Tumore
Il termine tumore (dal latino tumor, derivato di tumere, "essere gonfio") in medicina indica qualunque alterazione o processo morboso di un organo, che si manifesta con un aumento del suo volume, oppure, in un'accezione più specifica, una formazione che si produce in un tessuto in esito a una proliferazione cellulare, a sviluppo perlopiù illimitato e a struttura profondamente aberrante. Si chiamano benigni i tumori che tendono a rimanere localizzati nel luogo d'insorgenza e hanno un accrescimento lento ed espansivo; maligni quelli ad accrescimento rapido, con ampia infiltrazione negli organi in cui si sviluppano e con trasmissione a distanza per metastasi. Lo stato dell'arte e le prospettive Il corpo umano nella sua normale crescita e nel suo sviluppo segue un progetto ingegneristicamente perfetto, controllato da una centrale operativa che è il sistema genetico: da due cellule derivano miliardi di cellule, ognuna con il proprio compito nel rispetto della specializzazione delle altre, sotto un controllo reciproco e uno di più alto livello. Il tumore è uno degli aspetti abnormi di un'alterazione dell'armonia e dell'equilibrio della crescita degli elementi costituenti il nostro corpo, cioè di un cambiamento della cosiddetta omeostasi (v.). Le cellule di un tessuto iniziano a proliferare in modo assolutamente caotico e non sembrano più sensibili ad alcun meccanismo di controllo, né locale (inibizione della proliferazione da contatto), né generale. Questa 'rivoluzione' a livello del DNA, a seconda del segmento genetico che è danneggiato, porta a una replicazione cellulare che trasforma la cellula in una completamente diversa. Ciascuna cellula dell'organismo contiene esattamente gli stessi geni e l'attivazione o la mancata attivazione di alcuni di essi piuttosto che di altri determina la loro specifica differenziazione. Ogni alterazione, quando non viene immediatamente riaggiustata, induce la perdita della normale sequenza dei geni creando una mutazione: la trasformazione di una cellula normale in cellula cancerosa è un processo che avviene a tappe che possono durare anni (o decenni in certi casi), nel corso dei quali il tumore diventa rilevabile strumentalmente o clinicamente, a seguito di una particolare sintomatologia; questo spiega perché talvolta la diagnosi di tumore risulta biologicamente tardiva. A seconda del tipo di mutazione e quindi di spinta proliferativa e differenziativa, il tessuto neoformato può assumere caratteristiche di benignità o di malignità. Le caratteristiche peculiari in quest'ultima eventualità sono essenzialmente quelle di poter infiltrare i tessuti circostanti e di poter dare metastasi, cioè di localizzarsi in altri organi, sovvertendo anche in questi la normale architettura, fino a sostituirla. Molte informazioni sono state fornite negli anni Novanta del 20° secolo dall'epidemiologia, relative non solo al numero di nuovi casi che si verificano ogni anno (circa 293.000 in Italia negli ultimi anni) o di decessi per anno, ma anche alle associazioni fra determinati fattori ambientali e lo sviluppo di tumori. Il cancro è una malattia ambientale, cioè dipende dalle abitudini di vita di una determinata popolazione di una particolare regione geografica. Il cancro dell'esofago, per es., è frequentissimo in Normandia ed è pressoché assente in Puglia, quello dello stomaco è molto frequente in Toscana e raro in Sicilia. Questo è dovuto a molti fattori, quali, per es., la diversa alimentazione, l'assunzione di bevande alcoliche, la familiarità. Il mesotelioma pleurico è frequentissimo in alcune zone del Piemonte, per es. nel Monferrato, a causa dell'esposizione all'asbesto, e non in altre regioni italiane. Non ultima tra le abitudini di vita, va citato il sempre più comune rapporto tra fumo di sigaretta e cancro del polmone, tumore in continuo aumento in tutto il mondo: si calcola che dai 3 milioni di decessi attualmente registrati in Europa ogni anno si passerà nei prossimi dieci anni a un numero triplo di morti per malattie correlate con il fumo. Deve essere sottolineato che, grazie all'energica campagna contro il fumo di sigaretta condotta in alcuni paesi negli ultimi anni, sembra che laddove si è applicata un'attenta legislazione antitabacco (per es. in Finlandia) il trend della mortalità si sia stabilizzato o invertito almeno nel sesso maschile. L'epidemiologia descrittiva riporta la diversa incidenza, a volte notevole, dei tumori nelle varie popolazioni. Mentre sorprende poco se il cancro della mammella e quello del colon-retto sono più frequenti nei paesi industrializzati, trattandosi di tumori correlati probabilmente con un'alimentazione ricca di grassi e carni e che colpiscono persone con caratteristiche sociali e comportamentali tipiche dei paesi occidentali (vita sedentaria, abuso di alcolici, tendenza ad avere figli in età avanzata, sovrappeso ecc.), in altre forme la spiegazione è più difficile. Così non è chiaro perché l'incidenza di cancro dello stomaco sia altissima in Giappone, discretamente alta in alcuni paesi europei tra cui l'Italia e molto bassa negli Stati Uniti. Vengono suggerite possibili interpretazioni dagli studi sui flussi migratori: nei giapponesi che all'inizio del 20° secolo emigrarono negli Stati Uniti si è assistito a un rapido aumento del cancro colon-retto in entrambi i sessi e, tra le donne, del carcinoma mammario, mentre si è notevolmente ridotta la frequenza del cancro dello stomaco. Tali studi sottolineano l'indubbio ruolo dei fattori ambientali nello sviluppo dei tumori, anche se non si è ancora in grado di stabilire l'importanza relativa di ognuno dei fattori potenzialmente implicati. Negli ultimi dieci anni del 20° secolo la tendenza ad attribuire maggiore importanza nella patogenesi dei tumori ai fattori ambientali rispetto a quelli genetici si è invertita, soprattutto grazie all'esplosione delle conoscenze di biologia molecolare. Quando si afferma che il cancro è una malattia genetica, si vuol dire che esso ha alla sua origine un evento genetico somatico (non germinale), consistente in un'alterazione del DNA, presumibilmente di un'unica cellula. Nella leucemia mieloide cronica, per es., le cellule neoplastiche possono essere distinte da quelle normali per la presenza di una traslocazione fra i cromosomi 22 e 8. In alcuni casi, tuttavia, questa alterazione genetica può essere presente 'costituzionalmente' già alla nascita in tutte le cellule dell'individuo, come, per es., avviene nel retinoblastoma. Fatto ancora più importante, queste mutazioni costituzionali possono essere trasmesse da una generazione alla successiva, così da poter definire il cancro ereditario: è il caso di sindromi neoplastiche molto rare come il tumore di Wilms o la poliposi familiare. Oggi è noto che in quasi tutte le più comuni neoplasie dell'uomo (colon-retto, mammella, ovaio, melanoma), accanto ai casi che apparentemente non mostrano alcuna familiarità, ne esiste una piccola percentuale, clinicamente identica alle forme precedenti, la cui patogenesi ha una base ereditaria. Una considerazione a parte meritano i tumori familiari caratterizzati dall'aggregazione di più casi in una determinata famiglia, senza che peraltro siano evidenti dei meccanismi di trasmissione genetica. Tale aggregazione di tumori potrebbe essere una coincidenza, o essere la conseguenza dell'esposizione dei componenti della famiglia a cancerogeni ambientali (fumo di sigaretta, asbesto), o essere attribuibile a fattori genetici più complessi (multifattoriali) non ancora definiti, oppure anche a fattori virali (carcinoma del collo uterino, tumori del rinofaringe, linfoma di Burkitt ecc.) o microbici (Helicobacter pylori nei tumori gastrici). Nel contesto della patogenesi del tumore è necessario accennare ai virus oncogeni; essi possono rappresentare il primum movens nell'insorgenza del tumore, inducendo nella cellula ospite modificazioni preneoplastiche iniziali che la espongono con maggiore probabilità all'effetto di altri agenti, i quali la fanno poi progredire verso il fenotipo neoplastico. Per quanto riguarda le cause ambientali, numerosi sono ormai gli studi che dimostrano l'influenza di agenti chimici, da un lato, nel danneggiare direttamente il DNA inducendo delle mutazioni puntiformi, dall'altro nell'alterare il ritmo proliferativo delle cellule. Il più antico studio di tipo epidemiologico fu riportato da P. Pott, nel 1775, e riguardava l'azione chimica della fuliggine dei camini nella comparsa di tumori della cute dello scroto degli spazzacamini. L. Rehn, nel 1895, riportò alcuni casi di tumore della vescica in lavoratori da tempo impegnati nell'industria delle vernici a diretto contatto con l'anilina. F.H. Müller, nel 1939, ha descritto l'esistenza di una stretta associazione tra fumo di sigaretta e cancro del polmone. Grazie anche al contributo pluriennale di moltissimi esperti dell'International agency for research on cancer (IARC) di Lione, sono ormai centinaia i composti e i procedimenti industriali classificati secondo il loro livello di pericolosità in senso oncogeno. Anche alcuni agenti fisici sono in grado di provocare alterazioni a livello del DNA e portare alla trasformazione in cellula tumorale. Il carcinoma spinocellulare, che colpiva fino a pochi anni fa le parti esposte dei radiologi durante il loro lavoro di radioterapisti, era conseguenza delle radiazioni ionizzanti accumulate sulla cute in periodi in cui ancora non esistevano normative di radioprotezione. Tuttavia anche il carcinoma basocellulare del viso o delle spalle dei pescatori oppure dei lavoratori all'aria aperta è la conseguenza di una cronica esposizione ai raggi solari (UVA; v. sole). La cellula, peraltro, non è un bersaglio inerme di fronte all'aggressione di tutti questi agenti. La biologia molecolare ha infatti evidenziato relazioni tra gli oncogeni e i processi riparativi del DNA: ben noti sono il ruolo dell'antioncogene p53 come guardia della riparazione del DNA e i meccanismi di protezione da danni genetici esercitati da sistemi enzimatici come quello dei citocromi P-450. Questo spiega anche come fra gli esseri umani esistano individui che, per es., differiscono notevolmente fra loro nella capacità di metabolizzare determinate sostanze esterne e quindi sono più o meno sensibili all'azione di un determinato cancerogeno. Se è vero che in natura sono numerosissime le sostanze in grado di provocare danni al DNA, è intuitivo e del tutto verosimile sospettare la presenza di sostanze capaci di proteggere l'organismo da questi danni. In effetti, si calcola che in natura esistano più di 600 anticancerogeni, di cui 30 sono attualmente in studio sull'uomo: queste sostanze agirebbero sia a livello di inattivazione di cancerogeni chimici, sia attraverso un'aumentata riparazione del segmento di DNA danneggiato. La disciplina che studia queste sostanze si chiama chemioprevenzione, ma sarebbe meglio chiamarla farmacoprevenzione, per distinguerla normalmente dalla chemioterapia. La farmacoprevenzione verifica la capacità di queste sostanze di arrestare il processo iniziale della degenerazione tumorale nelle neoplasie del polmone, dell'esofago, di testa-collo, dello stomaco. Un derivato della vitamina A, la fenretinide, si è dimostrato utile nel proteggere l'individuo da recidive o nuove localizzazioni di precancerosi del cavo orale o della faringe e riduce del 30% la probabilità di ammalarsi alla mammella controlaterale nelle donne sotto i 50 anni che hanno sofferto di tumore al seno. Altre vitamine sembrano proteggere dai tumori, per es. la vitamina E dal carcinoma prostatico. Inoltre, alcune sostanze ormonali sono state testate come farmacoprotettori in oncologia: è il caso del tamoxifene, già ampiamente noto come farmaco adiuvante, in grado di bloccare i recettori cellulari estrogenici proteggendo la ghiandola mammaria femminile dal rischio di carcinoma. In ambito di prevenzione primaria, cioè di educazione del pubblico a seguire abitudini di vita che eliminino il rischio di ammalarsi di tumore, gli sforzi sono innumerevoli. I mezzi di informazione di massa sono in questo campo di fondamentale importanza. Non si può non citare a questo proposito il decalogo del Codice europeo contro il cancro che è stato ristampato per gli anni 2000 (tab. 1). Esiste un'altra forma di prevenzione che è quella definita secondaria, ma che sarebbe più corretto indicare come anticipazione diagnostica. Essa è molto diversa dalla precedente, in quanto consiste nell'identificare tumori iniziali, non ancora percepibili clinicamente. Questo tipo di prevenzione, in assenza della conoscenza dell'esatta eziopatogenesi dei tumori, è l'unica arma per meglio controllare la mortalità da tumore; ha avuto un grande impulso grazie ai progressi in tre settori cruciali: quello della diagnostica per immagini, quello dell'endoscopia e quello dei marcatori immunologici. Grazie ai nuovi strumenti di indagine per immagini è possibile con mezzi semplici e innocui, quali l'ecografia, individuare tumori iniziali in organi sinora poco esplorabili come la prostata e l'ovaio; la mammografia trova indicazione periodica nelle donne asintomatiche dai 40 anni in poi ed è in grado di scoprire delle lesioni microscopiche addirittura diagnosticabili all'esame istologico come non invasive, cioè prive delle vere e proprie caratteristiche di malignità. Inoltre, esistono tecniche che ricorrono a principi fisici meno dannosi delle radiazioni ionizzanti o che riducono molto la dose al paziente, come la risonanza magnetica nucleare (RMN) o la tomografia a emissione di positroni (PET, Positron emission tomography), e che sono in grado di studiare non soltanto la morfologia di una tumefazione ma anche le sue caratteristiche funzionali e biologiche, e nel caso della RMN addirittura tessutali. Le ultime generazioni di tomografia assiale computerizzata (TAC) sono capaci di acquisizione volumetrica in tempi ridottissimi e di costruire virtualmente spazi e aree a livello delle quali effettuare una biopsia per un accertamento istologico (chirurgia virtuale ed endoscopica virtuale), raggiungendo sedi fino a pochi anni fa inaccessibili. La produzione da parte del tumore di sostanze specifiche (marker) consente oggi di identificare nel sangue circolante, mediante tecniche di laboratorio sofisticate, la presenza del tumore. L'antigene prostatico specifico (PSA, Prostatic specific antigen) è un enzima che sembra ben correlato con la presenza di un carcinoma prostatico, anche se la possibile origine non-prostatica ne può diminuire la specificità. L'antigene carcinoembriogenetico (CEA, Carcinoembryonic antigen) è un altro marker utile, anche se non patognomonico, per verificare il rischio di sviluppare tumori gastrointestinali e tumori correlati. Gli avanzamenti tecnologici non devono però distrarre da ciò che resta fondamentale in medicina: la visita clinica. Una buona anamnesi raccolta dal medico di famiglia è già in grado di dare importanti indicazioni su cosa è cambiato nelle abitudini del paziente e stabilire se esistono dei fattori di rischio come la familiarità, l'alimentazione o l'ambiente di lavoro; un buon esame obiettivo può evidenziare tumori che nessun esame strumentale è capace di diagnosticare: è il caso, per es., del melanoma cutaneo. La diagnosi precoce rimane dunque il cardine nella cura di un tumore, in quanto consente di impostare un tipo di trattamento che nella maggior parte dei casi è risolutivo. La chirurgia in questa fase di sviluppo è in grado di eradicare completamente la malattia riuscendo al tempo stesso a preservare l'organo affetto da una demolizione che fino a pochi anni fa veniva ritenuta indispensabile per la guarigione dal cancro. In questo senso notevoli successi sono stati ottenuti unendo le forze terapeutiche: non la chirurgia da sola, ma la sua associazione con la radioterapia e, se necessario, con la chemioterapia. La multidisciplinarità nel trattamento dei tumori ha consentito, con la diversa combinazione e successione degli schemi terapeutici, di ottenere risultati migliori per quanto riguarda la sopravvivenza globale e la qualità di vita dei pazienti. È il caso, per es., della conservazione del seno nei tumori mammari, o di un arto nei tumori ossei, oppure della più elevata percentuale di guarigione nel tumore renale di Wilms, che colpisce i bambini e può essere operato con maggiore sicurezza dopo aver effettuato dei cicli di chemio- o radioterapia. Se si è riusciti a essere meno demolitivi in alcuni tumori, favorendo in molti casi la conservazione dell'organo, si sono messe a punto, dall'altra parte, tecniche chirurgiche di altissima sofisticazione come quella dei trapianti d'organo: un tumore primitivo del fegato, in situazioni selezionate, può essere guarito con l'espianto e il reimpianto dell'organo. Buoni successi sono stati ottenuti anche in oncologia medica con la scoperta di nuove molecole che a un'uguale efficacia uniscono una minore tossicità, e con l'ideazione di nuovi schemi polichemioterapici. Neoplasie infantili come le leucemie ormai guariscono nella maggioranza dei casi. Anche nel campo della radioterapia si sono fatti passi notevoli, non solo in quella tradizionale, con l'innovazione costituita dall'acceleratore lineare, utilizzato al posto della cobaltoterapia, ma anche con l'uso di nuove particelle più durature e selettive, come quelle a cattura di boro. Non si può non accennare infine al progetto tutto italiano di realizzare un centro di adroterapia, un tipo di radioterapia che sfrutta particelle pesanti, i cosiddetti quark (neutroni, protoni e ioni di ossigeno) che per selezionati tipi di tumore potrà assicurare di colpire il bersaglio con precisione millimetrica, con il vantaggio di distruggere le cellule tumorali senza danneggiare i tessuti contigui. Si può concludere brevemente che, come graficamente schematizzato nella fig. 1, la prognosi dei tumori maligni è radicalmente cambiata durante gli ultimi quarant'anni grazie all'impegno di tutti: scienziati, medici di base, popolazione.
I tumori, diversamente dagli altri processi morbosi, mal si prestano a una definizione che, unendo concisione e significatività, ne indichi le specifiche caratteristiche, perché queste possono esprimersi in maniera assai differente nei singoli tipi di tumore. I tumori insorgono con maggiore frequenza negli animali e nella specie umana in età avanzata; la maggior parte di essi sono rappresentati da tumori benigni, per es. le verruche. I tumori con caratteri di malignità (cancro) hanno la capacità di diffondersi in tutto l'organismo mediante metastatizzazione. Fattori non ancora definiti fanno sì che le cellule normali e quelle del tumore benigno si mantengano localizzate nell'ambito dei propri tessuti di appartenenza. Di solito, una capsula fibrosa delimita l'estensione dei tumori benigni, che si possono pertanto asportare chirurgicamente. I tumori benigni costituiscono un problema clinicamente rilevante solo quando si accrescono in modo tale da interferire con la normale funzione dell'organo interessato, oppure quando secernono un'eccessiva quantità di sostanze biologicamente attive, per es. ormoni. Le principali caratteristiche che differenziano i tumori maligni da quelli benigni sono l'invasività e la diffusione. I tumori maligni invadono infatti i tessuti circostanti e le cellule tumorali entrano nel sistema circolatorio, proliferando lontano dal sito originario di insorgenza e determinando il fenomeno della formazione di aree secondarie di crescita: le metastasi. Le cellule maligne sono meno differenziate rispetto alle altre e le loro proprietà variano con il passare del tempo. La variabilità del fenotipo è spesso correlata con la variabilità del genotipo: i cromosomi delle cellule cancerose presentano anomalie di numero e di struttura (v. oltre). Le differenze morfologiche fra cellule normali e tumorali sono osservabili al microscopio: nell'ambito del tessuto specifico le cellule cancerose presentano una crescita rapida, un elevato rapporto tra nucleo e citoplasma, nucleoli evidenti, numerose mitosi e strutture relativamente poco specializzate. La presenza di cellule invasive nell'ambito di una sezione di tessuto normale rappresenta un'indicazione diagnostica di malignità. Le cellule maligne, tuttavia, mantengono un numero sufficiente di caratteristiche del tessuto dal quale derivano e pertanto vengono classificate sulla base delle relazioni che le legano al corrispondente tessuto di appartenenza. Le cellule normali derivano dai tre foglietti embrionali: entoderma, mesoderma, ectoderma. I tumori maligni vengono classificati come carcinomi se derivano dall'entoderma o dall'ectoderma e come sarcomi se derivano dal mesoderma. Le leucemie (v.) sono tumori sistemici del sangue e si distinguono dalla maggior parte degli altri tumori, che sono in forma di massa solida. Il confinamento di una cellula normale in un dato organo o tessuto viene mantenuto sia da barriere fisiche sia dalle interazioni complesse e non ancora completamente definite che si stabiliscono fra le cellule. La più importante barriera fisica che mantiene separati i tessuti è costituita dalla lamina basale, che si trova sotto gli strati delle cellule epiteliali e delle cellule endoteliali dei vasi sanguigni. Le cellule metastatiche si aprono un varco attraverso la lamina basale, distruggendo la sostanza di cui essa è composta. Le cellule tumorali sviluppano infatti nuove proprietà, cioè producono nuove proteine che permettono loro di iniziare il processo di crescita; per es., gli enzimi secreti da alcune cellule maligne sono in grado di degradare il collagene e le altre proteine della lamina basale, quali i proteoglicani e i glicosaminoglicani. Un'altra proprietà delle cellule maligne è quella di eludere la sorveglianza del sistema immunitario (v. oltre). La caratteristica fondamentale delle cellule tumorali consiste nell'essere prive dei processi di controllo della crescita, uno degli aspetti più importanti della fisiologia animale. I 30.000 miliardi di cellule di un organismo sano vivono in una comunità complessa e interdipendente, all'interno della quale controllano vicendevolmente la loro tendenza alla proliferazione. Le cellule normali si riproducono quando ricevono determinati segnali molecolari da altre cellule poste nelle vicinanze. Questa collaborazione fa sì che in ogni tessuto si mantenga uno stato di equilibrio, in modo tale che la sua struttura e le sue dimensioni siano appropriate ai bisogni dell'organismo. Le cellule tumorali derivano tutte da una cellula ancestrale comune (origine monoclonale del tumore) che, anche molti anni prima che il cancro diventi riconoscibile, ha avviato un programma di riproduzione incontrollata. Per descrivere la cinetica della crescita tumorale, alterata rispetto a quella del tessuto normale, si usa il modello proposto dall'equazione di Gomperz: si osserva una prima fase di crescita cellulare elevata, cui segue una graduale riduzione, associata all'aumento di cellule non proliferanti rispetto a quelle proliferanti. La percentuale di cellule in mitosi è infatti un indice importante, che può essere di grande significato clinico in fase sia di diagnosi sia di elaborazione prognostica. Il tumore maligno acquisisce, nella sua progressione, una variabilità qualitativa, con una situazione molto instabile dei meccanismi di controllo. Questi aspetti rendono ragione della sensibilità di alcune neoplasie all'azione ormonale e dei meccanismi di tipo selettivo che determinano, nel corso di una terapia, l'insorgere dei fenomeni di resistenza ai farmaci e alle radiazioni. Alcune ricerche, iniziate negli anni Settanta del 20° secolo, hanno permesso di capire che la trasformazione maligna di una cellula è promossa dall'accumulo di mutazioni in classi specifiche di geni adibiti al controllo della crescita (v. oltre). Lo studio delle caratteristiche delle cellule tumorali negli organismi viventi presenta varie difficoltà, in parte superate se si utilizzano cellule in coltura. I vantaggi delle colture in vitro sono molteplici: l'ambiente in cui crescono le cellule può essere modificato; il tipo di cellule bersaglio può essere definito; i cambiamenti della cellula dopo il trattamento e il destino metabolico delle sostanze cancerogene usate possono essere analizzati. Le cellule in coltura presentano parametri di crescita ben definiti, sia che si trovino in crescita attiva (fase log) sia che siano quiescenti (fase di plateau), e possono inoltre essere manipolate geneticamente. Il trattamento di cellule in coltura con vari tipi di agenti cancerogeni, quali virus, sostanze chimiche, radiazioni, modifica le loro proprietà di crescita. I cambiamenti riscontrati sono, per es., la diminuita richiesta di fattori di crescita nel terreno di coltura, la perdita della capacità di arrestare la crescita e dell'inibizione da contatto, la modificazione della quantità e del tipo di proteine sulla superficie cellulare, l'aumento del trasporto del glucosio, la capacità di dare origine a tumore se iniettate in ceppi di topi (chiamati topi nude) privi di risposta immunologica. Tutti questi cambiamenti sono collettivamente denominati trasformazione neoplastica, o semplicemente trasformazione.
Sin dal 19° secolo la genesi dei tumori è stata oggetto di accese polemiche e di molteplici ricerche, ma per un congruo periodo di tempo queste ultime hanno proceduto in maniera disorganica, perché la mancanza di adeguati strumenti di analisi le obbligava a muoversi prevalentemente sul piano morfologico e su quello clinico: l'oscurità che ancora circondava i normali meccanismi di controllo della crescita delle cellule impediva di aggredire il nodo centrale del problema. Il campo dell'oncogenesi è stato per lunghi anni dominato da ipotesi che nella loro genericità avevano, quale più quale meno, caratteristiche di verosimiglianza; di queste, alcune davano importanza a fattori locali come la rottura dell'equilibrio fra stroma connettivale e tessuto specifico (K. Thiersc), l'irritazione locale (R. Virchow), l'attività proliferativa di ipotetici residui embrionali (J.F. Cohnheim, F. Durante, H. Ribbert) o di frammenti di tessuti normali spostati dalla sede abituale; altre privilegiavano fattori generali, costituzionali o umorali. Nel corso degli anni Quaranta del 20° secolo, con lo sviluppo delle conoscenze biochimiche sul metabolismo delle cellule, specifiche ricerche, volte a individuare sia i meccanismi che innescano lo sviluppo tumorale sia le differenze fra il metabolismo delle cellule normali e quello delle cellule cancerose, furono condotte principalmente da O. Warburg, il quale osservò che le cellule tumorali producono un'elevata quantità di acido lattico, anche in condizioni di aerobiosi, e spesso consumano meno ossigeno (ridotta respirazione mitocondriale) rispetto alle cellule normali. Sulla base di queste osservazioni, Warburg ipotizzò che la ridotta respirazione e l'accelerata glicolisi fossero non solo caratteristiche delle cellule tumorali, ma anche le cause vere e proprie della degenerazione cancerosa. Questa conclusione venne peraltro smentita da ricerche successive che dimostrarono l'esistenza sia di tumori con glicolisi normale, sia di cellule non tumorali con elevata glicolisi (per es., nei tessuti embrionali e in quelli in rapido accrescimento). In generale, da un punto di vista qualitativo, non sono state osservate differenze tra tumore e tessuti normali per ciò che riguarda i principali cicli metabolici, tanto da poter affermare che non esiste un effettivo difetto metabolico delle cellule tumorali. Ciò nonostante, esistono differenze tra alcune proteine, enzimatiche e non, dei tessuti tumorali rispetto a quelli normali. Questo fenomeno fa parte della cosiddetta espressione delle proteine oncofetali delle cellule neoplastiche (v. oltre). In alcuni tipi di neoplasie può esistere anche il cosiddetto fenomeno della delezione di enzimi, cioè la mancanza di enzimi specifici nel corredo enzimatico della cellula tumorale. Per es. sono stati osservati tumori in cui una delezione enzimatica impedisce la biosintesi dell'aminoacido essenziale asparagina, cosicché queste cellule neoplastiche utilizzano l'asparagina ematica per il loro fabbisogno. Non è però possibile definire con certezza caratteristiche biochimiche esclusive dei tumori. Anche quando le ricerche degli inizi del 20° secolo avevano portato a risultati di notevole importanza, la carenza di strumenti culturali adatti ha impedito un ulteriore approfondimento, come è successo, per es., per la dimostrazione dell'origine virale di un tumore spontaneo del pollo (sarcoma di Rous) che, fornita da F.P. Rous nel 1911, valse al suo autore il premio Nobel (1966) solo dopo più di mezzo secolo, essendo occorsi vari decenni perché se ne cogliesse appieno il significato. La scoperta di Rous e quella, di pochi anni successiva (1915), dei due ricercatori giapponesi K. Yamagiwa e K. Itchikawa che, con applicazioni ripetute di catrame sull'orecchio di coniglio, ottennero un tipo di cancro cutaneo frequentemente osservato in clinica nei lavoratori a contatto con tale sostanza, segnano l'inizio di una fase proficua della sperimentazione oncologica. In seguito, i progressi concettuali e strumentali della biologia e della patologia sperimentale, genetica, immunologia e virologia comprese, della chimica, della biochimica, della fisico-chimica hanno fornito i mezzi per individuare i processi di cancerogenesi e i fattori di varia natura (fisici, chimici, infettivi, quali i virus, genetici e ormonali) che hanno la capacità di indurre tumori o comunque di concorrere significativamente al loro sviluppo. L'interesse per la cancerogenicità degli agenti chimici è stato destato dalle osservazioni, alcune di epoca assai remota, della particolare frequenza di malattie tumorali in soggetti esposti al ripetuto contatto con determinate sostanze, come per es. catrame, anilina, arsenico, berillio ecc., e da analoghe osservazioni d'ordine epidemiologico. Lo studio sperimentale dei tumori da catrame ha ricevuto un notevole impulso dal ricordato successo dei giapponesi Yamagiwa e Itchicawa ed è stato affrontato con sistematicità dall'inglese E.L. Kennaway, il quale dapprima, nel 1924, localizzò il potere oncogeno del catrame nella frazione (olio di antracene) che distilla a 300 °C, e successivamente, con i suoi collaboratori, precisò che esso doveva essere attribuito ad alcuni idrocarburi policiclici aromatici isolati da questa frazione e dagli stessi composti o da altri, ottenuti per sintesi. Inizialmente, moltissimi agenti chimici sono stati associati al cancro, sulla base di studi sperimentali su animali, effettuati mediante l'applicazione ripetuta della sostanza da saggiare e l'osservazione dell'eventuale insorgenza del tumore, sia locale sia sistemico. Dallo sviluppo di questi studi è stata individuata una lunga serie di sostanze cancerogene (quali lo 1:2:5:6-dibenzantracene, il 3:4-benzopirene, il 20-metilcolantrene, il 9:10-dimetil-l:2-benzantracene). Questi prodotti hanno azione locale, topica: sulla cute provocano epiteliomi, per via sottocutanea o intramuscolare sarcomi, se introdotti nel midollo osseo del ratto causano leucemia, per immissione nella teca cranica danno meningiomi, medulloblastomi o gliomi, per somministrazione endovenosa in emulsione o per trattamento endotracheale procurano tumori polmonari. Tra i derivati dell'anilina, presi in considerazione per la particolare frequenza dei tumori vescicali nei soggetti addetti a lavorazioni con suoi prodotti, la 2-naftilamina si è rivelata capace di indurre tumori vescicali analoghi a quelli osservati sull'uomo; per la sua struttura intermedia tra gli idrocarburi cancerogeni e i derivati dell'anilina, può essere considerato in questo gruppo anche il 2-acetilaminofluorene che, nato come insetticida, nel 1941 è stato riconosciuto come cancerogeno da R.H. Wilson e dai suoi collaboratori, con proprietà d'indurre tumori benigni e maligni in diversi organi e tessuti. Un altro gruppo di cancerogeni è stato individuato tra i cosiddetti coloranti azoici (per es. il 4-dimetilaminoazobenzene o giallo burro, usato come additivo alimentare). Sono cancerogene anche le sostanze alchilanti, così denominate per la proprietà di legare gruppi alchilici a determinati composti: l'iprite, l'azotoiprite e soprattutto il gruppo dei 4-dialchilaminostilbeni, che nel ratto determinano sarcomi nel luogo di iniezione, e in altre parti epiteliomi cutanei, carcinomi intestinali, fibroadenomi mammari, colangiomi, ipernefromi e adenomi polmonari. I cancerogeni chimici appartengono pertanto, da un punto di vista strutturale, a un'ampia gamma di sostanze. Per quanto riguarda la loro capacità di indurre tumori, si possono distinguere in due categorie: quelli ad azione diretta e quelli ad azione indiretta. I cancerogeni ad azione diretta sono in minor numero (per es., etilmetansolfonato, dimetilsolfato, iprite, metilnitrosurea) e sono composti elettrofili che reagiscono con i gruppi carichi negativamente di altre molecole. I cancerogeni ad azione indiretta sono più numerosi e richiedono attivazione metabolica per poter esplicare la loro azione. Mediante l'introduzione di gruppi elettrofili la sostanza originaria, denominata precancerogeno, si trasforma nel cancerogeno terminale altamente reattivo. L'attivazione metabolica degli agenti cancerogeni viene effettuata da enzimi presenti normalmente nell'organismo, che provvedono alla detossificazione delle sostanze chimiche nocive. Essi rendono solubili sostanze insolubili quali farmaci, insetticidi, composti aromatici policiclici o alcuni prodotti naturali che altrimenti si accumulerebbero nelle cellule adipose e nelle membrane danneggiandole. Per es., l'ossidazione di composti aromatici policiclici quali il benzopirene, dà luogo alla formazione di un epossido, un gruppo elettrofilo molto reattivo che normalmente viene rapidamente idrolizzato formando composti idrosolubili. In questo processo, tuttavia, alcuni epossidi intermedi vengono idrolizzati molto lentamente e rilasciati all'interno della cellula: essi sono altamente reattivi e hanno potere cancerogeno. I risultati sperimentali dimostrano che l'effetto cancerogeno si esplica mediante la reazione delle sostanze elettrofile con il DNA. A seconda della loro struttura e della loro dimensione, questi composti reagiscono in posizioni diverse e con differenti basi del DNA. I cambiamenti nella sequenza di basi determinano cambiamenti nel fenotipo della cellula colpita e di tutte le cellule da essa derivate; i cancerogeni agiscono cioè come agenti mutageni. Poiché la maggior parte dei cancerogeni saggiati sugli animali sono potenti mutageni nei batteri, i saggi preliminari di cancerogenicità di sostanze chimiche vengono effettuati mediante saggi di mutagenesi in batteri. Cambiamenti nella sequenza del DNA possono verificarsi per errori durante la sua duplicazione oppure, più spesso, per errori dei processi di riparazione che la cellula mette in atto per liberarsi del danno indotto dal cancerogeno. L'elenco più completo e aggiornato sulle sostanze chimiche associabili a tumori nell'uomo è pubblicato, a cura dell'Organizzazione mondiale della sanità, dallo IARC. Nei 60 volumi delle monografie IARC (pubblicate a partire dal 1972) sono descritte le proprietà fisico-chimiche, i metodi di analisi, l'uso e la produzione, l'epidemiologia, i risultati della sperimentazione sugli animali, la tossicità, gli effetti genetici di oltre 700 sostanze. Tutte queste osservazioni permettono di valutare il rischio cancerogeno per l'uomo in base a criteri coordinati nel 1977 e continuamente sottoposti a revisione con il progredire delle conoscenze. Le sostanze chimiche analizzate sono divise in quattro categorie: sostanze con evidenze di cancerogenicità sufficiente, limitata, inadeguata e assente. Tra i cancerogeni fisici si annoverano fattori meccanici (ferite), fattori termici (congelamenti, ustioni, applicazioni caloriche ripetute per lungo tempo), radiazioni ultraviolette e ionizzanti (raggi X e particelle atomiche; v. radiazione). Le radiazioni ultraviolette possono essere assorbite dalle basi del DNA a un'appropriata lunghezza d'onda (2800-3200 Å) e provocare, come principale tipo di danno, la formazione di dimeri fra due timine adiacenti. È stato dimostrato che il loro effetto mutageno si esplica durante i processi di riparazione e non come conseguenza primaria dell'irradiazione. Le radiazioni ionizzanti provocano rotture a carico delle catene del DNA. Entrambi i tipi di radiazione possono indurre il cancro negli animali da esperimento e possono trasformare le cellule in coltura. La capacità di provocare il cancro nell'uomo, specialmente le leucemie, è stata dimostrata dalla loro drammatica incidenza fra coloro che sono sopravvissuti alle bombe atomiche sganciate nella Seconda guerra mondiale. Al fine di comprendere alcuni aspetti dell'oncogenesi è necessario definire i termini oncogene e proto-oncogene. Un oncogene è un gene che può potenzialmente procurare trasformazione neoplastica nelle cellule che lo contengono o in quelle nelle quali viene introdotto. Il virus del sarcoma di Rous fa parte di una famiglia di virus, i Retrovirus, che sono implicati in molti tumori animali ma in pochi tumori umani. In aggiunta o in sostituzione dei propri geni normali, alcuni Retrovirus contengono un oncogene che non è necessario ai virus stessi, ma è in grado di trasformare le cellule ospiti normali in cellule cancerose. Gli oncogeni virali (v-onc) hanno una stretta omologia con geni localizzati nei cromosomi degli Eucarioti, designati con il nome c-oncogeni o proto-oncogeni. Questi ultimi, nella cellula normale, svolgono un ruolo di controllo della crescita cellulare e dello sviluppo, poiché codificano proteine che partecipano alle cosiddette vie di traduzione del segnale, attraverso le quali i segnali di crescita, o di non crescita, vengono trasferiti dall'esterno della cellula al macchinario regolativo presente al suo interno. Tali proteine vengono raggruppate in quattro classi con funzione diversa ma strettamente correlata. Alla classe I appartengono i fattori di crescita, ossia molecole che di per sé sono segnali di crescita: un esempio è rappresentato dal fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGF, Platelet derived growth factor), che permette la proliferazione dei fibroblasti. Le proteine della classe II sono i recettori dei fattori di crescita. Molti fattori di crescita si legano sulla membrana cellulare a recettori specifici che, per la maggior parte, possiedono capacità di attivare altre proteine mediante fosforilazione (attività chinasica): il legame dei fattori di crescita ai loro recettori innesca una serie di segnali che promuovono la crescita cellulare mediante la fosforilazione di residui di tirosina presenti in varie proteine bersaglio. I proto-oncogeni che codificano tali recettori diventano oncogeni quando subiscono una mutazione, per la quale codificano un recettore attivo che trasmette i segnali di fosforilazione anche in assenza del relativo fattore di crescita. Per es., l'oncogene erb-B codifica una forma di recettore per il fattore di crescita epidermico (EGF, Epidermic growth factor) privo di alcune parti essenziali, quali quella extracellulare (ossia del tratto di recettore che normalmente si lega a EGF); questo recettore 'decapitato' agisce come se fosse perennemente legato a EGF e invia continuamente segnali di crescita, determinando una proliferazione abnorme e sregolata della cellula. La classe III è rappresentata dai trasduttori del segnale intracellulare. Tali proteine sono localizzate all'interno della membrana plasmatica, dove si associano ai recettori dei fattori di crescita e trasmettono i segnali ai bersagli più a valle. Alcune sono tirosina-chinasi, per es. le proteine codificate da src (il primo proto-oncogene a essere identificato) e da abl (proto-oncogene interessato nella traslocazione che determina il cromosoma Philadelphia; v. oltre); altre sono rappresentate dalle proteine Ras codificate dai geni ras, i quali sono rimasti invariati nel corso dell'evoluzione. Essi fanno parte di una famiglia molto ampia di geni che codificano proteine le quali legano il nucleotide guanina. Le proteine Ras sono nella loro conformazione attiva solo quando sono legate a una molecola di guanosintrifosfato (GTP, Guanosine triphosphate), invece se sono legate a una molecola di guanosindifosfato (GDP, Guanosine diphosphate) sono inattive. In risposta a uno stimolo esterno, Ras sostituiscono il GDP con il GTP e questo cambiamento le fa passare a uno stadio attivato durante il quale dirigono la crescita cellulare. Esse rimangono in questo stadio per breve tempo, in quanto subito idrolizzano il GTP in GDP e ritornano allo stadio inattivo. Le mutazioni che convertono ras in un oncogene non consentono al suo prodotto, la proteina Ras, di idrolizzare il GTP e la proteina pertanto rimane nella forma attiva e trasmette segnali di crescita continui che determinano la proliferazione sregolata della cellula. È da notare che circa il 20% dei tumori umani contiene il gene ras attivato. La classe IV di proteine codificate dai proto-oncogeni è quella dei fattori di trascrizione nucleari, proteine che si legano al DNA e hanno una funzione nella trascrizione del messaggio genetico in RNA. L'espressione dei proto-oncogeni nucleari (ossia quelli i cui prodotti si trovano nel nucleo della cellula) è strettamente regolata. Per es. geni come c-fos o c-myc sono espressi a livelli bassi nelle cellule quiescenti ma vengono attivati in risposta a mitogeni. Si suppone che queste proteine, dette terzi messaggeri, convertano i segnali a breve termine, che compaiono dopo pochi minuti dallo stimolo primario, in risposte cellulari a lungo termine che permangono per ore o giorni. Dato che la regolazione dei proto-oncogeni nucleari è intrinseca alla loro funzione, se si trasformano in oncogeni, la loro espressione diventa non regolata. In conclusione, anche se non si conoscono tutte le proteine che sono coinvolte nella serie di processi all'origine della proliferazione cellulare, si può affermare che le proteine codificate dai proto-oncogeni sono distribuite lungo le vie di trasporto dei segnali, per mezzo dei quali le cellule ricevono ed eseguono istruzioni per la loro crescita. Le mutazioni che attivano gli oncogeni e sregolano la crescita possono essere mutazioni strutturali, che stabilizzano l'attività della proteina anche senza un segnale in arrivo (per es. le chinasi e la proteina Ras), oppure mutazioni regolative, che determinano la produzione della proteina nel luogo o nel momento sbagliato (per es. i prodotti di oncogeni nucleari). Quale che sia il livello di alterazione di queste proteine, si induce comunque nella cellula un segnale interno di crescita, che persiste anche in assenza dello stimolo esterno e provoca la formazione di tumori. Gli eventi che portano le cellule normali alla trasformazione neoplastica esercitano i loro effetti su due classi di geni, i proto-oncogeni e i geni oncosoppressori o antioncogeni. Entrambi i tipi di geni svolgono funzioni cellulari correlate con la regolazione della divisione e del differenziamento cellulare: i proto-oncogeni, come si è detto sopra, favoriscono la crescita cellulare, mentre gli antioncogeni la inibiscono. Uno degli eventi critici che portano alla trasformazione neoplastica è la mutazione spontanea o indotta dagli agenti ambientali chimici o fisici. Le mutazioni possono far sì che il proto-oncogene produca una quantità eccessiva di proteina stimolatrice della crescita da esso specificata oppure una sua forma eccessivamente attiva: le mutazioni che trasformano i proto-oncogeni in oncogeni si comportano pertanto come dominanti, in quanto è sufficiente la mutazione di uno solo dei due alleli del gene per realizzare il cambiamento della funzione della proteina codificata. I geni oncosoppressori invece favoriscono l'insorgenza del tumore quando sono inattivati da mutazioni (v. oltre). Indizi fondamentali su come i proto-oncogeni che hanno subito una mutazione contribuiscano alla genesi del cancro sono emersi attraverso lo studio del ruolo svolto nella cellula dalle controparti normali di questi geni. Molti proto-oncogeni codificano proteine facenti parte di una catena molecolare di eventi che trasmettono segnali di stimolazione dall'esterno della cellula al suo interno. Le vie di stimolazione intracellulari ricevono ed elaborano i segnali trasmessi da altre cellule e tessuti: alcune cellule secernono fattori di crescita che si legano a recettori specifici sulla superficie delle cellule vicine. Quando un fattore di stimolazione della crescita si fissa a un recettore, esso segnala alle proteine del citoplasma di dare inizio al processo di proliferazione; le proteine del citoplasma inviano a loro volta una serie di segnali stimolatori ad altre proteine. La sequenza degli eventi termina nel nucleo, dove fattori di trascrizione attivano una serie di geni che contribuiscono a far percorrere alla cellula il suo ciclo di divisione. La proliferazione di una cellula cessa di essere sottoposta a vincoli quando una mutazione di uno dei proto-oncogeni attiva una particolare via di stimolazione della crescita, mantenendola funzionante anche quando non dovrebbe. Per es., alcuni oncogeni inducono una sovrapproduzione di fattori di crescita: i sarcomi e i gliomi (tumori del tessuto connettivo e delle cellule cerebrali non neuronali) liberano quantità eccessive di fattore di crescita derivato dalle piastrine. Questi fattori agiscono sia sulle cellule limitrofe sia su quelle stesse che li hanno prodotti. Sono state identificate versioni oncogene anche dei geni per i recettori dei fattori di crescita: per es., i recettori Erb-B₂ delle cellule del cancro della mammella trasmettono flussi di informazioni anche quando non sono stimolati dai fattori di crescita. Altri oncogeni modificano i segnali a livello del citoplasma; di questi i più studiati sono quelli della famiglia degli oncogeni ras. Le proteine codificate da ras normali ricevono segnali dai recettori dei fattori di crescita e li trasmettono ad altri fattori disposti più a valle della catena. Le proteine codificate da ras mutati trasmettono continuamente il segnale anche se non stimolate e si trovano in numerosi tumori umani, fra cui i carcinomi del colon, del pancreas e del polmone. Altri oncogeni, come quelli della famiglia myc, sono coinvolti invece, all'interno del nucleo, nella regolazione della trascrizione. Gli eventi molecolari che portano all'attivazione degli oncogeni sono, oltre alla mutazione puntiforme, l'amplificazione genica, l'infezione virale e il riarrangiamento cromosomico. La mutazione causa il cambiamento di un aminoacido nella proteina codificata e questo evento può impedire l'interazione tra le varie proteine responsabili della regolazione del ciclo cellulare. L'attivazione di un oncogene attraverso l'amplificazione genica porta all'aumento di attività di un gene strutturalmente normale. In questo caso il proto-oncogene è presente in un gran numero di copie ripetute che si evidenziano sui cromosomi come regioni che si colorano in modo omogeneo (HSR, Homogeneous staining region) o come piccoli frammenti extracromosomici (in inglese denominati double minutes). L'attivazione di un oncogene in seguito a infezione virale avviene quando, per processi di ricombinazione, promotori virali trascrivono in grande numero di copie i geni cellulari. Infine diversi tipi di riarrangiamenti cromosomici (mutazioni cromosomiche) sono responsabili dell'attivazione di un oncogene: il cromosoma Philadelphia (Ph1) deriva da una traslocazione tra cromosomi 9 e 22 ed è il marcatore cromosomico della leucemia mieloide cronica; nel linfoma di Burkitt traslocazioni cromosomiche causano l'attivazione di un oncogene in un tessuto non idoneo. In questo caso la traslocazione del proto-oncogene c-myc, originariamente localizzato sul cromosoma 8, in una delle tre regioni geniche codificanti le immunoglobuline localizzate sui cromosomi 2, 4 o 22, causa l'attiva trascrizione di c-myc nei linfociti B e contribuisce alla trasformazione oncogena di queste cellule. Altri riarrangiamenti cromosomici sono peculiari di vari tipi di tumore e costituiscono i marcatori citogenetici utili per indirizzare la diagnosi clinica. Inoltre, la comparsa nel tempo di ulteriori anomalie cromosomiche caratterizza spesso gli stadi più avanzati e più invasivi dello sviluppo del tumore e contribuisce presumibilmente alla sovraespressione dei proto-oncogeni. Nella leucemia mieloide cronica, allo stadio di crisi blastica si possono rilevare anomalie cromosomiche addizionali, come la presenza di una seconda copia del cromosoma Ph1 o di anomalie del cromosoma 17. Affinché le cellule diventino neoplastiche non basta che sovrastimolino i loro meccanismi di induzione della crescita, ma devono anche fare in modo di eludere o ignorare i segnali di inibizione della crescita emessi dalle cellule normali vicine. I messaggi inibitori ricevuti da una cellula normale fluiscono verso il nucleo attraverso catene molecolari simili a quelle precedentemente descritte. Nelle cellule tumorali queste catene di inibizione sono alterate e le cellule ignorano i segnali inibitori che giungono sulla loro superficie. Alcune componenti fondamentali di queste catene di inibizione sono codificate dagli antioncogeni. Dal momento che gli antioncogeni codificano proteine coinvolte nell'inibizione della divisione cellulare, le mutazioni a carico di questi geni si comportano come recessive, in quanto la trasformazione oncogena si verifica solo quando viene persa la funzione di entrambi gli alleli del gene. L'ipotesi che alcune forme di tumore potessero avere origine quando una cellula somatica di un individuo, già portatore di una mutazione recessiva (eterozigote), subiva una seconda mutazione è stata avanzata, nel 1960, da M. De Mars e ulteriormente sviluppata, nel 1971, da A.G. Knudson. Quest'ultimo ha osservato che alcuni tipi di tumore (per es. il retinoblastoma), che si manifestano nella popolazione in forma sia sporadica sia ereditaria, possono essere spiegati ammettendo che, nei casi ereditari, la prima mutazione sia presente nelle cellule germinali, mentre in quelli sporadici entrambe le mutazioni siano somatiche. Circa il 40% dei casi di retinoblastoma è ereditario: il bambino affetto eredita un allele mutato del gene da uno dei genitori ed è pertanto sufficiente un'altra mutazione in una singola cellula della sua retina per causare la perdita della funzione del secondo allele e provocare l'inizio dello sviluppo del tumore. Nei casi ereditari entrambi gli occhi sono di solito affetti, poiché le cellule della retina sono dell'ordine di alcuni milioni e quindi la probabilità che la mutazione somatica avvenga in più di un retinoblasto è alta. Il rimanente 60% degli episodi di retinoblastoma è sporadico: il tumore è più raro e colpisce un occhio soltanto, dato che entrambi gli alleli del gene RB1 devono essere inattivati da mutazioni. Il gene è stato mappato sul braccio lungo del cromosoma 13 grazie all'osservazione di un certo numero di casi nei quali era presente una delezione o una traslocazione di questa regione cromosomica. L'inattivazione di entrambi gli alleli di geni oncosoppressori è alla base di varie forme di tumore di tipo sia familiare sia sporadico (v. tab. 2). Negli anni Novanta del 20° secolo, la ricerca ha portato a numerosi risultati sia nell'identificazione di nuovi antioncogeni sia nella comprensione del loro meccanismo d'azione. B. Vogelstein ha identificato, nel 1993, sia l'antioncogene p53, le cui mutazioni sono presenti nel 50% dei casi di tumore, sia quello associato al cancro del colon ereditario. I fenomeni descritti finora dimostrano che, per lo sviluppo di un tumore maligno, non risulta sufficiente la mutazione di un singolo gene, ma è richiesta la cooperazione di più geni con effetti complementari. Molti problemi non sono ancora risolti; tuttavia è certo che la cancerogenesi è un processo caratterizzato da vari passaggi che danno come risultato finale un tumore maligno invasivo e metastatizzante. Anche se la scoperta degli oncogeni è stata una tappa fondamentale nella ricerca sul cancro, non si sa quanti dei tumori umani siano causati dagli oncogeni o quanti passaggi della cancerogenesi dipendano dall'attività di essi. Più oncogeni sono probabilmente necessari per dare origine a una cellula maligna, ma la loro attività può essere accoppiata ad altri meccanismi anche non genetici (processi epigenetici, azione di agenti chimici e fisici). Si deve inoltre precisare che, in una cellula, l'acquisizione dei caratteri tumorali non è seguita obbligatoriamente dall'immediato sviluppo dell'attività proliferativa, perché il primo evento che determina l'induzione delle caratteristiche neoplastiche (iniziazione) e la moltiplicazione cellulare (promozione) costituiscono fasi diverse, condizionate da fattori di varia natura; alcuni agenti possono avere effetto iniziante, altri promovente.
È inoltre importante per la comprensione dei processi di cancerogenesi l'osservazione che i tumori nell'uomo hanno un'origine monoclonale, cioè derivano da una sola cellula. In conclusione, le prove più significative che concorrono a dimostrare che la cancerogenesi è un processo a più stadi sono: 1) l'evidenza epidemiologica che il cancro insorge prevalentemente in età tardiva e che il meccanismo della sua comparsa segue una cinetica complessa; 2) il fenomeno di iniziazione-promozione; 3) l'effetto sinergico di oncogeni (per es., myc e ras); 4) l'origine monoclonale dei tumori; 5) l'eredità di un singolo gene, che predispone all'insorgenza di tumori solo quando si verificano cambiamenti a carico di altri geni. Numerosi virus sono causa di tumori che compaiono naturalmente nella patologia di varie specie animali o sono in grado di produrre tumori se inoculati in animali da esperimento. Nonostante i molti ostacoli che si incontrano nel riconoscimento di correlazioni tra tumori e agenti eziologici, è stato stimato che almeno nel 15-20% della patologia neoplastica globale dell'uomo sono coinvolti i virus. I virus che inducono tumori in vivo e che provocano la proliferazione cellulare in vitro (trasformazione) sono numerosi e assai vari, sia strutturalmente sia sotto il profilo della complessità genetica (tab. 3). Si conoscono virus la cui azione patogena prevalente è di tipo oncogeno (Papova) e che tuttavia possono indurre danni patologici di altra natura. Altri, come per es. gli Herpesvirus e gli Adenovirus, che normalmente causano patologie non neoplastiche, possono in alcuni casi portare a trasformazione e tumori. L'azione oncogena sembra essere una prerogativa dei virus a DNA. I Desossivirus oncogeni rappresentano infatti un gruppo eterogeneo, composto di virus appartenenti a famiglie diverse (Poxvirus, Herpesvirus, Papova, Adenovirus, Hepadnavirus). Essi inducono tumori benigni e maligni nei Vertebrati e alcuni sono anche implicati, in cooperazione con altri agenti, nell'oncogenesi umana. Numerosi virus a DNA possono provocare trasformazione cellulare in vitro, per es. il polioma, l'SV₄₀, alcuni virus che causano tumori benigni (papillomi o polipi della pelle), alcuni Adenovirus, il virus Epstein-Barr della famiglia degli Herpesvirus. È stato dimostrato che alcuni virus a DNA producono trasformazione neoplastica perché il loro DNA si integra in prossimità di un proto-oncogene, alterandone la funzione. Tra i virus a RNA sono state riconosciute proprietà oncogene ai Retrovirus, che si replicano attraverso un intermediario replicativo di DNA. I Retrovirus oncogeni causano sarcomi, leucemie acute e croniche negli Uccelli, nel gatto, nel bue e nella scimmia e sono responsabili nell'uomo di alcune leucemie linfoidi a cellule T dell'adulto. I Retrovirus possono trasformare le cellule e provocare tumori attraverso diverse modalità. Si distinguono infatti due tipi di Retrovirus oncogeni: quelli trasducenti e quelli ad azione lenta. I Retrovirus oncogeni trasducenti inducono la trasformazione cellulare e determinano l'insorgenza di tumori in quanto contengono oncogeni derivati da proto-oncogeni cellulari oltre alle informazioni genetiche codificate dai geni gag, pol ed env che rendono possibile la loro propagazione. Il secondo tipo di Retrovirus oncogeni, i Retrovirus ad azione lenta, provocano l'insorgenza del cancro in un periodo che va da alcuni mesi ad alcuni anni, contrariamente ai Retrovirus trasducenti, nei confronti dei quali le cellule rispondono nel giro di alcuni giorni o settimane. Essi non possiedono un oncogene e sono pertanto in grado di moltiplicarsi efficacemente, poiché il loro genoma non ha subito alcun rimaneggiamento. Per spiegare il meccanismo di azione di un virus di questo tipo, ci riferiamo, per es., al virus della leucemia aviaria. Come tutti i virus, esso generalmente si integra a caso nei cromosomi della cellula ospite; tuttavia talvolta si integra vicino all'oncogene c-myc. I virus hanno un'azione lenta in quanto l'integrazione vicino a c-myc è un evento raro, a cui probabilmente devono seguire eventi secondari prima che si possa osservare l'insorgenza di un tumore. In certi casi la sequenza di terminazione del Retrovirus funge da promotore, dando origine alla sintesi di elevate quantità di RNA trascritti da c-myc. L'effetto cancerogeno deriva, in questo caso, dalla quantità eccessiva del prodotto di un gene che risulta strutturalmente normale. Questo meccanismo, definito inserzione del promotore, è la causa di molti tumori indotti dai virus della leucemia aviaria. In altri casi il DNA provirale esercita un'attività intensificatrice indiretta che sembra attivare c-myc aumentandone i livelli di trascrizione, cambiando il tipo di cellula in cui si esprime e/o alterandone il momento dell'espressione durante il ciclo cellulare. Questo meccanismo è definito inserzione dell'intensificatore. I Retrovirus ad azione lenta comprendono il virus murino del tumore mammario e un certo numero di virus della leucemia murina e sono comunque, presumibilmente, la causa principale dei tumori indotti da Retrovirus. La maggior parte dei virus trasducenti, invece, si sono formati in laboratorio o negli animali domestici e sono stati mantenuti per scopi sperimentali. Alcuni dei virus che inducono tumori benigni e maligni nei Vertebrati sono implicati in cooperazione con altri agenti nella oncogenesi umana. Vi sono infatti scarse indicazioni di un coinvolgimento virale nei principali tipi di tumori umani prevalenti nei paesi sviluppati; rimane tuttavia aperto l'interrogativo se i virus possano giocare nell'insorgenza del cancro umano un ruolo più ampio di quello finora sospettato. È pertanto utile descrivere brevemente i virus conosciuti coinvolti nell'insorgenza di tumori umani. Nel 1980, dopo molti anni di ricerche volte all'identificazione di un Retrovirus umano oncogeno, furono scoperti gli HTLV (Human T-cell leukemia virus): l'HTLV-I isolato nella leucemia umana a cellule T e l'HTLV-II nella leucemia umana a cellule capellute. La leucemia umana a cellule T è diffusa in Giappone e nei Caribi e in parte dell'Africa. La base del potere cancerogeno del virus sembra dovuta a una speciale regione del genoma virale con struttura simile agli oncogeni dei virus tumorali a DNA. Il virus di Epstein-Barr, virus a DNA, appartenente alla famiglia degli Herpesviridae, interviene in due tipi di tumori umani: il linfoma di Burkitt, il principale tipo di tumore dell'infanzia in Uganda e in altre zone dell'Africa centrale, e il carcinoma nasofaringeo, una delle principali forme di tumore nella Cina meridionale. Negli Stati Uniti come in altri paesi sviluppati il virus provoca la mononucleosi infettiva nei giovani e molto raramente tumori, solo in soggetti con sistema immunitario alterato. La capacità di indurre tumori in Africa potrebbe essere legata alla presenza di un secondo fattore endemico, la malaria, che avrebbe con il virus un rapporto di tipo cooperativo. Il virus dell'epatite B (un virus a DNA della famiglia degli Hepadnaviridae) è responsabile principalmente dell'epatite da siero umana ed è correlato con insorgenza di tumore al fegato. Si moltiplica nella cellula in un modo simile a quello dei Retrovirus, cioè attraverso una forma intermedia a RNA. La sua azione cancerogena è presumibilmente dovuta all'attivazione di un proto-oncogene cellulare. I Papillomavirus sono responsabili non solo delle verruche ma anche dell'insorgenza di tumori maligni. Almeno due dei trenta Papillomavirus umani conosciuti sono associati al carcinoma della cervice della donna. Una trattazione sul rapporto fra virus e tumori nell'uomo riguarda anche necessariamente la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), una malattia il cui agente eziologico è un Retrovirus. L'infezione provoca negli individui affetti una spiccata suscettibilità all'insorgenza di numerosi tipi di tumore, fra i quali il sarcoma di Kaposi e alcuni linfomi.
Gli studi concernenti i fenomeni immunitari che prendono origine dall'interazione tra il tumore e l'organismo ospite tendono essenzialmente a chiarire se il sistema immunitario contrasti, ed eventualmente con quali meccanismi e in quale misura, lo sviluppo e la diffusione del tumore. Il problema, che in via di ipotesi era stato adombrato da P. Ehrlich proprio ai primordi degli studi sull'immunità, ha conosciuto sostanziali progressi grazie alle migliorate possibilità per lo studio in vivo e in vitro dei fenomeni immunitari; una tappa fondamentale è stata l'individuazione, nelle membrane citoplasmatiche delle cellule di alcuni tumori sperimentali, di macromolecole estranee all'organismo e come tali dotate di potere antigenico; studi ulteriori hanno permesso di definire varie altre categorie di antigeni tumorali e d'intravedere i meccanismi cellulari (linfociti timodipendenti, macrofagi) e umorali della reazione immunitaria. Si tratta però di risultati parziali, soggetti a revisione critica, non inquadrabili in una concezione generale e non idonei a spiegare come mai le difese immunitarie non riescano a contrastare con manifesta efficacia lo sviluppo del tumore: se, per es., l'insufficienza della difesa sia dovuta alla capacità che avrebbe il tumore di variare la propria sensibilità all'attacco immunologico in via permanente, per effetto di una selezione di cellule resistenti, o temporaneamente per una sorta di modulazione della resistenza, oppure se sia in causa un fenomeno di mascheramento degli antigeni, oppure intervenga un'azione depressiva sulla reattività, operata dallo stesso tumore o da fattori a esso estranei. L'immunità verso i tumori si basa sull'esistenza di una risposta immunitaria anticorpale nei confronti di alcuni antigeni presenti sulla superficie di cellule neoplastiche. Si tratta degli antigeni tumore-associati (TAA, Tumor-associated antigen). I TAA consentono di differenziare le cellule normali dalle cellule neoplastiche. L'esistenza di TAA è stata confermata mediante una risposta immunitaria (induzione) verso un tumore trapiantabile. Un particolare rilievo assumono gli antigeni tumore-specifici, che sono stati identificati nel corso di esperimenti di trapianto tumorale e che dimostrano come la risposta immunitaria sia orientata verso molecole antigeniche proprie del tumore e non di altre cellule (TSTA, Tumor-specific transplantation antigen). Tumori provocati da un agente cancerogeno chimico possiedono diversi TSTA che possono essere riscontrati all'interno dello stesso individuo, mentre i virus oncogeni sono in grado di esprimere TSTA omogenei, cioè i tumori correlati con la presenza di un virus oncogeno hanno lo stesso TSTA anche in soggetti diversi. Un significato importante nel rapporto tra organismo ospite e tumore, nei casi di neoplasie indotte da differenti cancerogeni, hanno le caratteristiche dell'agente induttore e le dosi che vengono impiegate per dar luogo alla crescita tumorale. Infatti, ne deriva una diversa immunogenicità della molecola antigenica e si associa un tempo di latenza variabile. Si ammette, in generale, che alle cellule dotate di minor immunogenicità si associ un più lungo periodo di latenza, confermando l'ipotesi che la risposta immunitaria possa esercitare un controllo durante la crescita neoplastica stessa. La risposta immunitaria antitumorale è stata analizzata da più angolazioni e da questi studi sono derivate alcune conoscenze molto importanti, non solo ai fini della comprensione immediata del meccanismo che regola il rapporto tra organismo ospite e tumore, ma anche nell'ambito di una prospettiva di regolazione immunitaria della stessa crescita neoplastica modulata farmacologicamente. Alla base degli studi su questo problema si colloca la teoria della sorveglianza immunologica proposta da F.M. Burnet, negli anni Settanta del 20° secolo, e fondata sul presupposto che la reazione antineoplastica rappresenti una vera e propria forma di pressione evolutiva per il sistema immunitario nel suo insieme. Si riscontrano elementi a favore di questa linea di pensiero: l'esistenza di antigeni tumorali variamente efficienti per stimolare l'immunità, il ruolo dei virus oncogeni, la maggior frequenza di alcuni tumori in corso di deficit immunologico congenito o in individui immunosoppressi, la dimostrata efficacia della risposta immunitaria nei confronti di alcune neoplasie. Numerose, peraltro, sono le valutazioni contrarie: la scarsa immunogenicità di molti tumori a crescita spontanea e quindi non indotti sperimentalmente; il ruolo statisticamente poco rilevante dei virus che causano soltanto poche forme di neoplasia; l'esistenza di fenomeni paradosso che sono in grado di stimolare e non di controllare la crescita neoplastica stessa; l'esistenza di ceppi di topi nei quali la risposta immunitaria è congenitamente assente, e che pure non presentano un rischio aumentato di generare tumori nel proprio organismo; il significato limitato di lesioni precancerose; il ruolo, talora addirittura sfavorevole, di alcuni tipi di risposta immunitaria nel significato antitumorale. Si può ritenere la teoria della sorveglianza immunologica un approccio stimolante per discernere gli aspetti operativi (in vivo e in vitro) necessari alla comprensione del problema. Ciò, in sintesi, non può prescindere dalla dimostrazione irrefutabile che il sistema immunitario è in grado di dare risposta a numerosi tumori, ma che non sempre questa è efficace. La risposta agli antigeni tumorali comprende vari aspetti: dall'immunità umorale (anticorpi e complemento) alle varie espressioni dell'immunità cellulomediata. La risposta litica anticorpomediata non sembra avere molta efficacia, mentre esistono particolari forme di citotossicità (ADCC, Antibody-dependent cell-mediated cytotoxicity; azione citotossica naturale mediata da cellule NK, Natural killer; ruolo dei linfociti T citotossici; azione tumoricida dei macrofagi) in grado di agire in varie fasi della crescita tumorale. Tuttavia, i problemi di risposta immunitaria in corso di espansione neoplastica tendono a dimostrare come la cellula tumorale si accompagni a meccanismi in grado di inibire la risposta immunitaria stessa o di sfuggire (escape) a essa. Per es., esperimenti sui topi dimostrano come alcuni TAA possano stimolare linfociti T soppressori capaci di bloccare o limitare la risposta naturale antitumore e che, in alcune condizioni sperimentali, le cellule neoplastiche possano andare incontro a proliferazione anche in presenza di una dimostrata risposta immunitaria antitumore (immunoresistenza). D'altro canto la stessa reazione umorale anticorpomediata nei confronti di TAA può essere causa di un vero e proprio fenomeno di accecamento nei confronti della più efficace reazione citotossica cellulomediata: infatti gli anticorpi possono disporsi sulla superficie della cellula neoplastica o dar luogo a immunocomplessi circolanti con antigeni tumorali staccatisi dalla superficie della membrana, mascherando l'antigene al sistema di risposta cellulomediata e facilitando di conseguenza la crescita tumorale.
Il più delle volte il nome dei tumori benigni fa riferimento al tessuto o all'organo da cui prendono origine. Sono detti: adenoma, il tumore derivante da epiteli ghiandolari, e fibroadenoma quello nella cui struttura è rappresentato anche il tessuto connettivo; genericamente mioma, il tumore derivante da tessuto muscolare e, rispettivamente, leiomioma e rabdomioma i tumori del tessuto muscolare liscio e di quello striato; fibroma, cheloide, lipoma, xantoma, mixoma, condroma, osteoma sono i tumori dei singoli tipi di tessuto connettivo; angioma il tumore di derivazione vascolare, emangioma o linfangioma se derivanti da vasi sanguiferi o linfatici; meningioma il tumore delle meningi; neurinoma o neurofibroma il tumore dei tronchi nervosi. Altre volte il nome si riferisce alla particolare conformazione del tumore: verruca, condiloma, polipo e papilloma sono le denominazioni che per tale motivo assumono i tumori degli epiteli di rivestimento. Infine, come altre malattie, alcuni tumori possono essere indicati con il nome dell'autore che più ha contribuito alla loro conoscenza, come nel caso di un tumore ovarico benigno derivante dall'inclusione di un abbozzo di tessuto urinario, detto tumore di Brenner. I tumori maligni hanno accrescimento rapido e infiltrano ampiamente gli organi in cui si sviluppano, alterandone e cancellandone la struttura; sono profondamente atipici per morfologia dei singoli elementi, struttura del tessuto cui danno luogo e proprietà funzionali; si trasmettono a distanza per metastasi e provocano un decadimento generale (cachessia tumorale), che di per sé può essere causa di morte. La riproduzione per metastasi può avvenire con diverse modalità: per effetto della disseminazione delle cellule tumorali in una grande cavità sierosa (cavo pleurico o peritoneale) oppure ‒ ed è l'eventualità più frequente, per la loro penetrazione in canali preformati ‒ principalmente vasi linfatici o capillari sanguigni; per motivi strutturali la via linfatica è seguita prevalentemente dai tumori epiteliali, la via ematica dai tumori delle due serie, l'epiteliale e la connettivale; le caratteristiche anatomiche dei distretti circolatori impegnati spiegano la localizzazione preferenziale dei singoli tumori in stazioni linfatiche e organi determinati. La cachessia tumorale è dovuta in parte al più o meno completo danneggiamento dell'organo colpito dalla primitiva proliferazione e di quelli coinvolti nella disseminazione metastatica, in parte all'immissione in circolo di sostanze tossiche elaborate dal tumore e a un'azione spoliatrice esercitata dalla neoplasia con il suo accrescimento. I tumori epiteliali maligni vengono denominati epiteliomi se derivano da epiteli di rivestimento, carcinomi e adenocarcinomi se invece si sviluppano da epiteli ghiandolari; tale differenza non ha valore assoluto perché non di rado, forse per fenomeni di metaplasia, tumori che si sviluppano da epiteli ghiandolari, come succede per alcuni tumori dei dotti galattofori della mammella, possono assumere le caratteristiche tipiche dei tumori degli epiteli di rivestimento. Nel primo gruppo di epiteliomi si distinguono le varietà: a cellule squamose (o spinocellulari) con le caratteristiche perle cheratinizzate; a cellule basali (o basaliomi, o malpighiani con riferimento allo strato mucoso di Malpighi); a cellule indifferenziate, con un notevole grado di atipie; melanotici (o melanoepiteliomi o melanomi), che derivano dai melanoblasti cutanei. Altre varietà relativamente comuni sono gli adamantinomi, i craniofaringiomi, gli epiteliomi delle vie urinarie (vescica e bacinetto), gli epiteliomi a cellule cilindriche delle mucose dell'apparato digerente, delle vie aeree, dell'utero e delle trombe di Falloppio, il corionepitelioma. Nel secondo gruppo la presenza o meno di una parvenza di struttura ghiandolare distingue gli adenocarcinomi dai carcinomi; i rapporti del tessuto neoplastico con quello stromale giustificano l'ulteriore distinzione del carcinoma in midollare, se il tessuto stromale è abbondantemente infiltrato e appena riconoscibile, e in scirroso, se invece la reazione connettivale è esuberante e quasi soffoca la proliferazione carcinomatosa; un'abbondante degenerazione mucosa delle cellule proliferate caratterizza la varietà dei carcinomi mucosi. Sedi più frequenti di adenocarcinomi sono la mammella, il rene, la prostata, lo stomaco, il collo e il corpo dell'utero, la tiroide. I tumori maligni dei connettivi e degli organi mesenchimali in genere sono detti sarcomi e precisamente: sarcomi di elevata malignità, se il grado di anaplasia è tale da non consentire il riconoscimento del tessuto di origine; sarcomi blastici nel caso contrario. I primi, in base alla forma e alle dimensioni delle cellule sono ulteriormente suddivisi in sarcomi a cellule nane, rotondocellulari, fusocellulari, polimorfocellulari. La denominazione dei sarcomi blastici, invece, fa riferimento alla varietà di connettivo oppure alle particolari strutture da cui prendono origine. I tumori dei tessuti connettivi fibroso, adiposo, mucoso, cartilagineo, osseo vengono detti, rispettivamente, fibrosarcoma, liposarcoma, mixosarcoma, condrosarcoma e osteosarcoma; i tumori derivanti dagli osteoclasti sono denominati osteoclastomi, o anche sarcomi a cellule giganti o a mieloplassi; i sarcomi blastici dei vasi sono detti endoteliomi e con maggior precisione emangioblastomi e linfangioendoteliomi, se derivano dall'endotelio vasale, periteliomi se riferiti all'avventizia e angiosarcomi se dovuti alla degenerazione maligna di un angioma. Mesotelioma è il nome del tumore che deriva dalla proliferazione del rivestimento delle grandi cavità sierose, pleurica o peritoneale. Leiomiosarcoma e rabdomioma sono i tumori blastici del tessuto muscolare liscio e di quello striato. Le malattie neoplastiche del tessuto ematopoietico includono le leucemie, mentre un gruppo eterogeneo di tumori originanti dai sistemi reticoloendoteliale e linfatico sono i linfomi (Hodgkin e non Hodgkin), il linfoma di Burkitt, la micosi fungoide (rara neoplasia a carico dei linfociti T, prevalentemente localizzata alla cute).
Indicazioni sull'andamento temporale dei tumori in termini di mortalità e/o di morbilità possono essere ricavate dalla valutazione dei tassi di mortalità, a partire dalle statistiche correnti, e dei tassi di incidenza a partire dai casi registrati. Il numero medio per anno di morti per tumore è in progressivo aumento nel tempo. Tale fenomeno è, in parte, artificiale poiché legato all'invecchiamento della popolazione; infatti, per determinati tumori, esso si annulla se vengono impiegati tassi standardizzati per età, nei quali cioè non viene considerato l'effetto confondente dell'età. Inoltre, l'aumento è in parte da porre in correlazione con il miglioramento della capacità diagnostica e quindi con la possibilità di identificare tumori che nel passato non venivano riconosciuti (per es., taluni tumori del sistema nervoso centrale, tumori del pancreas ecc.). Si può affermare che per determinati tumori si assiste a un reale incremento di mortalità (tumori del polmone, dell'intestino ecc.), mentre per i tumori di talune sedi vi è una riduzione di mortalità che, a seconda della sede e del tipo, può essere determinata da fattori diversi: miglioramento della terapia (tumori delle ossa, linfomi ecc.); miglioramento delle abitudini alimentari (tumori dello stomaco); introduzione di screening preventivi volti a identificare il tumore in fase precoce, con migliori possibilità prognostiche (pap test per i tumori della cervice uterina). I fattori di rischio per la malattia neoplastica sono molteplici e tuttora oggetto di studio. Si stima che la maggior parte dei tumori sia di origine esogena: possono essere chiamati in causa fattori ambientali (radon, scarichi di motori ecc.), lavorativi (asbesto, benzene ecc.) comportamentali (fumo di sigaretta ecc.) e alimentari (alcol, dieta ricca di grassi animali ecc.). Inoltre, come per molte malattie multifattoriali, spesso si assiste a un effetto moltiplicativo quando sono presenti contemporaneamente più fattori di rischio. Per un limitato numero di tumori esistono evidenze di una origine genetica. Peraltro, la presenza di associazioni familiari di una determinata neoplasia può anche essere legata sia a esposizioni ambientali sia ad abitudini di vita comuni. L'esistenza di un'associazione fra infezioni virali e successiva comparsa di tumori è stata suggerita da numerose osservazioni. La prevenzione primaria dei tumori fonda le sue basi teoriche nelle attuali conoscenze dei fattori di rischio. La riduzione o l'abolizione del fumo, atteggiamenti alimentari volti alla riduzione dei grassi polinsaturi e all'aumento del consumo di fibre, di verdura e frutta fresche e altri interventi su fattori accertati come causali possono prevenire o ritardare la comparsa della malattia. La ricerca sui responsabili della genesi dei tumori è in continua espansione e potrà condurre all'identificazione di nuove strategie preventive.
Per le diverse neoplasie sono stati proposti protocolli diagnostici volti a fornire la dimostrazione della presenza del tumore seguendo criteri di costo/beneficio e di accuratezza diagnostica. Il primo end-point dell'iter diagnostico è la dimostrazione citologica o istologica della neoplasia, cui segue la stadiazione della malattia. Questi due elementi sono fondamentali per porre basi terapeutiche razionali. La diagnostica dei tumori si avvale di indagini di laboratorio strumentali e citoistologiche. Le tecniche di laboratorio, oltre a evidenziare segni indiretti o, in talune neoplasie, diretti della presenza del tumore, consentono anche di dosare, con metodi immunologici, i cosiddetti indicatori bioumorali di neoplasia (antigeni tumorali, subunità ormonali od ormoni, enzimi e prodotti vari del metabolismo). Queste sostanze rappresentano validi indicatori di crescita e di attività tumorale ma, a causa di sensibilità scarsa e specificità nulla, non vengono impiegati nella diagnosi precoce. Le indagini strumentali (invasive e non) comprendono tecniche radiologiche, ecografiche, nucleari ecc. Benché l'introduzione della tomografia computerizzata (TC) e della risonanza magnetica nucleare (RMN) rappresenti un notevole progresso nella diagnostica dei tumori, grazie soprattutto alla qualità delle immagini, talune esplorazioni strumentali continuano a mantenere un ruolo di primaria importanza (per es., la radiografia standard del torace e del tratto digerente; la mammografia; la scintigrafia ossea ecc.). L'impiego di tecniche endoscopiche si rivela utile nella visualizzazione di lesioni tumorali a livello dei vari apparati e cavità (tubo digerente, albero bronchiale, cavità peritoneale e pleurica ecc.). La biopsia (sempre più diffusa quella con ago sottile) consente diagnosi citologica e istologica anche precoce. Le indagini citoistologiche rappresentano un elemento essenziale dell'iter diagnostico, in quanto consentono di procedere al riconoscimento morfologico delle cellule tumorali anche avvalendosi di tecniche immunoistochimiche. In immunodiagnostica dei tumori lo studio delle molecole associate alla crescita neoplastica ha avuto un notevole impiego sia per definire precocemente la comparsa di cellule cancerose sia per controllare nel tempo l'evoluzione metastatica. È nato in tal modo il concetto di marker tumorale inteso come sostanza misurabile nel siero la cui identificazione in concentrazioni anormali può essere predittiva di crescita neoplastica. L'ambito del marker tumorale si è poi ampliato fino a comprendere il complesso di molecole, come per es. gli antigeni di differenziazione cellulare, che comunque si possono correlare con la comparsa o l'estensione di una massa neoplastica. Se limitiamo l'approccio ai marker tumorali definiti originariamente, dobbiamo considerare tali molecole come altamente sensibili e specifiche, in grado cioè di risultare oggettivamente diverse da altre strutture che non appartengono al tumore. L'insieme dei marker noti è abbastanza lontano dal rispondere alle proprietà di molecole ideali; tuttavia, un adeguato impiego degli stessi consente una buona definizione dell'estensione neoplastica e permette un significativo monitoraggio delle terapie adottate, soprattutto in funzione della diagnosi precoce delle recidive. Varie sostanze sono impiegate come marker (enzimi, antigeni oncofetali, ormoni). I più noti sono gli antigeni oncofetali: proteine espresse normalmente nella fase di sviluppo tessutale, ma che non compaiono nelle fasi di differenziazione dell'adulto. Il meccanismo alla base della derepressione genica degli antigeni oncofetali non è ancora completamente chiarito e la stessa specificità di alcuni marker oncofetali è stata ridimensionata (per es. determinati antigeni possono essere identificati in corso di processi infiammatori e, a dosi molto piccole, possono anche essere riscontrati nei tessuti). Tra gli antigeni oncofetali si ricordano il CEA (Carcinoembryonic antigen) e l'alfa-fetoproteina (AFP). Il CEA (proteina glicosilata della membrana, di peso molecolare 180.000) viene identificato in fluidi extracellulari, prodotto da diversi tessuti durante la vita fetale (per es. intestino ed epitelio bronchiale, ma anche fegato e pancreas), e in condizioni normali risulta dosato a concentrazioni inferiori ai 10 ng/ml. In corso di malattie non neoplastiche si può osservare un discreto aumento dei livelli, ma non al di sopra dei 15-20 ng/ml. Se i valori esprimono un picco di crescita molto alto, si hanno concrete probabilità di un tumore localizzato al pancreas, al colon o al retto. Dopo l'asportazione della massa neoplastica il valore del CEA scende in modo sensibile e tende a normalizzarsi entro le 4-6 settimane. Una sua ripresa, riscontrabile attraverso controlli di routine, consente di sospettare una recidiva del tumore o la comparsa di una metastasi a distanza. Talora un aumento del CEA si osserva anche in corso di tumori mammari o localizzati in sede urogenitale. In merito alle funzioni di questa molecola esistono prove che essa tende a comportarsi come una struttura di adesione intercellulare, probabilmente facilitando il contatto fra le cellule tumorali: ne consegue l'importanza della sua funzione nel regolare i rapporti tra massa neoplastica in espansione e cellule dei tessuti circostanti. Un'altra molecola di importanza pratica è l'AFP. Si tratta di una glicoproteina con peso molecolare 70.000, inclusa nel gruppo delle alfa-globuline, secreta usualmente, durante la vita fetale, dal sacco vitellino e dal fegato. L'AFP ha un'emivita di 4-6 giorni. Nella vita adulta l'albumina rimpiazza totalmente l'AFP. Elevati livelli si osservano in corso di gravidanza e in varie situazioni non neoplastiche (per es., epatite virale o necrosi tossica del fegato). L'impiego più significativo in clinica si verifica in corso di carcinoma epatocellulare, disgerminoma testicolare, ovarico o extragonadico. Più di rado la crescita si riscontra in corso di cancro gastrico e del pancreas. L'uso dell'AFP è quindi concettualmente affine a quello del CEA, sebbene, a differenza di quanto accada per quest'ultimo, una discriminazione tra crescita benigna e maligna non sia possibile sulla base delle variazioni di concentrazione nel siero.
La terapia dei tumori è diretta a eliminare la proliferazione neoplastica e a prevenirne le recidive, locali o a distanza. Nella maggioranza dei casi, si mira allo scopo con trattamenti chirurgici, radianti farmacologici, ai quali negli ultimi tre decenni del 20° secolo sono state affiancate nuove modalità di approccio terapeutico. A seconda delle caratteristiche istologiche, della localizzazione, dell'eventuale grado di diffusione della proliferazione neoplastica, questi differenti mezzi terapeutici sono impiegati isolatamente o associati in un programma opportunamente articolato o integrato. Per quanto riguarda la terapia chirurgica, nei tumori benigni la semplice exeresi della neoformazione e dei tessuti contigui offre sufficienti garanzie di guarigione definitiva; il rischio di recidive in loco sussiste solo in pochi casi come, per es., per alcuni tumori encefalici che, a dispetto della loro benignità oncologica, sono infiltranti e nei quali non si può procedere a un'ampia demolizione dei tessuti circostanti. Nei tumori maligni diagnosticati piuttosto precocemente il più delle volte si ricorre al trattamento chirurgico, che comprende l'asportazione del tumore, quella dei tessuti contigui nei quali si può ipotizzare una possibile, iniziale infiltrazione e quella dei linfonodi satelliti anche se apparentemente indenni. Nella chirurgia e microchirurgia oncologica si ricorre frequentemente all'impiego del laser, soprattutto quando si temono possibili disseminazioni metastatiche o si interviene su tessuti facilmente sanguinanti. La terapia radiante, inizialmente basata sull'impiego dei generatori di raggi X, del radio e di altri materiali radioattivi naturali, per lungo tempo ha avuto come campo d'azione specifico solamente alcuni tipi di tumori, come gli epiteliomi superficiali (cute, bocca, faringe), i tumori del tessuto emolinfopoietico e il seminoma del testicolo; per il resto il suo impiego era complementare dell'intervento chirurgico. L'efficacia della radioterapia risulta nettamente migliorata grazie ai progressi della fisica nucleare, delle conoscenze di radiologia, delle più efficaci misure di radioprotezione. Gli acceleratori elettronici, soprattutto i betatroni e quelli lineari, permettono di raggiungere i focolai profondi con dosi particolarmente efficaci e rispettando i tessuti sani con una precisione ben superiore a quella possibile con gli apparecchi convenzionali. Essi possono talora consentire di erogare durante un intervento chirurgico una singola ma elevata dose di radiazioni sull'area nella quale è stato asportato un tumore localmente avanzato (radioterapia interoperatoria). I radioisotopi artificiali rendono meno frequente il ricorso al radio e allo stesso tempo permettono l'uso di apparecchiature particolarmente duttili sia per la terapia a distanza (telegammaterapia) sia per quella nell'immediata vicinanza della parte malata (brachiterapia) o negli stessi interstizi dell'organo leso (radioterapia interstiziale). È stato inoltre avviato un tentativo di colpire con millimetrica precisione la massa tumorale lasciando quasi completamente indenni i tessuti circostanti con l'adroterapia, ossia attraverso apparecchiature eroganti particelle elementari che danno luogo a interazioni forti. La terapia farmacologica si avvale di numerosi prodotti, variamente somministrabili. Di più largo impiego sono le varie classi di chemioterapici antitumorali e, in secondo luogo, ormoni, loro derivati e antiormoni. Di uso più recente sono i preparati rivolti all'immunoterapia e, nel caso di alcuni tumori difficilmente accessibili per via chirurgica, l'inoculazione ricorrente di semplice alcol etilico nell'intimo della massa neoplastica mediante lungo ago cavo, sotto guida ecografica (alcolizzazione transcutanea). I chemioterapici sono perlopiù somministrati secondo schemi di dosaggio, di associazione contemporanea o sequenziale (polichemioterapia) e di durata, in base a protocolli concordati (talora a livello internazionale) e sono scelti in relazione alle caratteristiche istologiche e al tipo di cinetica cellulare della neoplasia, allo scopo di agire sulle cellule tumorali nel momento della loro massima sensibilità. Una forma di chemioterapia antiblastica del tutto particolare, ancora in via di approfondimento, è la fototerapia dinamica (o terapia fotodinamica), basata sulla somministrazione di una sostanza fotosensibilizzante (di solito un fluorocromo, come l'ematoporfirina o un suo derivato) che poi viene attivata mediante laser o altra fonte di radiazioni luminose con lunghezza d'onda penetrante. La terapia con ormoni, loro derivati o antiormoni si applica ai tumori di quegli organi nei quali sviluppo e funzione sono controllati da specifici ormoni e a condizione che tale dipendenza persista nelle cellule tumorali. Si attua perlopiù dopo aver eliminato chirurgicamente (ovariectomia negli adenocarcinomi della mammella, orchiectomia in quelli prostatici) la secrezione dell'ormone condizionante (endocrinoterapia passiva) o somministrando ormoni antagonisti (endocrinoterapia attiva), oppure bloccando i recettori ormonali presenti nelle cellule tumorali. I risultati migliori si sono ottenuti nel carcinoma della prostata, che è stato il primo di cui sia stata dimostrata l'ormonodipendenza. L'immunoterapia dei tumori, anch'essa in via di approfondimento, mira a potenziare la scarsa capacità del sistema immunitario di fronteggiare l'espansione neoplastica. La strategia di intervento consiste nell'utilizzare metodi di stimolo (immunoterapia attiva) o nell'impiego di molecole anticorpali capaci di esercitare un effetto citotossico o in grado di veicolare molecole ad azione farmacologica capaci di svolgere un ruolo antitumorale (immunoterapia passiva). L'immunoterapia attiva viene distinta in non specifica e specifica. L'approccio non specifico si basa sull'impiego di sostanze che, inoculate nel portatore di neoplasia, sono in grado di stimolare soprattutto la componente macrofagica. Allo scopo sono stati proposti il Corynebacterium parvum, il muramildipeptide (un derivato dell'acido muramico) e altre sostanze. L'immunoterapia attiva non specifica ha avuto scarso successo e pertanto l'attenzione si è spostata sull'analisi di potenziali vaccini antitumorali ricavati da cellule neoplastiche modificate e dai loro antigeni dei quali viene accresciuta l'immunogenicità, cosicché viene stimolata la risposta immunitaria del paziente contro il tumore che è stato asportato. Sebbene promettente, questo aspetto del trattamento risente di alcuni limiti applicativi e dell'ampia varietà delle tipologie tumorali. L'immunoterapia passiva, originariamente fondata sull'impiego di antisieri, si è arricchita di prospettive mediante l'uso di anticorpi monoclonali. Infatti usando opportune tecnologie di laboratorio, si possono produrre molecole anticorpali specificamente dirette verso l'antigene neoplastico che si desidera scegliere come bersaglio. Gli anticorpi monoclonali sono stati proposti come vettori di molecole citotossiche (per es. chemioterapici) o come agenti direttamente in grado di causare la lisi delle cellule tumorali mediata dall'azione del complemento; tuttavia il loro impiego non è ancora entrato negli schemi terapeutici. Un metodo di notevole interesse, proposto dal 1985, mira a generare cellule con reattività non specifica verso tumori immunogeni o no. Si è visto che incubando i linfociti in presenza di interleuchina (IL-2) possono essere stimolate cellule con attività antitumorale, dette LAK (Lymphokine activated killer). La somministrazione di LAK e IL-2 ha provocato una regressione di alcuni tumori e lo stesso impiego di IL-2 da sola è in grado, in determinate situazioni, di favorire un'attività immunitaria capace di controllare fenomeni di crescita metastatica (per es. nel carcinoma renale). Un'altra promettente via di approccio terapeutico si basa sull'uso di molecole capaci di inibire la crescita tumorale mediante lo stimolo di risposte biologiche dell'organismo colpito dalla neoplasia. Le sostanze considerate comprendono prodotti batterici, estratti timici e linfochine interferone che vengono inclusi nel gruppo dei BRM (Biological responder modifiers). Si tratta di molecole tra loro diverse, che esplicano una funzione genericamente definita modulante e che possono risultare efficaci in particolari condizioni di crescita tumorale. Uno dei sintomi più gravi per il paziente affetto da tumore è il dolore che per alcune neoplasie interviene precocemente, per altre si manifesta soprattutto nelle fasi terminali. Per contrastare questa sintomatologia, vengono impiegate terapie farmacologiche e non farmacologiche che nel loro insieme prendono il nome di 'terapia del dolore'. L'Organizzazione mondiale della sanità nel 1986 ha elaborato una scala sequenziale di impiego di sostanze che, nata per il trattamento del dolore neoplastico, è stata poi esportata anche ad altre tipologie di dolore. Se la terapia farmacologica si rivela inefficace, può essere integrata con l'impiego di tecniche invasive o seminvasive che consentono di portare i farmaci, sia analgesici locali sia oppioidi, a contatto con le radici spinali (analgesia epidurale), o con il sistema nervoso centrale (tecniche subaracnoidee spinali o intraventricolari centrali) modulando l'entrata di impulsi dolorosi (neuromodulazione spinale). Esistono poi tecniche neurolesive in grado di interrompere la trasmissione dello stimolo doloroso attraverso l'impiego di sostanze neurotossiche (alcol o fenolo) portate a diretto contatto con il tessuto nervoso o con i gangli simpatici e i plessi parasimpatici.
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