruppo centrale, risposta al più famoso Vesperbild moderno e cioè la Pietà vaticana di Michelangelo (Ceriana, 2004, p. 268), assicura che l'ideazione ne fu certamente autografa, a conferma della lettera scritta nel 1526 rivendicando la diretta discendenza della scultura dal magistero degli antichi, oltre che la sua più certa durevolezza.
Le due statue laterali di santi, assai più finite e lisciate del gruppo centrale, rimandano all'ultima opera firmata del L., il citato bassorilievo con il Miracolo del cuore dell'avaro, dove il concitato linearismo dei panneggi, la quantità di particolari antiquari cesellati puntigliosamente, l'atteggiarsi patetico dei volti e delle mani raggiungono effetti quasi irrealistici, di un archeologismo paradossale e provocatorio, forse in polemica con lo svolgimento del moderno classicismo cromatico giorgionesco e poi tizianesco in pittura.
Il confronto diretto delle parti figurate rende problematica l'attribuzione al L. dell'epitaffio funebre di Pietro Bernardo (morto nel 1538) ai Frari (Venezia) dove sulla cassa sospesa entro un tappeto lapideo si ergono le statue di Cristo, di S. Pietro e del Donatore in preghiera: tale ascrizione proposta da Paoletti (1893, pp. 253 s.) quanto al progetto generale, ma dubitativamente alle figure, è stata recentemente ripresa e argomentata da A. Markham Schulz (in corso di pubblicazione) all'interno di una diversa valutazione dell'attività ultima del Lombardo. Al contrario la firma del L. esibita nell'epitaffio funebre di Matteo Bellati, fatto erigere dopo la sua morte (1528) dai figli nella cattedrale di Feltre, deve essere intesa in tutto e per tutto come marchio di fabbrica, poiché nessun intaglio, a parte il disegno generale dell'elegante sarcofago, è di una qualità e di uno stile avvicinabili all'artista in persona (Paoletti, 1893, pp. 234, 254).
Come suo padre e suo fratello Antonio, il L. continuò a lavorare per la corte gonzaghesca, in particolare (tra il 1521 e il 1523) realizzò per Isabella d'Este un pavimento di marmi intarsiati per la grotta e una porta, pure di diversi marmi, per lo studiolo, entrambi perduti o di problematica identificazione (Brown, 1989-90); dalle schermaglie epistolari, incentrate soprattutto sulla carenza dei fondi messi a disposizione dalla corte mantovana, si apprende che il L. aveva preparato un pavimento a intarsi anche per il cardinale Marco Corner, forse addirittura per il celebre camerino con i monocromi di Andrea Mantegna e Giovanni Bellini. Nel 1527 il L. si impegnò con Mantova a fornire sei colonne, complete di basi e capitelli dorici in pietra d'Istria (Bertolotti).
Il L. morì a Venezia il 17 nov. 1532, lasciando la seconda moglie Agnesina e i figli Gian Paolo, Giovannino, Marcantonio, Sante e Apollonia. Quest'ultima era esclusa dall'asse ereditario perché sposata con una ricca dote all'orefice Gianantonio, che lavorava a Rialto all'impresa del Sole; mentre Marcantonio, nato all'inizio degli anni Novanta del Quattrocento, era divenuto lapicida (Paoletti, 1893, pp. 254 s.).
Nell'ultima parte della sua carriera il L. cercò di aiutare il figlio Sante (in alcune fonti chiamato Giovanni, a meno che non si tratti del fratello con lui impegnato in qualità di aiuto) a ereditare la bottega familiare (Guidarelli, 2002, p. 32). Sante era nato nel 1504 e si deve immaginarne la formazione all'ombra di un nonno, di uno zio e di un padre assai ingombranti (Paoletti, 1893, pp. 254 s.). Il primo documento che lo riguarda è quello del 20 maggio 1524, quando divenne proto della nuova Scuola grande di S. Rocco sotto la stretta sorveglianza del padre (ibid., p. 125; Guidarelli, 2002, pp. 61-78). L'assunzione del giovane Sante dovette essere un mezzo per assicurarsi l'aiuto del più famoso, ma anche vecchio, architetto e scultore veneziano. Nel triennio di direzione di Sante si completarono le murature perimetrali della Scuola, riccamente incrostate di pietre e marmi, in parte montando pezzi preparati sotto la direzione del predecessore Pietro Bon, in parte ridisegnando l'ornamentazione delle facciate, specialmente di quella sul rio della Frescada, dove si possono leggere alcune belle invenzioni di Sante, forse non senza suggerimenti del padre, specie nella nicchia a serliana con colonne alveolate. Nel maggio del 1527 Sante e il L. si dimisero dalla carica con un accordo che pare essere stato sostanzialmente consensuale: finita la parte maggiore e più complessa della fabbrica della Scuola, i due artisti erano divenuti troppo dispendiosi per le finanze di quest'ultima. Nel 1535 Sante si accordò con Nicolò di Gerolamo Priuli per realizzare un altare nella chiesa di S. Felice, entro il quale doveva essere collocata una pala del Pordenone (Giovanni Antonio de' Sacchis). La sua opera maggiore è senza dubbio il progetto per la chiesa di rito ortodosso di S. Giorgio dei Greci, della quale fece il modello del 1536 e diresse i lavori fino al 1548 (Paoletti, 1893, p. 253): l'edificio, trascurato dalla storiografia, presenta sofisticate soluzioni compositive e ornamentali che coniugano la tradizione della bottega con il nuovo linguaggio architettonico sansovinesco e sanmicheliano. Paoletti (ibid., p. 153) cita, inoltre, non meglio specificati lavori in S. Samuele. Si conosce una dichiarazione fiscale di Sante ai Savi alle decime del 1538 (Markham Schulz, in corso di pubblicazione); mentre è del 1554 la sua partecipazione al concorso per la carica di proto di palazzo ducale nella stessa tornata cui parteciparono A. Palladio, Giacomo Grigi, Antonio Da Ponte (Lorenzi, 1868, pp. 281 s. n. 601). Sante morì il 16 maggio 1560 lasciando alla moglie Lucia e ai figli Tullio e Giovanni Girolamo tutti i fondi della sua bottega, tra i quali numerosi pezzi di scultura (Paoletti, 1893, p. 255).
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