Tumore
Prevenire e curare
Lo stato dell'arte della ricerca oncologica
di Renzo Canetta
24 marzo
Si celebra la Prima giornata nazionale della prevenzione oncologica, fissata per ogni prima domenica di primavera da un decreto della Presidenza del Consiglio. L'iniziativa si propone di richiamare l'attenzione sulla fondamentale importanza di adottare stili di vita sani e di sottoporsi a interventi di anticipazione diagnostica per combattere una malattia che ogni anno in Italia provoca 160.000 morti. Nuove prospettive si aprono intanto per quanto riguarda la ricerca e lo sviluppo di farmaci antitumorali.
La ricerca di base
"Non desisteremo dalla ricerca. E la conclusione di tutto il nostro ricercare sarà arrivare al luogo da cui siamo partiti e riconoscerlo per la prima volta". Con questa bella citazione di Thomas Stearns Eliot il Consorzio internazionale per la sequenza del genoma umano ha concluso, nel febbraio 2001, la pubblicazione sulla rivista scientifica Nature della sequenza iniziale del genoma umano. Contemporaneamente i risultati sullo stesso progetto di ricerca sono stati presentati su un'altra prestigiosa rivista scientifica mondiale, Science, dalla compagnia privata di biotecnologia Celera Genomics. Senza dubbio queste due pubblicazioni, anche se non dirette specificamente alla ricerca oncologica, hanno rappresentato una pietra miliare per gli studi biomedici sul cancro. L'importanza di questo lavoro (non ancora del tutto completato, dal momento che è stato sequenziato il 94% del genoma) consiste nel fatto che ora è disponibile una mappa quasi completa dell'intero patrimonio genetico della specie umana: un catalogo biochimico dei geni umani e delle informazioni che essi contengono. La sostanza fondamentale contenuta nei geni di ogni specie, quindi non solo in quelli umani, è l'acido deossiribonucleico (DNA, Desoxy ribonucleic acid), composto a sua volta da unità di base (adenosina, citosina, guanina, timina), la cui sequenza e combinazione determinano e controllano la funzione dei geni. Anche se vi è ancora molto da conoscere sulla funzione del DNA, si sa che alterazioni del DNA e dei geni possono indurre malattie di vario tipo, tra cui il cancro, e sono in grado di generare risposte dell'organismo a stimoli esterni (tramite, per es., la produzione di proteine) che possono manifestarsi in vari processi patologici. Una delle osservazioni più interessanti del Progetto genoma umano è che dei circa 100.000 geni che possediamo solo 30.000-40.000 sono funzionali, cioè determinano la produzione di proteine. Il resto del patrimonio genetico, non più funzionale, è attribuito a mutazioni indotte da esposizione a fattori esterni (infettivi, ambientali, evolutivi), le quali costituiscono un affascinante bagaglio storico della specie umana. Anche se oggi abbiamo a disposizione la sequenza genomica di centinaia e centinaia di virus, batteri e altri microrganismi, solo in pochissimi casi si conoscono le sequenze di organismi più avanzati, a parte l'uomo. Questi casi sono limitati a un verme della classe dei Nematodi (Caenorhabditis elegans), al moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) e a due specie vegetali: il riso (Oryza sativa), anche se decodificato solo parzialmente, e una pianta (Arabidopsis thaliana) appartenente alla stessa famiglia della senape, le Crocifere. Infine è stato recentemente sequenziato, da parte della Celera Genomics, il genoma della specie animale più utilizzata nei laboratori di tutto il mondo, il topo. La ricerca su specie non umane consente non solo una comparazione con i dati umani, ma anche la disponibilità di modelli di laboratorio utili ed economici. Fondamentale, da questo punto di vista, è stata la ricerca sui lieviti (Saccharomyces cerevisiae, il lievito della birra, e più recentemente Schizosaccharomyces pombe), il cui studio ha consentito la scoperta di meccanismi chiave nella regolazione del ciclo cellulare. Eventuali difetti in questa regolazione possono portare al tipo di crescita non controllata che caratterizza le cellule tumorali. Nell'ottobre 2001 il premio Nobel per la medicina o la fisiologia è stato conferito a tre ricercatori che hanno condotto le sperimentazioni più importanti in questo campo: Leland Hartwell del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, Washington, e Sir Paul Nurse e Timothy Hunt dell'Imperial Cancer Research Fund di Londra. Hartwell ha scoperto un centinaio di geni che regolano il ciclo cellulare, compreso il gene CDC28 che è il primo ad attivare questo ciclo. Nurse ha individuato il gene CDC2 che controlla la divisione cellulare, risultato identico al gene CDC28. Hunt ha scoperto le cicline, proteine il cui livello di produzione presenta variazioni a seconda della fase del ciclo cellulare. La presenza di un gene umano corrispondente al gene CDC28 del lievito è stata scoperta successivamente da Nurse e anche le cicline sono state identificate in molte altre specie. Ulteriori ricerche del gruppo di Nurse sul lievito Schizosaccharomyces pombe hanno identificato 50 geni (dei circa 4800 contenuti in questo organismo) correlati con malattie umane, 23 dei quali a tumori.
La ricerca applicata
Se il sequenziamento del genoma umano corona una lunga fase di studio, è pur vero che questa fase aveva cominciato a produrre importanti frutti nella ricerca oncologica già negli anni precedenti. La progressiva identificazione dei geni umani e della loro funzione, così come la catalogazione completa delle proteine prodotte dai geni funzionali, definiti in toto come proteoma, hanno generato un enorme incremento di potenziali obiettivi terapeutici (target) per la ricerca farmacologica. Intere classi di nuovi farmaci antitumorali sono state messe a punto recentemente, grazie ai progressi nella comprensione delle funzioni biochimiche delle cellule normali e tumorali. Alcune aree della ricerca farmacologica applicata sono oggetto di un particolare fervore di attività, anche se, nella maggior parte dei casi, non sono stati ancora prodotti farmaci sufficientemente sperimentati da ottenere un'approvazione per l'uso generale.
Inibitori della trasmissione dei segnali cellulari e promotori dell'apoptosi
Quella degli inibitori della trasmissione dei segnali cellulari e dei promotori dell'apoptosi è certamente l'area di sperimentazione preclinica e clinica attualmente più attiva in campo oncologico. Il processo tumorale fa sì che le cellule colpite perdano la possibilità di arrestare la propria crescita indiscriminata e di morire naturalmente, secondo un processo al quale viene dato il nome di apoptosi. Attualmente esiste la possibilità di bloccare i segnali biochimici intracellulari che ordinano alle cellule tumorali di continuare la propria crescita e moltiplicazione, mandandole così in apoptosi. Sulla scia del successo ottenuto da un farmaco chiamato trastuzumab (Herceptin), che blocca la crescita dei tumori della mammella che producono la proteina HER2 (regolata dal gene HER2Neu), apparso alla fine degli anni Novanta negli Stati Uniti e successivamente anche in Europa, sono state sintetizzate molte altre nuove classi di farmaci che adottano lo stesso approccio terapeutico e che sono in fase clinica di sperimentazione. I più promettenti sono gli inibitori del recettore per il fattore epidermoide di crescita, gli inibitori della farnesiltransferasi e gli inibitori delle chinasi ciclina-dipendenti. Tutti questi farmaci hanno la possibilità di selezionare cellule tumorali che esprimono una particolare caratteristica genetica e che possono quindi essere identificate al momento della diagnosi, tramite un'analisi del materiale genetico tumorale. Questo approccio è stato definito 'terapia mirata' e offre grandi vantaggi potenziali in chiave di selettività: contrariamente all'esperienza del passato, quando venivano sviluppati farmaci ad azione potente ma alquanto indiscriminata, questa nuova generazione di terapie promette di risparmiare le cellule normali, limitandosi ad attaccare soltanto quelle malate. Una variazione su questo tema è costituita dalle terapie geniche, ove il gene bersaglio viene raggiunto tramite l'uso di vettori virali o batteriologici o dalle cosiddette molecole antisenso, che producono inibizione o stimolazione della funzione genica, a seconda dell'obiettivo prefissato.
Inibitori dell'angiogenesi
Sulla base delle teorie di Judah Folkman e Isaiah Fidler, è stata rivolta notevole attenzione allo studio dell'ambiente che circonda le cellule tumorali e che ne favorisce la crescita e la metastatizzazione. Quest'ambito di ricerca è stato definito, in senso lato, anti-angiogenesi, con riferimento all'inibizione della crescita dei vasi sanguigni che recano nutrimento al tumore. In realtà, sono stati seguiti approcci terapeutici molto diversi tra loro, ma aventi tutti lo stesso scopo. Oltre alla messa a punto di classi di farmaci che bloccano direttamente lo sviluppo vascolare, si sono studiate altre vie al fine di indebolire l'impalcatura che sorregge la vascolarizzazione, o di contrastare la capacità delle cellule tumorali di abbandonare la sede primitiva della malattia e impiantarsi a distanza. Purtroppo, pur essendo passati diversi anni dall'intuizione originale di Folkman, non esiste a tutt'oggi una prova clinica definitiva che sia in grado di confermare il valore terapeutico dell'anti-angiogenesi nel trattamento dei tumori.
Vaccini terapeutici
L'ampliamento delle conoscenze nell'ambito della biologia molecolare ha portato a un nuovo approfondimento della ricerca oncologica nel campo dell'immunologia. L'intento principale di questo tipo di terapia rimane quello di stimolare le difese immunitarie dell'organismo (anticorpi e cellule, soprattutto linfociti) contro le cellule tumorali, ma il modo di raggiungere questo scopo è diventato più sofisticato rispetto al passato e si basa su manipolazioni extracorporee (cioè colture cellulari di laboratorio), volte a potenziare l'effetto immunologico. L'impiego delle vaccinazioni in oncologia, comunque, è differente da quello classico, utilizzato nella prevenzione delle malattie infettive: i vaccini antitumorali sono infatti diretti alla terapia piuttosto che alla prevenzione e vengono quindi utilizzati dopo che il tumore si è manifestato. Allo stato attuale, i risultati più promettenti sembrano riguardare il trattamento della cosiddetta malattia residua minima, cioè di quello che resta dopo che è avvenuta l'asportazione chirurgica della lesione tumorale iniziale.
Farmacogenomica
Tutti gli approcci descritti finora puntano a un fine comune: grazie alla possibilità di caratterizzare geneticamente un tumore, si mira all'individualizzazione dell'approccio terapeutico al singolo paziente e alla singola malattia. Ovviamente, a causa dell'enorme numero di variabili presenti nel genoma umano e probabili nelle mutazioni tumorali, la possibilità di analizzare e sintetizzare le informazioni disponibili richiede una tecnologia informatica altamente sofisticata. L'avvento di microchip in grado di processare simultaneamente molteplici informazioni derivate dall'analisi del DNA estratto dai tessuti normali o tumorali potrà rendere accessibile, in tempi brevi, l'equivalente oncologico di un antibiogramma, giungendo conseguentemente alla definizione della prognosi e alla selezione della terapia più appropriata, in base alla presenza (o all'assenza) di determinate mutazioni geniche. Purtroppo, la tecnologia attualmente disponibile funziona soltanto quando il materiale genetico viene estratto da tessuti tumorali freschi o conservati tramite congelamento, e richiede quindi la collaborazione del paziente, che deve sottoporsi a biopsia, oppure l'accesso alle cosiddette banche tumorali di materiale congelato, che hanno però costi di gestione molto elevati. Nel 2001 sono stati compiuti significativi progressi nell'applicazione di nuove tecniche per l'estrazione di materiale genetico da tessuti tumorali conservati nel modo tradizionale, cioè sotto paraffina e non tramite congelamento. L'approccio farmacogenomico ha ricevuto un grosso impulso dall'industria farmaceutica, ma anche dall'NCI (National Cancer Institute) statunitense. Durante il periodo in cui ha diretto l'NCI (1995-2001), Richard Klausner ha orientato molte iniziative e fondi di ricerca a questo scopo, in particolare nel campo dei linfomi maligni. Il nuovo direttore nominato dal presidente degli Stati Uniti nel 2001, Andrew von Eschembach, ha promesso di continuare su questa via.
La diagnostica
Diagnosi precoce e prevenzione
Si è riacceso il dibattito sul ruolo della mammografia di screening (cioè utilizzata a intervalli regolari, senza che vi sia il sospetto di presenza della malattia) nella diagnosi precoce del tumore della mammella. Il gruppo di lavoro dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell'Organizzazione mondiale della sanità ha ribadito, nel corso di un convegno tenutosi a Lione nel mese di marzo 2001, che le donne tra i 50 e i 69 anni di età che si sottopongono all'esame mammografico riducono il rischio di mortalità per tumore della mammella di circa il 35%. Al contrario, i dati riguardanti le donne tra i 40 e i 49 anni sono assai meno convincenti e ciò lascia pensare che in donne più giovani l'esame clinico possa essere altrettanto preciso dell'esame radiologico della mammella. Questa tesi è stata sostenuta da una recensione pubblicata nel mese di ottobre sulla rivista medica Lancet. A pochi mesi di distanza, tuttavia, il DHHS (Department of Health and Human Services) del governo degli Stati Uniti (corrispondente al Ministero della Salute italiano) ha emanato una raccomandazione più estensiva, includendo tutte le donne al di sopra dei 39 anni nei programmi di diagnosi mammografica precoce, con o senza esame clinico, a ritmo annuale o ad anni alterni.
Anche l'NCI ha confermato pienamente l'opportunità di questa linea d'azione. Un'altra raccomandazione emanata dal DHHS è diretta agli uomini al di sopra dei 49 anni: in questo caso lo screening consigliato è quello per la diagnosi precoce del tumore del colon e del retto e comprende l'esame del sangue occulto nelle feci su base annuale, completato da un esame radiografico (sigmoscopia, colonscopia, o esame radiografico a doppio contrasto del retto), da effettuare a intervalli regolari (da 2 a 10 anni, a seconda della categoria di rischio). L'attenzione attuale alla diagnosi precoce è accresciuta non solo dalla constatazione che l'efficacia delle terapie antitumorali aumenta quanto più la diagnosi è precoce, ma anche dalla disponibilità di nuove terapie per le alterazioni pre-cancerose del tessuto della mammella o dell'intestino. A questo riguardo, dopo i risultati positivi ottenuti nel recente passato con il tamoxifen, un farmaco antiestrogeno, nella riduzione dell'incidenza del tumore della mammella in donne ad alto rischio (1998) e con il calecoxib, un inibitore della ciclossigenasi II (cox-II), nella riduzione del numero di polipi intestinali che possono evolvere in tumori maligni (1999), nel dicembre 2001 è stato dimostrato per la prima volta che il tamoxifen, comparato a un placebo, può ridurre del 28% anche il rischio di sviluppare anormalità di tipo benigno della mammella, come, per es., l'iperplasia atipica. Questo effetto ha diminuito la frequenza di biopsie mammarie del 22% nelle donne trattate con tamoxifen.
Diagnosi avanzata
Gli anni recentemente trascorsi hanno visto la realizzazione e l'affermazione di tecniche radiologiche molto raffinate, come la risonanza magnetica nucleare (RMN) e la tomografia a emissione di positroni (PET); ulteriori progressi sono stati raggiunti applicando analisi di sottrazione o di rinforzo dell'immagine computerizzata. Queste tecniche hanno favorito lo sviluppo di nuovi esami radiologici come, per es., l'endoscopia virtuale, ove l'immagine interna del tubo gastroenterico è ottenuta senza inserimento dell'endoscopio. Nel 2001 è entrata nell'uso una nuova tecnica, chiamata sistema diagnostico d'immagine Given, consistente in una microcamera sistemata all'interno di una capsula di dimensioni tanto ridotte da poter esser ingerita. Questa microcamera, muovendosi lungo il tratto gastroenterico grazie al movimento peristaltico naturale, scatta immagini al ritmo di due fotogrammi al secondo e consente in tal modo l'osservazione di porzioni dell'intestino che normalmente non sono raggiungibili tramite l'endoscopia tradizionale a fibre ottiche.
La terapia
Chemioterapia
Un importante progresso nel campo della terapia antitumorale consiste nell'approvazione, avvenuta in maggio 2001 negli Stati Uniti e in luglio nell'Unione Europea, dell'uso generale dell'imatinib (Gleevec negli USA, Glivec nel resto del mondo) per il trattamento della leucemia mieloide cronica. I tempi di sviluppo dell'imatinib sono stati eccezionalmente brevi: il primo paziente è stato trattato nel giugno 1998 e il dossier di registrazione, sottoposto all'agenzia statunitense per l'approvazione dei nuovi farmaci (FDA, Food and Drug Administration) nel febbraio 2001, è stato giudicato positivamente nel maggio successivo. Bisogna tenere presente che per i farmaci antitumorali il tempo medio di ricerca e sviluppo clinico è di circa 7 anni e quello di revisione per l'approvazione è di circa 16 mesi negli USA, e molto più lungo in Europa. L'imatinib, messo a punto dalla compagnia Novartis, è stato acclamato come il segnale di una svolta epocale nel trattamento mirato dei tumori. Più realisticamente si può affermare che l'imatinib rappresenta un esempio riuscito di sviluppo di una nuova terapia mirata, basata sulla comprensione delle correlazioni tra genomica, biologia molecolare e patologia. Questo farmaco è infatti un inibitore di uno specifico enzima, chiamato tirosinachinasi, il cui ruolo è quello di trasferire fosfati alle proteine che danno segnali di crescita alle cellule umane; questo enzima risulta particolamente sregolato e abbondante in alcuni tumori umani. Il più studiato tra questi enzimi si chiama tirosinachinasi BCR-ABL, una proteina prodotta dalla fusione di due geni, BCR e ABL. Negli individui normali questi geni si trovano su due cromosomi differenti (22 e 9), ma nei soggetti affetti da leucemia mieloide cronica una mutazione genica fa sì che i due geni si ritrovino insieme su una versione troncata del cromosoma 22, chiamata cromosoma Philadelphia. L'imatinib inibisce la produzione della tirosinachinasi BCR-ABL, bloccando la crescita incontrollata delle cellule leucemiche positive per il cromosoma Philadelphia. Da un punto di vista clinico, questo si traduce nella disponibilità di un farmaco, somministrabile per via orale, che ha ottenuto risposte ematologiche complete (cioè scomparsa di tutte le cellule leucemiche) nel 95% dei pazienti con leucemia mieloide cronica e risposte citogenetiche complete (cioè scomparsa di tutti i cromosomi Philadelphia) in più del 50% dei casi. Queste risposte sono spesso di durata molto prolungata e, fattore importante, si ottengono con sintomi collaterali molto ridotti (soprattutto nausea ed edema), che soltanto in una minima proporzione dei pazienti (meno del 3%) causano l'interruzione della terapia. I risultati ottenuti dall'imatinib sono molto meno favorevoli nella fase accelerata e blastica della leucemia mieloide cronica, e ciò indica che mutazioni ulteriori del gene BCR-ABL in cellule che proliferano molto rapidamente possono dare origine a fenomeni di resistenza al farmaco. Una sorprendente osservazione, emersa in tempi successivi, è che un tipo particolare di tumore del tubo digerente, il sarcoma stromale gastrointestinale, presenta una frequente mutazione del gene chiamato c-kit, posizionato sul cromosoma 4, che pure produce una tirosinachinasi molto sensibile all'azione inibitrice dell'imatinib. Il gene mutato è presente in circa il 60% dei casi di sarcoma stromale gastrointestinale, un tipo di tumore molto raro e differente dalla maggior parte dei tumori del tubo digerente, che sono carcinomi. Anche in questo caso, l'imatinib ha avuto una efficacia molto elevata, inducendo una riduzione della massa tumorale nella maggioranza dei pazienti, a fronte di una tossicità minima. Nel febbraio 2002, l'imatinib ha avuto l'approvazione negli Stati Uniti anche per il trattamento di questo raro tumore. È importante ricordare che, in virtù dell'alta specificità dell'imatinib, solo i pazienti che presentano le mutazioni descritte rispondono alla terapia. Così, non è sufficiente rilevare in un tumore la presenza del gene c-kit, peraltro piuttosto frequente in molti tumori umani; infatti è solo la mutazione del gene a rendere la malattia sensibile all'imatinib.
Terapia ormonale
Un secondo importante progresso ottenuto nell'anno 2001 riguarda un tumore molto più frequente, e quindi un numero maggiore di pazienti: il tumore della mammella. Per la prima volta da molti anni, una nuova classe di farmaci ormonali, chiamati inibitori dell'aromatasi, ha dimostrato superiorità di risultati nei confronti del tamoxifen, un altro farmaco ormonale che finora ha rappresentato la terapia di scelta nei tumori della mammella sensibili agli ormoni. In pazienti con malattia metastatica, gli inibitori dell'aromatasi (un enzima che favorisce la produzione di ormoni che stimolano la crescita del tumore) avevano già dimostrato di poter conseguire risultati quanto meno simili, se non superiori, al tamoxifen. I farmaci utilizzati sono stati l'anastrozolo (Arimidex), l'esamestano (Formestane) e il letrozolo (Femara). Nel mese di dicembre sono stati pubblicati i risultati definitivi che comparano quest'ultimo farmaco al tamoxifen e ne dimostrano una chiara superiorità nella percentuale di risposta e nel prolungamento del tempo di sviluppo della progressione della malattia. Allo stato attuale, non sono state ancora dimostrate differenze significative nella sopravvivenza dei soggetti colpiti. Sulla base di questi dati, un nuovo studio, pure pubblicato in chiave preliminare in dicembre, ha comparato l'anastrozolo con il tamoxifen nel trattamento adiuvante (cioè immediatemente successivo alla resezione chirurgica del tumore della mammella) di pazienti in post-menopausa. L'anastrozolo ha ridotto significativamente (17%) il rischio di recidiva del tumore e ha dimostrato un profilo di tolleranza migliore. Anche se preliminari, questi dati suggeriscono che possono esistere nuove alternative terapeutiche al tamoxifen e pongono inoltre interrogativi sull'effetto che questa classe di farmaci potrà avere in chiave sia di terapia, sia di prevenzione del tumore della mammella.
Le organizzazioni di supporto
Gli anni recenti hanno visto crescere e affermarsi un fenomeno molto importante e nuovo: i pazienti, gli ex pazienti (sempre più numerosi e organizzati) e i gruppi di volontariato e di supporto hanno assunto un ruolo determinante in campo oncologico. In passato le associazioni di supporto avevano soprattutto diretto la propria attenzione alla raccolta di fondi di finanziamento per la ricerca, in alcuni casi (specialmente in Europa e in Italia) integrando in modo determinante gli scarsi fondi statali. Oggi, anche se la raccolta di fondi rimane un aspetto importante, l'attenzione è molto più focalizzata sull'educazione e anche, in alcuni casi, sulla valutazione dei temi strategici della ricerca. Il ciclista Lance Armstrong, per es., vincitore di quattro giri di Francia dopo essere stato colpito da un tumore del testicolo con metastasi cerebrali e polmonari, ha dato vita a un programma denominato Cycle of hope ("Ciclo della speranza") che, grazie anche alla popolarità del suo promotore, ha portato importanti contributi soprattutto nel campo dell'educazione alla diagnosi precoce e della partecipazione agli studi clinici. Negli Stati Uniti, la National Breast Cancer Coalition è riuscita a ottenere un ruolo direttivo per quanto riguarda l'assegnazione di una porzione di fondi del Pentagono, stornati dalle spese militari a favore della ricerca sul cancro. Un altro esempio molto importante, proveniente ancora dagli Stati Uniti e certamente da seguire, è il fatto che oggi, nel comitato consultivo della FDA che si esprime circa l'approvazione dei nuovi farmaci antitumorali, siedano con diritto di voto un paziente e un rappresentante dei gruppi di supporto.
Conclusioni
Negli ultimi anni si è verificata una vera e propria esplosione delle conoscenze di base della biologia molecolare, che ha portato a un notevole incremento di nuovi potenziali obiettivi terapeutici per la ricerca farmacologica antitumorale. La sfida del nostro tempo consiste quindi nella scoperta e nello sviluppo di farmaci sempre più accurati e specifici, potenzialmente in grado di individualizzare la terapia a seconda delle particolari caratteristiche genomiche del paziente e della malattia. La speranza è quella di poter affinare le conoscenze di biologia molecolare al punto di poter intervenire più efficacemente a livello di prevenzione, senza dover ricorrere alla terapia quando la malattia è già avanzata. In ultima analisi, possiamo dire che la partecipazione attiva dei pazienti e dei gruppi di supporto, insieme alle componenti tradizionali della ricerca pubblica e privata, sarà un fattore necessario e determinante nel progresso della ricerca oncologica.
Patologia dei tumori
Il termine tumore (dal latino tumor, derivato di tumere "essere gonfio") indica in medicina qualsiasi alterazione o processo morboso di un organo che si manifesta con un aumento del suo volume, oppure in un'accezione più specifica una formazione che si produce in un tessuto in esito a una proliferazione cellulare a sviluppo perlopiù illimitato e a struttura profondamente aberrante. Diversamente da altri processi morbosi, tuttavia il tumore mal si presta a una definizione che, unendo concisione e significatività, ne indichi le specifiche caratteristiche, perché queste possono esprimersi in maniera assai differente nei singoli casi. Si chiamano benigni i tumori che tendono a rimanere localizzati nei luoghi di insorgenza e hanno un accrescimento lento ed espansivo, maligni i tumori ad accrescimento rapido, con ampia infiltrazione degli organi in cui si sviluppano e capacità di diffondersi in tutto l'organismo mediante metastasi.
Fattori non ancora definiti fanno sì che le cellule normali e quelle del tumore benigno restino localizzate nell'ambito dei propri tessuti di appartenenza. Di solito una capsula fibrosa delimita l'estensione dei tumori benigni, che possono pertanto essere asportati chirurgicamente; questi tumori costituiscono un problema rilevante solo quando si accrescono in modo tale da interferire con la normale funzione dell'organo interessato, oppure quando secernono un'eccessiva quantità di sostanze biologicamente attive, per es. ormoni. I tumori maligni invadono i tessuti circostanti e le cellule tumorali entrano nel sistema circolatorio, proliferando lontano dal sito originario di insorgenza e determinando il fenomeno della formazione di aree secondarie di crescita (metastasi). Le cellule maligne sono meno differenziate rispetto alle altre e le loro proprietà variano con il passare del tempo. Le differenze morfologiche fra cellule normali e tumorali sono osservabili al microscopio: nell'ambito del tessuto specifico le cellule cancerose presentano una crescita rapida, un elevato rapporto tra nucleo e citoplasma, nucleoli evidenti, numerose mitosi e strutture relativamente poco specializzate; la presenza di cellule invasive nell'ambito di una sezione di tessuto normale rappresenta un'indicazione diagnostica di malignità. Le cellule maligne, tuttavia, mantengono un numero sufficiente di caratteristiche del tessuto dal quale derivano e pertanto vengono classificate sulla base delle relazioni che le legano al corrispondente tessuto di appartenenza: derivando, come le cellule normali, dai tre foglietti embrionali (entoderma, mesoderma, ectoderma), i tumori maligni vengono classificati come carcinomi se derivano dall'entoderma o dall'ectoderma e come sarcomi se derivano dal mesoderma. Dalla maggior parte degli altri tumori, che sono in forma di massa solida, si distinguono le leucemie che sono tumori sistemici del sangue. Il confinamento di una cellula normale in un dato organo o tessuto viene mantenuto sia da barriere fisiche, sia dalle interazioni complesse che si stabiliscono fra le cellule. La più importante barriera fisica che mantiene separati i tessuti è la lamina basale, che si trova sotto gli strati delle cellule epiteliali e delle cellule endoteliali dei vasi sanguigni. Le cellule metastatiche si aprono un varco attraverso la lamina basale, distruggendo la sostanza di cui essa è composta. Gli enzimi secreti da alcune cellule maligne sono infatti in grado di degradare il collagene e altre proteine della lamina basale. Un'altra proprietà caratteristica delle cellule maligne è quella di eludere la sorveglianza del sistema immunitario. La peculiarità fondamentale delle cellule tumorali consiste nell'essere prive dei processi di controllo della crescita, uno degli aspetti più importanti della fisiologia animale. I 30.000 miliardi di cellule che compongono un organismo sano vivono in una comunità complessa e interdipendente, all'interno della quale controllano vicendevolmente la loro tendenza alla proliferazione. Le cellule normali si riproducono quando ricevono determinati segnali molecolari da altre cellule poste nelle vicinanze. Questa collaborazione fa sì che in ogni tessuto si mantenga uno stato di equilibrio, in modo che la sua struttura e le sue dimensioni siano appropriate ai bisogni dell'organismo. Le cellule tumorali derivano tutte da una cellula ancestrale comune (origine monoclonale del tumore) che, anche molti anni prima che il tumore diventi riconoscibile, ha avviato un programma di riproduzione incontrollata. Nella cinetica della crescita tumorale, alterata rispetto a quella del tessuto normale, si osserva una prima fase di crescita cellulare elevata, cui segue una graduale riduzione, associata all'aumento di cellule non proliferanti rispetto a quelle proliferanti. La percentuale di cellule in mitosi è un indice importante che può essere di grande significato clinico in fase sia di diagnosi, sia di elaborazione prognostica. Il tumore maligno acquisisce, nella sua progressione, una variabilità qualitativa, con una situazione molto instabile dei meccanismi di controllo, aspetti che rendono ragione della sensibilità di alcune neoplasie all'azione ormonale e dei meccanismi di tipo selettivo che determinano, nel corso di una terapia, l'insorgere dei fenomeni di resistenza ai farmaci e alle radiazioni. Alcune ricerche, iniziate negli anni Settanta del 20° secolo, hanno permesso di capire che la trasformazione maligna di una cellula è promossa dall'accumulo di mutazioni in classi specifiche di geni adibiti al controllo della crescita. Lo studio delle caratteristiche delle cellule tumorali negli organismi viventi presenta varie difficoltà, in parte superabili se si utilizzano cellule in coltura. I vantaggi delle colture in vitro sono molteplici: l'ambiente in cui crescono le cellule può essere modificato; il tipo di cellule bersaglio può essere definito; i cambiamenti della cellula dopo il trattamento e il destino metabolico delle sostanze cancerogene usate possono essere analizzati. Le cellule in coltura presentano parametri di crescita ben definiti, sia che si trovino in crescita attiva, sia che siano quiescenti, e possono inoltre essere manipolate geneticamente. Il trattamento di cellule in coltura con vari tipi di agenti cancerogeni, quali virus, sostanze chimiche, radiazioni, modifica le loro proprietà di crescita. I cambiamenti riscontrati sono, per es., la diminuita richiesta di fattori di crescita nel terreno di coltura, la perdita della capacità di arrestare la crescita e dell'inibizione da contatto, la modificazione della quantità e del tipo di proteine sulla superficie cellulare, l'aumento del trasporto del glucosio, la capacità di dare origine a tumore se iniettate in ceppi di topi privati di risposta immunologica. L'insieme di questi cambiamenti viene definito come trasformazione neoplastica.
Classificazione
Il nome dei tumori benigni il più delle volte fa riferimento al tessuto o all'organo di origine. L'adenoma è il tumore derivante da epiteli ghiandolari; il fibroadenoma è quello nella cui struttura è rappresentato anche il tessuto connettivo; il mioma è il tumore derivante da tessuto muscolare e, rispettivamente, il leiomioma e il rabdomioma sono i tumori del tessuto muscolare liscio e di quello striato; fibroma, cheloide, lipoma, xantoma, mixoma, condroma, osteoma sono i tumori dei singoli tipi di tessuto connettivo; angioma il tumore di derivazione vascolare, rispettivamente emangioma o linfangioma se derivante da vasi sanguigni o linfatici; meningioma il tumore delle meningi; neurinoma o neurofibroma il tumore dei tronchi nervosi. Altre volte il nome si riferisce alla particolare conformazione del tumore: verruca, condiloma, polipo e papilloma sono le denominazioni che per tale motivo assumono i tumori degli epiteli di rivestimento. Infine, come altre malattie, alcuni tumori possono essere indicati con il nome dell'autore che più ha contribuito alla loro conoscenza, come nel caso del tumore ovarico detto 'tumore di Brenner'. I tumori maligni, come si è detto, hanno accrescimento rapido e infiltrano ampiamente gli organi in cui si sviluppano, alterandone e cancellandone la struttura. Essi sono profondamente atipici per morfologia dei singoli elementi, struttura del tessuto cui danno luogo e proprietà funzionali; si trasmettono a distanza per metastasi e provocano un decadimento generale che di per sé può essere causa di morte. La riproduzione per metastasi può avvenire con diverse modalità: per effetto della disseminazione delle cellule tumorali in una grande cavità sierosa (cavo pleurico o peritoneale) oppure, ed è l'eventualità più frequente, per la loro penetrazione in canali preformati, principalmente vasi linfatici o capillari sanguigni; per motivi strutturali la via linfatica è seguita prevalentemente dai tumori epiteliali, la via ematica dai tumori delle due serie, l'epiteliale e la connettivale; le caratteristiche anatomiche dei distretti circolatori impegnati spiegano la localizzazione preferenziale dei singoli tumori in stazioni linfatiche e organi determinati. Il decadimento generale causato dal tumore è dovuto in parte al più o meno completo danneggiamento dell'organo colpito dalla primitiva proliferazione e di quelli coinvolti nella disseminazione metastatica, in parte all'immissione in circolo di sostanze tossiche elaborate dal tumore e a un'azione spoliatrice esercitata dalla neoplasia con il suo accrescimento. I tumori epiteliali maligni vengono denominati epiteliomi se derivano da epiteli di rivestimento, carcinomi e adenocarcinomi se invece si sviluppano da epiteli ghiandolari; tale differenza non ha valore assoluto perché non di rado, forse per fenomeni di metaplasia, tumori che si sviluppano da epiteli ghiandolari, come succede per alcuni tumori dei dotti galattofori della mammella, possono assumere le caratteristiche tipiche dei tumori degli epiteli di rivestimento. Nel primo gruppo di epiteliomi si distinguono le varietà: a cellule squamose (o spinocellulari) con le caratteristiche perle cheratinizzate; a cellule basali (o basaliomi, o malpighiani con riferimento allo strato mucoso di Malpighi); a cellule indifferenziate, con un notevole grado di atipie; melanotici (o melanoepiteliomi o melanomi), che derivano dai melanoblasti cutanei. Altre varietà relativamente comuni sono gli adamantinomi, i craniofaringiomi, gli epiteliomi delle vie urinarie (vescica e bacinetto), gli epiteliomi a cellule cilindriche delle mucose dell'apparato digerente, delle vie aeree, dell'utero e delle trombe di Falloppio, il corionepitelioma. Nel secondo gruppo la presenza o meno di una parvenza di struttura ghiandolare distingue gli adenocarcinomi dai carcinomi. Sedi più frequenti di adenocarcinomi sono la mammella, il rene, la prostata, lo stomaco, il collo e il corpo dell'utero, la tiroide. I tumori maligni dei connettivi e degli organi mesenchimali in genere sono detti sarcomi e precisamente: sarcomi di elevata malignità, se il grado di anaplasia è tale da non consentire il riconoscimento del tessuto di origine; sarcomi blastici nel caso contrario. I primi, in base alla forma e alle dimensioni delle cellule, sono ulteriormente suddivisi in sarcomi a cellule nane, rotondocellulari, fusocellulari, polimorfocellulari. La denominazione dei sarcomi blastici, invece, fa riferimento alla varietà di connettivo o alle particolari strutture da cui prendono origine. I tumori dei tessuti connettivi fibroso, adiposo, mucoso, cartilagineo e osseo sono detti, rispettivamente, fibrosarcoma, liposarcoma, mixosarcoma, condrosarcoma e osteosarcoma; i tumori derivanti dagli osteoclasti sono denominati osteoclastomi, o anche sarcomi a cellule giganti o a mieloplassi; i sarcomi blastici dei vasi sono denominati endoteliomi e con maggior precisione emangioblastomi e linfangioendoteliomi, se derivano dall'endotelio vasale, periteliomi se riferiti all'avventizia e angiosarcomi se sono dovuti alla degenerazione maligna di un angioma. Mesotelioma è il nome del tumore che deriva dalla proliferazione del rivestimento delle grandi cavità sierose, pleurica o peritoneale. Leiomiosarcoma e rabdomioma sono i tumori blastici del tessuto muscolare liscio e di quello striato. Le malattie neoplastiche del tessuto ematopoietico includono le leucemie, mentre un gruppo eterogeneo di tumori originanti dai sistemi reticoloendoteliale e linfatico sono i linfomi Hodgkin e non Hodgkin, il linfoma di Burkitt e la micosi fungoide (rara neoplasia a carico dei linfociti T, prevalentemente localizzata alla cute).
Oncogenesi
Sin dal 19° secolo la genesi dei tumori è stata oggetto di numerose ricerche, ma per un congruo periodo di tempo queste hanno proceduto in maniera disorganica, perché la mancanza di adeguati strumenti di analisi le obbligava a muoversi prevalentemente sul piano morfologico e su quello clinico: l'oscurità che circondava i normali meccanismi di controllo della crescita cellulare impediva di aggredire il nodo centrale del problema. Nel corso degli anni Quaranta, con lo sviluppo delle conoscenze biochimiche sul metabolismo delle cellule, furono condotte specifiche ricerche volte a individuare sia i meccanismi che innescano lo sviluppo tumorale, sia le differenze fra il metabolismo delle cellule normali e quello delle cellule cancerose ma, in generale, non sono state osservate differenze tra tumori e tessuti normali per ciò che riguarda i principali cicli metabolici, tanto da poter affermare che non esiste un effettivo difetto metabolico delle cellule tumorali. Anche quando le ricerche degli inizi del 20° secolo hanno portato a risultati di notevole importanza, la carenza di strumenti culturali adatti ha impedito un ulteriore approfondimento, come è successo, per es., per la dimostrazione dell'origine virale di un tumore spontaneo del pollo, che, fornita da Francis Peyton Rous (sarcoma di Rous) nel 1911, valse al suo autore il premio Nobel (1966) solo dopo più di mezzo secolo, essendo occorsi vari decenni perché se ne cogliesse appieno il significato. In seguito, i progressi concettuali e strumentali della biologia e della patologia sperimentale (genetica, immunologia e virologia comprese), della chimica, della biochimica e della fisico-chimica hanno fornito i mezzi per individuare i processi di cancerogenesi e i fattori di varia natura che hanno la capacità di indurre tumori o comunque di concorrere significativamente al loro sviluppo.
Fattori ambientali
L'interesse per la cancerogenicità degli agenti chimici è stato destato dalle osservazioni, alcune di epoca assai remota, della particolare frequenza di malattie tumorali in soggetti esposti al ripetuto contatto con determinate sostanze, principalmente fuliggine, catrame, anilina, arsenico, berillio ecc., e da analoghe osservazioni di ordine epidemiologico. Dallo sviluppo degli studi su questi agenti è stata individuata una lunga serie di sostanze cancerogene, molto diverse tra loro da un punto di vista strutturale. Per quello che riguarda la capacità di indurre tumori, si possono distinguere due categorie: le sostanze ad azione diretta e quelle ad azione indiretta. I cancerogeni ad azione diretta sono in minor numero e sono composti elettrofili che reagiscono con i gruppi carichi negativamente di altre molecole. I cancerogeni ad azione indiretta sono più numerosi e richiedono attivazione metabolica per poter esplicare la loro azione. Mediante l'introduzione di gruppi elettrofili la sostanza originaria, denominata pre-cancerogeno, si trasforma nel cancerogeno terminale altamente reattivo. I risultati sperimentali dimostrano che l'effetto cancerogeno si esplica mediante la reazione delle sostanze elettrofile con il DNA. A seconda della loro struttura e della loro dimensione, questi composti reagiscono in posizioni diverse e con differenti basi del DNA. I cambiamenti nella sequenza di basi determinano cambiamenti nel fenotipo della cellula colpita e di tutte le cellule da essa derivate; i cancerogeni agiscono cioè come agenti mutageni. Cambiamenti nella sequenza del DNA possono avvenire per errori durante la sua duplicazione oppure, più frequentemente, per errori dei processi di riparazione che la cellula mette in atto per liberarsi del danno indotto dal cancerogeno. L'elenco più completo e aggiornato delle sostanze chimiche che possono essere associate a tumori nell'uomo è contenuto nelle monografie pubblicate a partire dal 1972 a cura dell'Organizzazione mondiale della sanità. Vi sono descritti le proprietà fisico-chimiche, i metodi di analisi, il loro uso e produzione, l'epidemiologia, i risultati della sperimentazione sugli animali, la tossicità, gli effetti genetici di oltre 700 sostanze. Tutte queste osservazioni permettono di valutare il rischio cancerogeno per l'uomo secondo criteri che sono stati coordinati nel 1977 e sono continuamente sottoposti a revisione a seconda del progredire delle conoscenze. Le sostanze chimiche analizzate sono divise in quattro categorie: sostanze con evidenze di cancerogenicità sufficiente, limitata, inadeguata e assente. Tra i cancerogeni fisici si annoverano fattori meccanici, fattori termici, radiazioni ultraviolette e radiazioni ionizzanti. Sia le radiazioni ultraviolette sia le radiazioni ionizzanti provocano rotture a carico delle catene del DNA. Entrambi i tipi di radiazione possono indurre il cancro negli animali da esperimento e possono trasformare le cellule in coltura. La capacità di provocare il cancro nell'uomo è stata dimostrata dalla drammatica incidenza di leucemie fra coloro che sono sopravvissuti alle bombe atomiche sganciate nella Seconda guerra mondiale.
Virus oncogeni
Numerosi virus sono causa di tumori che compaiono naturalmente nella patologia di varie specie animali o sono in grado di produrre tumori se inoculati in animali da esperimento. Nonostante i molti ostacoli che si incontrano nel riconoscimento di correlazioni tra tumori e agenti eziologici, è stato stimato che almeno nel 15-20% dei casi di patologia neoplastica globale dell'uomo sono coinvolti virus. I virus che inducono tumori in vivo e che provocano la proliferazione cellulare in vitro sono numerosi e molto vari sia strutturalmente, sia sotto il profilo della complessità genetica. Si conoscono virus la cui azione patogena prevalente è di tipo oncogeno (papovavirus) e che tuttavia possono indurre danni patologici di altra natura. Altri, come per es. gli herpesvirus e gli adenovirus, che normalmente causano patologie non neoplastiche, possono in alcuni casi portare a trasformazione e tumori. L'azione oncogena sembra essere prerogativa dei virus a DNA. I desossivirus oncogeni rappresentano infatti un gruppo eterogeneo, composto da virus appartenenti a famiglie diverse (poxvirus, herpesvirus, papovavirus, adenovirus, hepadnavirus). Essi inducono tumori benigni e maligni nei Vertebrati e alcuni sono anche implicati, in cooperazione con altri agenti, nell'oncogenesi umana. Numerosi virus a DNA possono indurre trasformazione cellulare in vitro, per es., il polioma, l'SV40, alcuni virus che causano tumori benigni (papillomi o polipi della pelle), alcuni adenovirus, il virus di Epstein-Barr. È stato dimostrato che alcuni virus a DNA causano trasformazione neoplastica perché il loro DNA si integra in prossimità di un protoncogene, alterandone la funzione. Tra i virus a RNA sono state riconosciute proprietà oncogene ai retrovirus, che si replicano attraverso un intermediario replicativo di DNA. I retrovirus oncogeni causano sarcomi, leucemie acute e croniche negli uccelli, nel gatto, nel bue e nella scimmia e sono responsabili nell'uomo di alcune leucemie linfoidi a cellule T dell'adulto. I retrovirus possono trasformare le cellule e indurre tumore attraverso diverse modalità. Si distinguono infatti due tipi di retrovirus oncogeni: quelli trasducenti e quelli ad azione lenta. I retrovirus oncogeni trasducenti inducono la trasformazione cellulare e determinano l'insorgenza di tumori in quanto contengono oncogeni derivati da protoncogeni cellulari, oltre alle informazioni genetiche codificate dai geni gag, pol ed env che rendono possibile la loro propagazione; nei confronti dei retrovirus trasducenti le cellule rispondono nel giro di alcuni giorni o settimane. I retrovirus ad azione lenta provocano l'insorgenza del cancro in un periodo che va da alcuni mesi ad alcuni anni. Essi non possiedono un oncogene e sono pertanto in grado di moltiplicarsi efficacemente, poiché il loro genoma non ha subito nessun rimaneggiamento. I retrovirus ad azione lenta comprendono il virus murino del tumore mammario e un certo numero di virus della leucemia murina e sono comunque, presumibilmente, la causa principale dei tumori indotti da retrovirus. La maggior parte dei virus trasducenti, invece, si è formata in laboratorio o negli animali domestici ed è stata mantenuta per scopi sperimentali.
Fattori genetici
Il tumore può essere considerato una malattia genetica delle cellule somatiche, in quanto gli eventi che portano le cellule normali alla trasformazione neoplastica esercitano i loro effetti su due classi di geni, i protoncogeni e i geni oncosoppressori, o antioncogeni. Entrambi i tipi di geni svolgono funzioni cellulari correlate con la regolazione della divisione e del differenziamento cellulare: i protoncogeni favoriscono la crescita cellulare, mentre gli oncosoppressori la inibiscono. Uno degli eventi critici che porta alla trasformazione neoplastica è la mutazione spontanea o indotta dagli agenti ambientali chimici o fisici. Le mutazioni possono far sì che il protoncogene produca una quantità eccessiva di proteina stimolatrice della crescita da esso specificata oppure una sua forma eccessivamente attiva; le mutazioni che trasformano i protoncogeni in oncogeni si comportano pertanto come dominanti, in quanto è sufficiente la mutazione di uno solo dei due alleli del gene per realizzare il cambiamento della funzione della proteina codificata. I geni oncosoppressori, invece, favoriscono l'insorgenza del tumore quando sono inattivati da mutazioni. Indizi fondamentali su come i protoncogeni che hanno subito una mutazione contribuiscano alla genesi del cancro sono emersi attraverso lo studio del ruolo svolto nella cellula dalle controparti normali di questi geni. Molti protoncogeni codificano proteine che fanno parte di una catena molecolare di eventi che trasmettono segnali di stimolazione dall'esterno all'interno della cellula. Le vie di stimolazione intracellulari ricevono ed elaborano i segnali trasmessi da altre cellule e tessuti: alcune cellule secernono fattori di crescita che si legano a recettori specifici sulla superficie delle cellule vicine. Quando un fattore di stimolazione della crescita si fissa a un recettore, esso segnala alle proteine del citoplasma di dare inizio al processo di proliferazione; le proteine del citoplasma inviano a loro volta una serie di segnali stimolatori ad altre proteine. La sequenza degli eventi termina nel nucleo, dove fattori di trascrizione attivano una serie di geni che contribuiscono a far percorrere alla cellula il suo ciclo di divisione. La proliferazione di una cellula cessa di essere sottoposta a vincoli quando una mutazione di uno dei protoncogeni attiva una particolare via di stimolazione della crescita, mantenendola funzionante anche quando non dovrebbe. Per es., alcuni oncogeni inducono una sovrapproduzione di fattori di crescita: i sarcomi e i gliomi liberano quantità eccessive di fattore di crescita derivato dalle piastrine. Questi fattori agiscono sia sulle cellule limitrofe, sia sulle cellule stesse che li hanno prodotti. Sono state identificate versioni oncogene anche dei geni per i recettori dei fattori di crescita; per es., i recettori Erb-B2 delle cellule del cancro della mammella trasmettono flussi di informazioni anche quando non sono stimolati dai fattori di crescita. Altri oncogeni modificano i segnali a livello del citoplasma; di questi, i più studiati sono quelli della famiglia degli oncogeni ras. Le proteine codificate da ras normali ricevono segnali dai recettori dei fattori di crescita e li trasmettono ad altri fattori disposti più a valle della catena. Le proteine codificate da ras mutati trasmettono continuamente il segnale anche se non stimolate e si trovano in numerosi tumori umani, fra cui i carcinomi del colon, del pancreas e del polmone. Altri oncogeni, come quelli della famiglia myc, sono coinvolti invece, all'interno del nucleo, nella regolazione della trascrizione. Gli eventi molecolari che portano all'attivazione degli oncogeni sono, oltre alla mutazione puntiforme, l'amplificazione genica, l'infezione virale e il riarrangiamento cromosomico. La mutazione causa il cambiamento di un aminoacido nella proteina codificata e questo evento può impedire l'interazione tra le varie proteine responsabili della regolazione del ciclo cellulare. L'attivazione di un oncogene attraverso l'amplificazione genica porta all'aumento di attività di un gene strutturalmente normale: in questo caso il protoncogene è presente in un gran numero di copie ripetute che si evidenziano sui cromosomi come regioni che si colorano in modo omogeneo. L'attivazione di un oncogene in seguito a infezione virale avviene quando, a causa di processi di ricombinazione, promotori virali trascrivono in gran numero di copie i geni cellulari. Infine diversi tipi di mutazioni cromosomiche sono responsabili dell'attivazione di un oncogene: il cromosoma Philadelphia, per es., deriva da una traslocazione tra i cromosomi 9 e 22 ed è il marcatore cromosomico della leucemia mieloide cronica. Altri riarrangiamenti cromosomici sono peculiari di vari tipi di tumore e costituiscono i marcatori citogenetici utili per indirizzare la diagnosi clinica. Affinché le cellule diventino neoplastiche non basta che sovrastimolino i loro meccanismi di induzione della crescita, ma devono anche fare in modo di eludere o ignorare i segnali di inibizione della crescita emessi dalle cellule normali vicine. I messaggi inibitori ricevuti da una cellula normale fluiscono verso il nucleo attraverso catene molecolari. Nelle cellule tumorali queste catene sono alterate e le cellule ignorano i segnali inibitori che giungono sulla loro superficie. Alcune componenti fondamentali di queste catene di inibizione sono codificate dagli oncosoppressori. Dato che gli oncosoppressori codificano proteine coinvolte nell'inibizione della divisione cellulare, le mutazioni a carico di questi geni si comportano come recessive, in quanto la trasformazione oncogena si verifica solo quando viene persa la funzione di entrambi gli alleli del gene.
Sebbene nella maggior parte dei tumori umani siano state messe in evidenza mutazioni a carico dell'antioncogene p53, questo non significa che la perdita della proteina da esso codificata sia di per sé responsabile delle neoplasie. Le forme più frequenti di tumore umano, come quelle del colon, del polmone o della mammella, sono infatti determinate da mutazioni multiple, che comportano sia l'inattivazione di geni oncosoppressori, sia la conversione di protoncogeni in oncogeni. Nel cancro del colon, per es., i risultati ottenuti studiando le alterazioni geniche in campioni provenienti da una serie di pazienti indicano che questo tipo di tumore è spesso caratterizzato sia dalla presenza di un oncogene ras, sia dalla delezione di porzioni specifiche dei cromosomi 5, 17 e 18. Le forme maligne di tumore del colon che vanno incontro a metastasi presentano sempre le quattro differenti alterazioni geniche, mentre i tumori benigni ne presentano solo una o due; ciò indica che le cellule che acquisiscono un maggior numero di mutazioni danno luogo alle forme di tumore più pericolose. Il numero di mutazioni associate al tumore del colon è, tuttavia, troppo alto per poter rientrare in un normale tasso di mutazione spontanea. Una possibile spiegazione dell'elevato tasso di mutazioni è emersa in seguito alla scoperta che alcuni tumori del colon presentano mutazioni a carico di geni, detti mutatori, la cui alterata funzione determina un accumulo di mutazioni in altri geni. La cancerogenesi è dunque un processo che richiede vari passaggi i quali danno come risultato finale un tumore maligno invasivo e metastatizzante. Deve inoltre essere precisato che, in una cellula, l'acquisizione dei caratteri tumorali non è seguita obbligatoriamente dall'immediato sviluppo dell'attività proliferativa, perché il primo evento che determina l'induzione delle caratteristiche neoplastiche (iniziazione) e la moltiplicazione cellulare (promozione) costituiscono fasi diverse, condizionate da fattori di varia natura; alcuni agenti possono avere effetto iniziante, altri promuovente. È inoltre importante per la comprensione dei processi di cancerogenesi l'osservazione che i tumori nell'uomo hanno un'origine monoclonale, cioè derivano da una sola cellula. In conclusione, le prove più significative che concorrono a dimostrare che la cancerogenesi è un processo a più stadi sono: l'evidenza epidemiologica che il cancro insorge prevalentemente in età tardiva e che il meccanismo della sua comparsa segue una cinetica complessa; il fenomeno di iniziazione-promozione; l'effetto sinergico di oncogeni (per es., myc e ras); l'origine monoclonale dei tumori; l'eredità di un singolo gene, che predispone all'insorgenza di tumori solo quando si verificano cambiamenti a carico di altri geni.
Diagnostica
Per le diverse neoplasie sono stati proposti protocolli diagnostici volti a fornire la dimostrazione della presenza del tumore seguendo criteri di costo-beneficio e di accuratezza diagnostica. Il primo punto dell'iter diagnostico è la dimostrazione citologica o istologica della neoplasia, cui segue la stadiazione della malattia. Questi due elementi sono fondamentali per porre basi terapeutiche razionali.
La diagnostica dei tumori si avvale di indagini di laboratorio strumentali e citoistologiche. Le tecniche di laboratorio, oltre a evidenziare segni indiretti o, in talune neoplasie, diretti della presenza del tumore, consentono anche di dosare, con metodi immunologici, i cosiddetti indicatori bioumorali di neoplasia (antigeni tumorali, subunità ormonali od ormoni, enzimi e prodotti vari del metabolismo). Queste sostanze rappresentano validi indicatori di crescita e di attività tumorale ma, a causa di sensibilità scarsa e specificità nulla, non vengono impiegati nella diagnosi precoce. Le indagini strumentali (invasive e non) comprendono tecniche radiologiche, ecografiche, nucleari ecc. Benché l'introduzione della tomografia computerizzata e della risonanza magnetica nucleare rappresenti un notevole progresso nella diagnostica dei tumori, grazie soprattutto alla qualità delle immagini, talune esplorazioni strumentali continuano a mantenere un ruolo di primaria importanza (per es., la radiografia standard del torace e del tratto digerente; la mammografia; la scintigrafia ossea ecc.). L'impiego di tecniche endoscopiche si rivela utile nella visualizzazione di lesioni tumorali a livello dei diversi apparati e cavità (tubo digerente, albero bronchiale, cavità peritoneale e pleurica ecc.). La biopsia (sempre più diffusa quella con ago sottile) consente diagnosi citologica e istologica anche precoci. Le indagini citoistologiche rappresentano un elemento essenziale dell'iter diagnostico in quanto consentono di procedere al riconoscimento morfologico delle cellule tumorali anche avvalendosi di tecniche immunoistochimiche.
In immunodiagnostica dei tumori lo studio delle molecole associate alla crescita neoplastica ha avuto un notevole impiego sia per definire precocemente la comparsa di cellule cancerose, sia per controllare nel tempo l'evoluzione metastatica. È nato in tal modo il concetto di marker tumorale, inteso come sostanza misurabile nel siero, la cui identificazione in concentrazioni anomale può essere predittiva di crescita neoplastica. L'ambito del marker tumorale si è poi ampliato fino a comprendere il complesso di molecole, come per es. gli antigeni di differenziazione cellulare, che comunque si possono correlare con la comparsa o l'estensione di una massa neoplastica. Se limitiamo l'approccio ai marker tumorali definiti originariamente, dobbiamo considerare tali molecole come altamente sensibili e specifiche, in grado cioè di risultare oggettivamente diverse da altre strutture non appartenenti al tumore. L'insieme dei marker noti è abbastanza lontano dal rispondere alle proprietà di molecole ideali; tuttavia un adeguato impiego degli stessi consente una buona definizione dell'estensione neoplastica e permette un significativo monitoraggio delle terapie adottate, soprattutto in funzione della diagnosi precoce delle recidive. Varie sostanze sono impiegate come marker (enzimi, antigeni oncofetali, ormoni). I più noti sono gli antigeni oncofetali, proteine espresse normalmente nella fase di sviluppo tessutale ma che non compaiono nelle fasi di differenziazione dell'adulto.
Terapia
La terapia dei tumori è diretta a eliminare la proliferazione neoplastica e a prevenirne le recidive, locali o a distanza. Nella maggioranza dei casi, si mira allo scopo con trattamenti chirurgici, radianti e farmacologici, ai quali, dagli anni Settanta del 20° secolo, sono state affiancate altre modalità di approccio terapeutico. A seconda delle caratteristiche istologiche, della localizzazione e dell'eventuale grado di diffusione della proliferazione neoplastica, questi differenti mezzi terapeutici sono impiegati isolatamente o associati in un programma opportunamente articolato o integrato.
Per quanto riguarda la terapia chirurgica, nei tumori benigni la semplice ablazione della neoformazione e dei tessuti contigui offre sufficienti garanzie di guarigione definitiva; il rischio di recidive in loco sussiste solo in pochi casi come, per es., per alcuni tumori encefalici che, a dispetto della loro benignità oncologica, sono infiltranti e nei quali non si può procedere a un'ampia demolizione dei tessuti circostanti. Nei tumori maligni diagnosticati piuttosto precocemente il più delle volte si ricorre al trattamento chirurgico, che comprende l'asportazione del tumore, quella dei tessuti contigui nei quali si può ipotizzare una possibile, iniziale infiltrazione e quella dei linfonodi satelliti, anche se apparentemente indenni. In chirurgia e microchirurgia oncologica si ricorre frequentemente all'impiego del laser, soprattutto quando si temono possibili disseminazioni metastatiche o si interviene su tessuti facilmente sanguinanti.
La terapia radiante, inizialmente basata sull'impiego dei generatori di raggi X, del radio e di altri materiali radioattivi naturali, per lungo tempo ha avuto come campo d'azione specifico solo alcuni tumori, come gli epiteliomi superficiali (cute, bocca, faringe), i tumori del tessuto emolinfopoietico e il seminoma del testicolo; per il resto il suo impiego era complementare dell'intervento chirurgico. L'efficacia della radioterapia è nettamente migliorata grazie ai progressi della fisica nucleare, delle conoscenze di radiologia e delle più efficaci misure di radioprotezione. Gli acceleratori elettronici, soprattutto i betatroni e quelli lineari, permettono di raggiungere i focolai profondi con dosi particolarmente efficaci e rispettando i tessuti sani con una precisione ben superiore a quella possibile con gli apparecchi convenzionali. Essi possono talora consentire di erogare, durante un intervento chirurgico, una singola ma elevata dose di radiazioni nell'area dove è stato asportato un tumore localmente avanzato (radioterapia interoperatoria). I radioisotopi artificiali rendono meno frequente il ricorso al radio e allo stesso tempo permettono l'uso di apparecchiature particolarmente duttili sia per la terapia a distanza (telegammaterapia), sia per quella nell'immediata vicinanza della parte malata (brachiterapia) o negli interstizi dell'organo leso (radioterapia interstiziale). È stato inoltre avviato un tentativo di colpire con millimetrica precisione la massa tumorale lasciando quasi completamente indenni i tessuti circostanti con l'adroterapia, ossia con apparecchiature eroganti particelle elementari che danno luogo a interazioni forti (adroni).
La terapia farmacologica si avvale di numerosi prodotti, variamente somministrabili. Di più largo impiego sono le varie classi di chemioterapici antitumorali e, in secondo luogo, ormoni, loro derivati e antiormoni. Di uso più recente sono i preparati rivolti all'immunoterapia e, nel caso di alcuni tumori difficilmente accessibili per via chirurgica, l'inoculazione ricorrente di semplice alcol etilico nell'intimo della massa neoplastica mediante lungo ago cavo, sotto guida ecografica (alcolizzazione transcutanea). I chemioterapici sono per lo più somministrati secondo schemi di dosaggio, di associazione contemporanea o sequenziale (polichemioterapia) e di durata, in base a protocolli concordati (talora a livello internazionale), e sono scelti in base alle caratteristiche istologiche e al tipo di cinetica cellulare della neoplasia, allo scopo di agire sulle cellule tumorali nel momento della loro massima sensibilità. Una forma di chemioterapia antiblastica del tutto particolare, ancora in via di approfondimento, è la fototerapia dinamica (o terapia fotodinamica), basata sulla somministrazione di una sostanza fotosensibilizzante (di solito un fluorocromo, come l'ematoporfirina o un suo derivato) che poi viene attivata mediante laser o altra fonte di radiazioni luminose con lunghezza d'onda penetrante. La terapia con ormoni, loro derivati o antiormoni si applica ai tumori di quegli organi nei quali sviluppo e funzione sono controllati da specifici ormoni e a condizione che tale dipendenza persista nelle cellule tumorali. Si attua per lo più dopo aver eliminato chirurgicamente (ovariectomia negli adenocarcinomi della mammella, orchiectomia in quelli prostatici) l'organo che secerne l'ormone condizionante (endocrinoterapia passiva), o somministrando ormoni antagonisti (endocrinoterapia attiva), oppure bloccando i recettori ormonali presenti nelle cellule tumorali. I risultati migliori si sono ottenuti nel carcinoma della prostata, che è stato il primo di cui sia stata dimostrata l'ormonodipendenza.
L'immunoterapia dei tumori, anch'essa in via di approfondimento, mira a potenziare la scarsa capacità del sistema immunitario di fronteggiare l'espansione neoplastica. La strategia di intervento consiste nell'utilizzare metodi di stimolo (immunoterapia attiva) o nell'impiego di molecole anticorpali capaci di esercitare un effetto citotossico o in grado di veicolare molecole ad azione farmacologica capaci di svolgere un ruolo antitumorale (immunoterapia passiva). L'immunoterapia attiva viene distinta in non specifica e specifica. L'approccio non specifico si basa sull'impiego di sostanze che, inoculate nel portatore di neoplasia, sono in grado di stimolare soprattutto la componente macrofagica. Tuttavia, l'immunoterapia attiva non specifica ha avuto scarso successo e pertanto l'attenzione si è spostata sull'analisi di potenziali vaccini antitumorali ricavati da cellule neoplastiche modificate e dai loro antigeni dei quali viene accresciuta l'immunogenicità, cosicché viene stimolata la risposta immunitaria del paziente contro il tumore che è stato asportato. L'immunoterapia passiva, originariamente fondata sull'impiego di antisieri, si è arricchita di prospettive mediante l'uso di anticorpi monoclonali. Infatti usando opportune tecniche di laboratorio, si possono produrre molecole anticorpali specificamente dirette verso l'antigene neoplastico che si desidera scegliere come bersaglio. Gli anticorpi monoclonali sono stati proposti come vettori di molecole citotossiche (per es., chemioterapici) o come agenti direttamente in grado di causare la lisi delle cellule tumorali mediata dall'azione del complemento; tuttavia il loro impiego non è ancora entrato negli schemi terapeutici. Un metodo di notevole interesse mira a generare cellule con reattività non specifica verso tumori immunogeni o non. Un'altra promettente via di approccio terapeutico si basa sull'uso di molecole capaci di inibire la crescita tumorale mediante lo stimolo di risposte biologiche dell'organismo colpito dalla neoplasia. Le sostanze considerate comprendono prodotti batterici, estratti timici e linfochine interferone, che vengono complessivamente inclusi nel gruppo dei BRM (Biological responder modifiers). Si tratta di molecole tra loro diverse, che esplicano una funzione genericamente definita modulante e che possono risultare efficaci in particolari condizioni di crescita tumorale.
Uno dei sintomi più gravi per il paziente affetto da tumore è il dolore, che per alcune neoplasie interviene precocemente e per altre si manifesta soprattutto nelle fasi terminali. Per contrastare questa sintomatologia, vengono impiegate terapie farmacologiche e non, che nel loro insieme prendono il nome di terapia del dolore. L'Organizzazione mondiale della sanità ha elaborato una scala sequenziale di impiego di sostanze che, nata per il trattamento del dolore neoplastico, è stata poi applicata anche ad altre tipologie di dolore. Se la terapia farmacologica si rivela inefficace, può essere integrata con l'impiego di tecniche invasive o seminvasive che consentono di portare i farmaci, sia analgesici locali sia oppioidi, a contatto con le radici spinali (analgesia epidurale) o con il sistema nervoso centrale (tecniche subaracnoidee spinali o intraventricolari centrali), modulando l'entrata degli impulsi dolorosi (neuromodulazione spinale). Esistono poi tecniche neurolesive in grado di interrompere la trasmissione dello stimolo doloroso attraverso l'impiego di sostanze neurotossiche (alcol o fenolo) portate a diretto contatto con il tessuto nervoso o con i gangli simpatici e i plessi parasimpatici.