TUMORE
(XXXIV, p. 474; App. II, 11, p. 1030; III, 11, p. 990).
Agenti cancerogeni: Agenti cancerogeni chimici, p. 693; Agenti cancerogeni virali, p. 693. Immunologia dei tumori: Varietà di antigeni tumorali, p. 694; Natura della risposta immunitaria, p. 695. Diagnostica oncologica: Metodi fisici, p. 696; Metodi citologici, p. 696; Metodi biologici, p. 696. Terapia dei tumori: Chemioterapia (agenti alchilanti, antimetaboliti, antibiotici, alcaloidi vegetali, antiblastici vari), p. 697; Endocrinoterapia, p. 698; Immunoterapia, p. 698; Radioterapia, p. 698.
Dopo la pubblicazione dell'App. III (1961) non ci sono state in cancerologia scoperte sensazionali, ma c'è stato un progresso costante in quasi tutti i settori della disciplina tanto dal punto di vista clinico quanto da quello sperimentale. Non essendo possibile esaminare qui i molteplici aspetti del problema dei t., dedicheremo il nostro spazio quasi esclusivamente a quei capitoli, come l'immunologia dei t. e la chemioterapia, che in pratica sono stati scritti negli ultimi 15-20 anni e che pertanto non sono stati trattati, o sono stati soltanto sfiorati, nell'edizione originale e nelle successive Appendici.
Agenti cancerogeni.
I numerosi tentativi di elaborare una teoria cancerogenetica unitaria riguardano non tanto le possibili cause di t. (etiologia) quanto i meccanismi attraverso i quali un determinato stimolo induce lo sviluppo di un t. (patogenesi). Se è vero che la causa della grande maggioranza dei t. dell'uomo è ancora ignota, è altrettanto vero che si conoscono numerosi agenti capaci di provocare t. negli animali e che esistono buone ragioni per ritenere che questi stessi agenti, o agenti analoghi, siano cancerogeni anche per l'uomo.
Gli agenti cancerogeni possono essere di natura fisica, chimica (compresi gli ormoni) e virale; molti di essi, già noti da tempo, sono stati descritti in precedenza (App. II, 11, p. 1031; III; 11, p. 991).
Agenti cancerogeni chimici. - L'elenco già molto lungo dei cancerogeni chimici (idrocarburi policiclici, amine e amidi aromatiche, coloranti azoici, agenti alchilanti, cancerogeni inorganici, ecc.) è aumentato ulteriormente e c'è da prevedere che aumenterà ancora. Fra i cancerogeni chimici d'identificazione relativamente recente troviamo non soltanto prodotti di sintesi o comunque legati allo sviluppo tecnologico, ma anche sostanze di origine biologica, il che dimostra che anche un ritorno a forme di vita più naturali non ci metterebbe al riparo dall'azione di cancerogeni chimici. Molto significativo, al riguardo, è l'esempio delle aflatossine, principi attivi di una muffa (Aspergillus flavus, dalle cui iniziali deriva appunto il termine aflatossina), che contamina con una certa frequenza prodotti alimentari come la farina di arachidi. È possibile che l'incidenza particolarmente elevata di alcuni t. in certe aree (carcinoma epatico in Uganda, carcinoma gastrico in Oriente) sia in relazione con l'alto contenuto in aflatossine (o in altri cancerogeni naturali) delle diete locali. Un altro cancerogeno naturale scoperto di recente è la cicasina, glicoside del metilazossimetanolo isolato dalle noci di una varietà di palma (Cycas circinalis).
Un fatto interessante emerso in questi ultimi anni è che i cancerogeni chimici non soltanto possono essere introdotti preformati, ma possono anche formarsi nell'organismo a partire da sostanze innocue, come hanno dimostrato, per es., alcune indagini sulle nitrosamine. Perlomeno negli animali le nitrosamine, il cui prototipo è la dimetilnitrosamina, e le nitrosamidi, esemplificate dalla N-metilnitrosourea, sono potentemente cancerogene per il fegato e per l'apparato digerente in genere. Analogamente alla cicasina, che ha attività biologiche simili a queste sostanze, nitrosamine e nitrosamidi vengono trasformate, nell'organismo, in agenti alchilanti. Si è visto che introducendo per via orale nitriti e amine secondarie, entrambi innocui, nell'ambiente acido dello stomaco si formano quantità apprezzabili di nitrosamine. Inoltre, la flora batterica intestinale può trasformare i nitrati in nitriti. Orbene, amine secondarie si possono normalmente introdurre sia con gli alimenti sia con alcuni medicinali, e nitriti e/o nitrati sono spesso presenti negl'insaccati e in molti cibi in scatola. Un componente alimentare utile a ostacolare l'attività dei cancerogeni chimici nel tubo digerente sembra essere la quota di materiali indigeribili (soprattutto fibre vegetali) presenti nella dieta: nelle popolazioni la cui dieta raffinata è povera di scorie vegetali il carcinoma del colon è risultato sette volte più frequente che in quelle che fanno uso di cibi naturali ricchi di scorie e che presentano pertanto un transito intestinale molto più rapido. Le scorie agirebbero in parte diluendo gli eventuali cancerogeni presenti nella dieta o formati nel tubo digerente, ma soprattutto riducendo il tempo in cui questi cancerogeni stanno a contatto con la mucosa intestinale. Non si può escludere, inoltre, che le diete "raffinate" contengano additivi alimentari cancerogeni.
Qualche progresso è stato fatto nella ricerca di un meccanismo d'azione comune alla maggioranza dei cancerogeni chimici. Si è visto che molte amine e amidi capaci d'indurre t. sono in realtà dei precancerogeni: il precancerogeno una volta introdotto nell'organismo viene trasformato, tramite una N-idrossilazione, in cancerogeno prossimale e questo viene a sua volta convertito in un derivato elettrofilo molto instabile e reattivo (cancerogeno terminale o definitivo). È questo derivato che si combina con gruppi nucleofili di costituenti cellulari importanti come l'acido desossiribonucleico (DNA), l'acido ribonucleico (RNA) e le proteine. Gl'idrocarburi policiclici sono l'unico grande gruppo di cancerogeni chimici le cui forme reattive probabili sono ancora piuttosto oscure. È però verosimile che anche gl'idrocarburi agiscano previa trasformazione in derivati elettrofili attivi.
Agenti cancerogeni virali. - Se la tragica esperienza dei cosiddetti t. professionali ha confermato che i principi generali della cancerogenesi da agenti chimici e fisici sono applicabili anche all'uomo, non altrettanto può dirsi per gli agenti virali: a tutt'oggi non si conosce alcun t. maligno dell'uomo per il quale sia stata dimostrata con certezza l'etiologia virale. Va anche tenuto presente che una tale dimostrazione incontra un ostacolo praticamente insormontabile, e cioè l'impossibilità di saggiare la capacità cancerogena di un virus inoculandolo in esseri umani. Nella specie umana l'etiologia virale può dirsi accertata solo per alcune lesioni assai benigne la cui natura neoplastica è piuttosto dubbia: la verruca volgare e il condiloma acuminato.
Fra tutti i t. maligni dell'uomo il più probabile candidato alla qualifica di t. a etiologia virale è il linfoma di Burkitt, t. prevalentemente infantile e diffuso soprattutto nell'Africa centrale, che sarebbe dovuto a un virus erpetico e precisamente al virus di Epstein-Barr (virus EB).
A differenza di quanto si è detto per la specie umana, i virus oncogeni per gli animali sono molti e possono essere suddivisi in due grandi categorie: virus a DNA e virus a RNA.
I virus oncogeni a DNA noti appartengono ai seguenti gruppi:1) Papovavirus, gruppo di cui fanno parte il virus del papilloma, il virus polioma e il virus vacuolizzante della scimmia (SV-40: SV sono le iniziali dell'ingl. Simian Virus = virus della scimmia); il termine "papova" deriva appunto dalle iniziali di papilloma, polioma e vacuolizzante; 2) Adenovirus, gruppo di virus umani che si sono dimostrati oncogeni nel criceto, nel ratto e nel topo neonati; 3) Herpesvirus, gruppo cui appartengono il virus della neurolinfomatosi del pollo (malattia di Marek), il virus dell'adenocarcinoma della rana di Lucké e, forse, il già ricordato virus EB; 4) Poxvirus, gruppo di cui fanno parte il virus del fibroma e quello del mixoma, entrambi del coniglio. I principali virus oncogeni a RNA sono i virus delle leucosi aviarie, i virus delle leucosi murine, il virus del sarcoma di Rous e il virus del carcinoma mammario del topo, tutti appartenenti a un unico gruppo detto, appunto, degli oncornavirus. Di diversi virus oncogeni a DNA e a RNA è stato già parlato (App. II, 11, p. 1032; III, 11, p. 991).
La caratterizzazione dei vari virus oncogeni a DNA e a RNA mise in evidenza che virus oncogeni si ritrovavano in quasi tutti i gruppi di virus a DNA, ma in un solo gruppo di quelli appartenenti alla categoria dei virus a RNA. I virus a RNA di questo particolare gruppo avevano un comportamento molto singolare per dei virus a RNA e cioè non si replicavano in presenza d'inibitori della replicazione o della trascrizione del DNA. Fu prima ipotizzato e poi dimostrato che nei virioni di questi particolari virus a RNA è presente un enzima che consente l'operazione inversa della trascrizione, e cioè la sintesi di DNA sulla base dell'informazione contenuta nell'RNA virale. Detto enzima è dunque una DNA-polimerasi RNA dipendente e viene chiamato anche transcriptasi inversa.
La scoperta della transcriptasi inversa con tutte le sue implicazioni è certamente una tappa fondamentale della virologia oncologica e consente una visione unitaria della prima fase dell'evento trasformante. Semplificando il problema possiamo dire che il virus oncogeno a DNA integra il proprio genoma, o parte di esso, nel genoma della cellula infettata e che il virus oncogeno a RNA serve da stampo per la sintesi di un provirus a DNA che va a integrarsi nel genoma cellulare.
Immunologia dei tumori.
Agl'inizi del secolo era diffusa la speranza di poter trovare fra cellule normali e tumorali differenze dimostrabili con metodi immunologici e tali da poter essere sfruttate ai fini della diagnosi e della terapia dei tumori. Questa speranza derivava dal fatto che negli animali variamente immunizzati verso una determinata neoplasia non attecchiva un successivo trapianto dello stesso tumore. L'entusiasmo iniziale si affievolì notevolmente fin quasi a spengersi allorché sorse il legittimo sospetto che il mancato attecchimento del trapianto fosse dovuto non tanto a ipotetici antigeni specifici del t. quanto a normali antigeni (alloantigeni) presenti sia nel t. sia nei tessuti normali dell'animale in cui la neoplasia si era originariamente sviluppata e assenti nell'animale che riceveva il trapianto. Anzi, cominciò a farsi strada l'idea che antigeni tumore-specifici non esistessero affatto giacché le cellule che li avessero posseduti si sarebbero venute a trovare in una condizione di svantaggio selettivo e sarebbero state rapidamente eliminate dalla reazione immunologica dell'ospite.
In effetti tutti gli esperimenti sul trapianto dei t. condotti nei primi decenni del secolo erano viziati dall'essere eseguiti su animali che, se pure della stessa specie e magari della stessa razza sulla base dei caratteri esteriori, erano allogenici, cioè differivano fra loro dal punto di vista genetico. La prima svolta importante nel campo dell'immunologia dei t., come del resto in tutto il settore dei trapianti, si ebbe quando si cominciò a lavorare con animali di ceppo puro (inbred), cioè con animali geneticamente identici (singenici) ottenuti mediante incroci fra fratello e sorella ripetuti per molte generazioni. Si scoprì che, di regola, il trapianto di tessuti tumorali, come quello di tessuti normali, attecchiva soltanto negli animali singenici. La seconda svolta importante, attorno agli anni Cinquanta, fu la dimostrazione che anche un ospite singenico, in condizioni opportune, poteva acquisire una resistenza immunologica al trapianto di un tumore. Un esperimento decisivo fu quello con cui si dimostrò che nell'animale cui era stato asportato chirurgicamente un t. trapiantato da un donatore singenico (nel quale il t. era stato indotto con un cancerogeno chimico) non attecchiva un secondo trapianto dello stesso t. mentre continuavano ad attecchire trapianti di cute del donatore e trapianti di altri t. singenici. Un risultato analogo fu ottenuto poco dopo con un disegno sperimentale ancor più rigoroso, che prevedeva l'uso dello stesso animale in cui era stato indotto il t. con un cancerogeno chimico: dopo asportazione chirurgica radicale del t. primario e trattamento con ripetute iniezioni di cellule dello stesso t. letalmente irradiate, l'animale rigettava specificamente il successivo trapianto di un frammento del t. primario. Da ciò la conclusione che sulla superficie delle cellule tumorali esistono antigeni che sono "nuovi" (neoantigeni) anche per l'animale singenico; questi antigeni, in quanto dimostrabili con la tecnica del trapianto e responsabili del rigetto specifico del t., furono chiamati antigeni del trapianto tumore-specifici (TSTA, dall'inglese: Tumour Specific Transplantation Antigens). Questo termine è stato largamente impiegato ed è tuttora in uso, anche se oggi si tende a dare una definizione più restrittiva di antigene tumore-specifico (v. oltre).
È ormai assodato che un t., oltre a molti antigeni normali propri dell'individuo in cui esso è insorto (ospite autoctono) e capaci d'indurre una reazione immunologica soltanto in ospiti allogenici o xenogenici (xenogenico è l'animale di specie diversa), possiede un gran numero di antigeni, detti genericamente tumorali, che evocano una qualche risposta immunologica anche nell'ospite singenico e in quello autoctono.
Varietà di antigeni tumorali. - Schematicamente possiamo dividere gli antigeni tumorali in tumore-specifici e tumore-associati.
Antigeni tumore-specifici (TSA, dall'inglese: Tumour Specific Antigens), a stretto rigore, sono soltanto quelli presenti esclusivamente nella cellula tumorale, derivanti dalla trasformazione neoplastica e qualitativamente diversi dagli antigeni di qualunque altro tipo di cellula non neoplastica dell'ospite in qualunque fase della sua vita, da embrione a organismo adulto. Forse non è inutile sottolineare che, adottando questa definizione restrittiva, dalla categoria dei TSA vanno esclusi, in quanto non derivanti dalla trasformazione neoplastica delle cellule dell'ospite, non solo i neoantigeni identificabili come antigeni strutturali di un virus, seppure oncogeno, ma anche quelli indotti da un virus oncogeno quando si dimostri o si sospetti che essi possono comparire anche molto tempo prima della trasformazione neoplastica o anche in mancanza di questa trasformazione. È evidente che la specificità assoluta richiesta dalla definizione di TSA data sopra rende estremamente difficile, se non addirittura impossibile con le tecniche attualmente disponibili, dimostrare che un antigene trovato nelle cellule tumorali è veramente tumore-specifico.
Antigeni tumore-associati (TAA, dall'inglese: Tumour Associated Antigens) vengono definiti quegli antigeni che si trovano nella cellula tumorale e che non sono dimostrabili nelle cellule normali dell'ospite se non in condizioni particolari, come per es. nel periodo embrionale e/o fetale o in seguito a speciali trattamenti delle cellule normali dell'adulto (tripsinizzazione, ecc.). Data la già ricordata difficoltà di dimostrare che un antigene è tumore-specifico, moltissimi se non tutti gli antigeni tumorali vengono fatti rientrare in questa categoria, ma conviene far notare che quella di tumore-associato è spesso una qualifica provvisoria in attesa di poter stabilire con certezza se un determinato antigene tumorale è tumore-associato o tumore-specifico. Tipici rappresentanti della categoria dei TAA sono considerati gli antigeni carcino-embrionali e onco-fetali; questi antigeni, normalmente espressi durante il periodo embrionale e/o fetale, non sono più dimostrabili nelle cellule dell'adulto ma ricompaiono nelle cellule cancerose, dalle quali possono anche passare in circolo per sfaldamento delle membrane cellulari o come fenomeno secretivo. Due esempi di questo fenomeno, detto "reversione antigenica" o "espressione retrogenetica", sono offerti dall'antigene carcino-embrionale (CEA, dall'inglese: Carcino Embryonic Antigen), riscontrato per la prima volta nelle cellule embrionali e cancerose del tubo digerente dell'uomo, e dall'alfa1-fetoproteina (AFP), trovata nel siero di pazienti portatori di carcinomi epatocellulari o di altri t., nonché nei tessuti fetali e nei carcinomi epatici da cancerogeni chimici del topo, oltre che nel siero di questi topi cancerosi. Secondo indagini recenti, tuttavia, tanto il CEA quanto l'AFP sarebbero presenti in quantità molto ridotte anche in soggetti adulti normali o affetti da malattie non neoplastiche; ciò metterebbe in discussione la qualifica di TAA di questi antigeni, basata sull'assunto che essi siano completamente scomparsi nelle cellule normali dell'adulto.
Gli antigeni tumorali, siano essi tumore-specifici o tumore-associati, possono essere localizzati all'interno della cellula o sulla superficie cellulare, ma il criterio logico, confortato da alcuni dati sperimentali, porta a concludere che solo gli antigeni di superficie possono avere importanza ai fini della reazione immunologica dell'ospite al tumore. Va sottolineato, tuttavia, che la localizzazione sulla superficie cellulare è condizione necessaria ma non sufficiente per considerare un antigene tumorale "antigene del trapianto". Questa qualifica dev'essere attribuita soltanto sulla base di osservazioni in vivo e quindi spetta solo a quegli antigeni tumorali (di superficie) che sono capaci d'indurre resistenza alla crescita di un t. nell'ospite autoctono o in ospiti geneticamente compatibili (singenici).
In analogia con quanto già si è detto a proposito degli antigeni tumorali in genere, alla luce di queste considerazioni possiamo distinguere gli antigeni di superficie delle cellule tumorali in: 1) antigeni di superficie tumore-specifici (TSSA, dall'inglese: Tumour Specific Surface Antigens), alcuni dei quali possono avere i requisiti necessari per essere considerati veri e propri antigeni del trapianto tumore-specifici (TSTA, dall'inglese: Tumour Specific Transplantation Antigens); 2) antigeni di superficie tumore associati (TASA, dall'inglese: Tumour Associated Surface Antigens), parte dei quali con le caratteristiche di antigeni del trapianto tumore-associati (TATA, dall'inglese: Tumour Associated Transplantation Antigens). In pratica, per le ragioni già dette, alla categoria dei TATA vengono attribuiti tutti gli antigeni tumorali finora messi in evidenza con la tecnica del trapianto. Gli antigeni carcino-embrionali e onco-fetali, che in genere non fungono da antigeni del trapianto, sono considerati TASA.
Lo studio degli antigeni del trapianto di t. sperimentali variamente indotti ha rivelato che i TATA dei t. da cancerogeni chimici sono caratteristici del singolo t., cioè sono diversi da un t. all'altro anche se si è applicato lo stesso cancerogeno sullo stesso tipo di tessuto dello stesso soggetto; questi antigeni sono detti privati o individuali (intendendo per individuo il singolo t.). Al contrario i TATA dei t. indotti da virus a DNA o a RNA sono gli stessi (presentano reazioni crociate) in tutti i t. causati dallo stesso virus, anche se trattasi di t. di tipo istologico diverso prodotti in animali di specie differente (antigeni pubblici). Questa regola però non è assoluta. Per quanto riguarda i t. umani sembra che questi possiedano sia antigeni comuni a tutti i t. dello stesso tipo istologico (atg. pubblici) sia antigeni caratteristici del singolo t. (atg. privati).
Natura della risposta immunitaria.- Da una serie di osservazioni in vivo si è giunti alla conclusione che la difesa immunologica contro il t. è sostenuta principalmente dall'immunità cellulo-mediata. In diversi sistemi singenici, infatti, è stato possibile immunizzare attivamente un animale per mezzo d'iniezioni di cellule tumorali e successivamente trasferire lo stato di resistenza al t. dall'animale immunizzato a uno normale mediante il trasferimento di cellule linfoidi. In certi casi l'immunità anti-tumore può essere trasferita non soltanto con cellule linfoidi di animali specificamente immunizzati, ma anche con cellule linfoidi di animali portatori dello stesso tumore.
Meno chiaro, sempre sulla base degli esperimenti in vivo, il significato dell'immunità umorale nella reazione dell'ospite al tumore. Nell'esperienza dei diversi ricercatori l'iniezione di siero immune anti-tumore o non produce effetti apprezzabili o determina una debole inibizione o addirittura facilita lo sviluppo del tumore. In analogia con quanto osservato nel caso degli allotrapianti, si pensò dapprima che il fenomeno della "facilitazione" (enhancement) fosse dovuto ad anticorpi umorali che, stratificandosi sulle cellule del t., impedivano l'attacco da parte di elementi dell'immunità cellulomediata. Nel caso del t., tuttavia, una tale interpretazione non è più sostenibile e ci sono buone ragioni per ritenere che i fattori sierici responsabili del fenomeno della facilitazione ("fattori bloccanti") siano complessi antigene-anticorpo formati con antigeni rilasciati dalle cellule tumorali. Da tutto ciò l'opinione diffusa che l'immunità umorale non abbia una parte significativa nella difesa dell'ospite contro il t. e possa addirittura agire in senso negativo facilitando lo sviluppo della neoplasia. Su questo punto oggi si tende a essere più cauti, dopo che si è visto che il siero può contenere anche "fattori sbloccanti" (antagonisti dei già ricordati "fattori bloccanti") e che, perlomeno in vitro, gli anticorpi umorali possono agire da mediatori di citotossicità (v. qui di seguito).
I meccanismi immunologici di cui l'organismo ospite potrebbe servirsi per distruggere le cellule tumorali sono stati desunti essenzialmente da esperimenti in vitro. Essi sono: 1) Citotossicità diretta dei linfociti T sensibilizzati. L'azione citotossica diretta dei linfociti T (T = Timo-dipendenti) sensibilizzati sulle cellule bersaglio è ben documentata nell'immunità da allotrapianti, ma manca ancora una dimostrazione definitiva dell'esistenza, nell'animale con t. singenico, di linfociti T dotati di attività citotossica diretta sulle cellule tumorali. Una possibile spiegazione di questo fatto è che una popolazione di linfociti T dotati di attività citotossica diretta emerga soltanto quando esistono differenze a livello degli antigeni di istocompatibilità, mentre nessuno dei neoantigeni tumorali finora studiati è risultato appartenere a questa categoria. 2) Citotossicità mediata dai macrofagi. Tramite una cooperazione con i linfociti i macrofagi possono acquisire proprietà citotossiche (o citostatiche) nei confronti di cellule tumorali. Per effetto di fattori liberati da linfociti sensibilizzati verso un determinato t., i macrofagi possono diventare specificamente "armati"; questi macrofagi armati si attivano, cioè diventano citotossici, solo al contatto con l'antigene specifico, ma una volta attivati possono uccidere non solo le cellule tumorali usate per la sensibilizzazione dei linfociti, ma anche cellule tumorali antigenicamente non correlate. In altri termini, le fasi di armamento e di attivazione del macrofago sono specifiche mentre la fase più propriamente citotossica è aspecifica. Un dato interessante, anche se oscuro, è che la sensibilizzazione dei linfociti e la successiva attivazione in senso aspecificamente antitumorale dei macrofagi possono essere indotte non solo con antigeni tumorali, ma anche con altri antigeni (Bacillo tubercolare di Calmette e Guérin, Corynebacterium parvum, Toxoplasma gondii, ecc.). 3) Citotossicità anticorpo-dipendente da cellule K. In presenza di anticorpi umorali anti-tumore, cellule tumorali possono essere distrutte da elementi linfoidi non sensibilizzati dotati di un recettore per il frammento anticorpale Fc (cellule K, dall'inglese Killer, assassino). La specificità dell'attacco, in questo caso, non è legata alla cellula effettrice ma all'anticorpo. L'esatta natura delle cellule K non è ancora nota; l'opinione corrente è che si tratti di linfociti né T né B ma "neutri" (null). 4) Citotossicità da anticorpi e complemento. Questa forma classica di citotossicità può essere importante quando le cellule neoplastiche sono allo stato isolato, come nelle leucemie, e dipende da molti fattori fra i quali la quantità, la concentrazione e la stabilità degli antigeni presenti sulla superficie cellulare. 5) Citotossicità naturale, o spontanea, mediata da cellule NK. È una forma che si differenzia da tutte le altre in quanto non presuppone alcuna sensibilizzazione precedente. Le cellule responsabili di questa citotossicità (cellule NK, dall'inglese Natural Killer, assassino naturale) sono presenti naturalmente nell'uomo e negli animali da laboratorio non sensibilizzati e sono capaci di uccidere cellule tumorali di vario tipo senza la mediazione di anticorpi umorali. Le cellule NK hanno aspetto linfoide e non possiedono le proprietà dei macrofagi, ma la loro natura è controversa. È possibile che le cellule NK abbiano una parte importante nell'immunosorveglianza (v. oltre).
Se è ormai fuori discussione che il t. è antigenico per l'ospite singenico e per quello autoctono, e si possono addirittura intravedere i meccanismi immunologici con cui l'ospite potrebbe distruggere le cellule tumorali, resta da spiegare perché nella grande maggioranza dei casi il t. riesce a crescere nonostante la sua antigenicità.
Dire che è debole l'antigenicità del t. o che è insufficiente la risposta dell'ospite senza precisare i meccanismi in giuoco non ha molto senso giacché in vivo l'antigenicità del t. viene misurata sulla risposta dell'ospite e viceversa. Per quanto riguarda l'antigenicità delle cellule tumorali, è bene sottolineare che gli antigeni rivelati dalle reazioni in vitro non corrispondono necessariamente ad antigeni del trapianto e che il rigetto del t. nell'ospite autoctono o singenico (su cui si basa la definizione di antigene tumorale del trapianto) è stato ottenuto ricorrendo a due artifici sperimentali, e cioè: 1) "iperimmunizzazione" dell'animale su cui saggiare il trapianto; 2) trapianto di un numero piuttosto piccolo di cellule tumorali in modo da aumentare la possibilità di controllo da parte del sistema immunocompetente dell'animale iperimmunizzato.
Non bisogna dimenticare che la presenza in un tessuto di antigeni di superficie diversi da quelli dell'ospite non assicura che il tessuto sarà rigettato: il rigetto si verifica regolarmente solo se le differenze riguardano particolari antigeni di membrana (alloantigeni) che proprio per questo sono chiamati "antigeni di istocompatibilità". E anche questa regola non è assoluta, come è chiaramente dimostrato dal rapporto materno-fetale nella specie umana e negli altri incroci allogenici: a livello placentare si confrontano tessuti e sistemi immunocompetenti allogenici, e sappiamo che madre e feto si sensibilizzano reciprocamente senza che ciò abbia solitamente conseguenze dannose per alcuno dei due.
A ogni modo, mentre è noto il caso di t. sperimentali che hanno praticamente perduto gli antigeni di istocompatibilitä dell'ospite primario, tanto da poter essere trapiantati con successo anche in animali allogenici ("t. aspecifici o universali", come per es. il carcinoma-ascite di Ehrlich del topo), nessun neoantigene tumorale finora noto può essere considerato antigene di istocompatibilità, anche se non è escluso che i TATA siano in effetti normali antigeni di istocompatibilità dell'ospite primario modificati. Al riguardo è interessante ricordare che nelle cellule tumorali la comparsa di antigeni tumore-associati sembra accompagnata da una riduzione dei normali antigeni di istocompatibilità.
Un altro dato di grande interesse è che un t. può ridurre la propria sensibilità all'attacco immunologico dell'ospite sia in modo permanente, attraverso la selezione delle varianti genetiche meno antigeniche della linea cellulare capostipite ("immunoselezione"), sia in modo temporaneo attraverso variazioni adattative della propria antigenicità ("modulazione antigenica").
Un chiaro esempio di quest'ultima possibilità è offerto dalle cellule leucemiche del topo provviste di antigene TL: queste cellule, che in vitro vengono uccise da anticorpi anti-TL più complemento, crescono regolarmente se trapiantate in animali immunizzati contro TL giacché in queste condizioni esse cessano la produzione di antigene TL. Un'ulteriore possibilità, infine, è che le cellule tumorali riescano a mascherare i propri antigeni di superficie, per es. con sialomucine.
Fin qui si è accennato a fattori connessi soprattutto con il t., ma ovviamente il fatto che il t. riesca a crescere ad onta della sua antigenicità può dipendere, in tutto o in parte, dalla capacità di risposta immunologica dell'ospite. Schematicamente possiamo dire che questa può risultare depressa specificamente per un determinato t. (inibizione della branca efferente dell'immunità cellulo-mediata ad opera di "fattori bloccanti", "paralisi immunitaria" indotta da antigeni liberati dal t., ecc.) oppure aspecificamente (diminuita reattività immunologica in relazione con l'età, deficienze immunologiche da difetti genetici, immunosoppressione da agenti chemioterapici, radiazioni ionizzanti o infezioni virali, ecc.). Particolarmente interessante, a questo riguardo, l'effetto immunosoppressore di molti cancerogeni chimici che alcuni ritengono fondamentale per la comparsa del tumore. È stata anche avanzata l'ipotesi che la risposta cellulo-mediata non riesca a tener dietro alla rapida proliferazione delle cellule tumorali.
Per finire ci sembra opportuno ricordare la cosiddetta "teoria dell'immunosorveglianza", secondo la quale il sistema immunitario ha il compito di sorvegliare le cellule dell'organismo e di eliminare le cellule neoplastiche che certamente si formano in ogni individuo nel corso della vita; il t. si svilupperebbe quando una cellula trasformata riesce a sfuggire a questo controllo. Oggi, tuttavia, esistono più motivi di perplessità che dati a favore di questa teoria, almeno nella sua formulazione originale. Con tutta probabilità i rapporti fra ospite e t. sono estremamente complessi e ogni generalizzazione appare perlomeno prematura.
Diagnostica oncologica.
Oltre che dei metodi radiologici, endoscopici e istopatologici classici, la diagnostica oncologica può oggi avvalersi di altre tecniche, alcune delle quali rappresentano modificazioni o perfezionamenti di metodi già in uso mentre altre sono da considerarsi vere innovazioni.
Metodi fisici. - Radiografia con doppio mezzo di contrasto. - È questa una variante della X-radiografia tradizionale che, pur essendo tutt'altro che nuova come principio, si è sviluppata particolarmente negli ultimi anni. Viene utilizzata soprattutto per lo studio di vari segmenti dell'apparato digerente, specialmente stomaco e colon. La plicatura mucosa del viscere in esame viene opacizzata da un sottile strato di un mezzo di contrasto opaco (solfato di bario) mentre il viscere è disteso da un mezzo di contrasto trasparente (gas o aria) fatto sviluppare per via chimica all'interno del viscere (stomaco) o insufflato (colon). Questo tipo d'indagine, detto anche "mucografia", ha migliorato le possibilità diagnostiche specialmente nei confronti di lesioni piccole e superficiali.
Xeroradiografia. - È una X-radiografia in cui al posto della pellicola ricoperta di alogenuro di argento si usa un sottile strato di selenio evaporato su una lastra di alluminio. Il selenio, che al buio è un buon isolante di elettricità, diventa parzialmente conduttore allorché colpito da radiazioni luminose o ionizzanti. Lo strato di selenio viene preparato con una carica elettrica uniforme sulla sua superficie e, una volta esposto al fascio di radiazioni X con l'interposizione di un soggetto, acquista l'"immagine latente"; questa è dovuta a una perdita parziale e selettiva della carica in rapporto all'assorbimento differenziale delle strutture in esame. L'immagine latente viene poi sviluppata immergendo la lastra in una nube di polvere elettricamente carica; le particelle di polvere aderiscono al selenio in quantità proporzionale alle cariche residue; successivamente l'immagine viene stampata su carta. Rispetto alle radiografie standard le xeroradiografie offrono il vantaggio di una migliore definizione delle immagini ("effetto bordo") e di una più vasta latitudine.
Tomografia Assiale Computerizzata (TAC). - Anche questa tecnica utilizza le radiazioni ionizzanti, ma in modo completamente nuovo. Il corpo viene esaminato secondo strati trasversali dello spessore di 8-15 mm. Ogni strato è attraversato da un sottile pennello di radiazioni X che colpisce lo strato in esame da più angolazioni; il fascio di radiazioni emergente non viene raccolto da una pellicola né da uno schermo fluorescente, ma da un rivelatore ad alta sensibilità (cristallo a scintillazione o gas raro). La sorgente di raggi X e il rivelatore si muovono concordemente con movimento combinato traslatorio-rotatorio o con movimento solo rotatorio effettuando successive scansioni, sotto angoli diversi, dello strato in esame. Un fotomoltiplicatore raccoglie e amplifica i segnali del rivelatore e li invia in forma elettronica a un calcolatore. Questo elabora tutte le misure elettroniche effettuate durante la scansione e ricostruisce l'immagine dello strato corporeo in esame; questa immagine, rappresentata a colori o in bianco e nero su una scala di grigi, compare su un monitor e può essere fotografata o memorizzata in vario modo. Rispetto all'indagine radiologica tradizionale la TAC offre il vantaggio di poter mettere in evidenza differenze di densità molto più piccole. Essa si è dimostrata particolarmente utile per lo studio di organi e apparati analizzabili con difficoltà con le altre tecniche, per es. l'encefalo, il mediastino, il fegato, il pancreas e le strutture retroperitoneali in genere.
Ecografia (ultrasonografia). - L'indagine a mezzo di ultrasuoni offre il vantaggio di non utilizzare radiazioni ionizzanti e quindi di evitare i relativi rischi. Questa tecnica consiste nell'inviare onde ultrasonore nella regione da esplorare e nell'analizzare gli echi prodotti dalla loro riflessione. L'apparecchio per ecografia è costituito di un trasduttore che trasforma impulsi elettrici in treni di onde ultrasonore, i quali, nell'attraversare i diversi tessuti della zona esplorata, provocano echi in corrispondenza delle varie interfacce (osso-tessuti molli, tessuti molli-liquido, ecc.). Il trasduttore funziona anche da raccoglitore di echi; questi echi vengono elaborati e visualizzati come curve oscilloscopiche (A-scan) o sotto forma di una mappa (B-scan) che riproduce in un monitor le strutture "riconosciute" dalle onde ultrasonore. L'ecografia è stata proposta anche come esame orientativo prima di passare a tecniche che utilizzano radiazioni ionizzanti.
Termografia. - È una tecnica assolutamente innocua basata sulla misura delle radiazioni infrarosse emesse dalla cute. Questa misura viene effettuata mediante un'attrezzatura composta di un sistema (specchio oscillante o prisma) che in ogni istante raccoglie le radiazioni emesse da una zona cutanea e le focalizza su un rivelatore; questo trasforma le radiazioni infrarosse in un segnale elettrico che viene elaborato e visualizzato in vario modo. L'osservazione che la superficie cutanea al di sopra di un t. mammario è spesso più calda di 1-4 °C rispetto alla cute circostante ha portato a ricercare questo dato in corso di neoplasie superficiali o semiprofonde come i melanomi, i t. ossei primari e secondari, ecc. L'aumento della temperatura sembra dovuto a variazioni del flusso ematico provocate dalla neoplasia più che a calore prodotto dal metabolismo del tumore. Nelle indagini sulle neoplasie mammarie, campo in cui la termografia è stata maggiormente utilizzata, sono state considerate significative differenze di temperatura superiori a 1,5 °C in aree corrispondenti dei due lati. A ogni modo, data l'alta incidenza di falsi-positivi e falsi-negativi, il reperto termografico dev'essere interpretato con molta cautela.
Scintigrafia. - La possibilità di rivelare neoplasie maligne mediante traccianti radioattivi è subordinata al fatto che la concentrazione del composto somministrato come tracciante sia diversa nel t. e nei tessuti normali adiacenti. Il tessuto tumorale può concentrare una quantità maggiore o minore di tracciante rispetto ai tessuti circostanti: nel primo caso si parla di "tracciante positivo", nel secondo di "tracciante negativo". Con opportune apparecchiature è possibile ottenere una mappa di radioattività (scintigramma) dell'organo contenente un t. primitivo o secondario (v. medicina nucleare, in questa App.).
Angioscintigrafia. - Tecnica scintigrafica che permette di visualizzare precocemente le alterazioni circolatorie connesse con la presenza di un tumore. L'impiego di un rivelatore tipo camera a scintillazione in linea con un calcolatore permette di evidenziare la distribuzione di un tracciante in un organo durante la perfusione di questo; è possibile in questo modo studiare anche con parametri matematici lo stato vascolare nel contesto di una lesione.
Metodi citologici. - Accanto alle tecniche istologiche e istochimiche si è sviluppata la citologia diagnostica. Tecniche citologiche sono state applicate in un gran numero di sedi anatomiche, ma l'esempio più significativo è ancora lo striscio vaginale colorato secondo Papanicolau, un esame che è risultato particolarmente utile ai fini della diagnosi di carcinoma della cervice uterina.
Metodi biologici. - In questi ultimi anni sono stati messi a punto diversi metodi, in prevalenza radioimmunologici, per il dosaggio nei liquidi organici di sostanze di origine tumorale (antigeni tumore-associati, ormoni, enzimi, ecc.). Fra le sostanze che hanno suscitato maggiore interesse, per quanto riguarda la specie umana, ricorderemo il CEA, l'alfa1-fetoproteina (v. sopra: Immunologia dei t.), la gonadotropina corionica umana (HCG), l'antigene solfoglicoproteico fetale (FSA), l'alfa2-ferroproteina, la fosfatasi alcalina placentare e la gamma-fetoproteina. Finora, tuttavia, nessuno di questi tests è risultato specifico per il tumore.
Terapia dei tumori.
La terapia dei t. può essere chirurgica, radiante (v. oltre: Radioterapia) o medica, e ognuno di questi trattamenti può essere applicato da solo o variamente associato agli altri (terapie integrate).
Per la terapia chirurgica si ritiene tuttora sostanzialmente valida l'informazione fornita nel precedente aggiornamento (v. tumore: Terapia chirurgica dei tumori, in App. III, 11, p. 994). Ancora oggi l'intervento chirurgico rappresenta la terapia di elezione per quasi tutte le forme di cancro non disseminato, ma poiché spesso è impossibile escludere che la disseminazione sia già avvenuta (non c'è una correlazione precisa fra età e/o dimensioni del t. e disseminazione delle sue cellule), l'atto chirurgico sta diventando sempre più una parte, sia pure importante, di più vasti programmi terapeutici multidisciplinari. Alcune riserve sono state avanzate, in questi ultimi anni, sull'utilità di certi interventi ampiamente demolitori ideati nella speranza di raggiungere una vera radicalità "inseguendo" le cellule tumorali lungo le vie più probabili di disseminazione. Queste riserve scaturiscono dal confronto dei risultati a lungo termine d'interventi variamente demolitori associati o no al trattamento radioterapico e/o chemioterapico. Al riguardo va sottolineato che anche l'indice di sopravvivenza a 5 o 10 anni dopo un determinato trattamento può essere fallace, visto che le metastasi di alcuni t. possono rimanere silenti ("dormienti") per molti anni prima di manifestarsi (oltre 30 anni in alcuni casi di carcinoma della mammella).
Negli anni trascorsi dopo la pubblicazione dell'App. III la terapia medica dei t. ha abbandonato il ruolo di cenerentola e si è affiancata, con piena dignità, ai più classici trattamenti chirurgico e radioterapico. Favorita dal moderno orientamento verso una terapia integrata della maggioranza delle forme neoplastiche, è nata così una sottospecializzazione della medicina interna, l'oncologia medica. Nel 1973 è stata fondata l'Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM).
La terapia medica dei t. comprende la chemioterapia, l'endocrinoterapia e l'immunoterapia.
Chemioterapia. - La moderna chemioterapia antitumorale è nata durante la seconda guerra mondiale nel corso di studi sugli effetti patogeni di due gas bellici: il gas mostarda (solfo-mostarda) o iprite, e un suo derivato detto mostarda azotata o azotoiprite (v. App. II, 11, p. 1033). Si scoprì che questi composti, oggi riuniti insieme con altri sotto il nome di "agenti alchilanti", oltre a essere vescicatori, inibivano la proliferazione cellulare provocando pancitopenia. Nel 1945 fu chiaramente dimostrato che la mostarda azotata era capace d'indurre rapide, importanti remissioni, purtroppo solo temporanee, di diversi t. linfoidi dell'uomo e degli animali.
I più importanti farmaci antiblastici (antitumorali) oggi in uso possono essere divisi in cinque categorie: 1) agenti alchilanti; 2) antimetaboliti; 3) antibiotici; 4) alcaloidi vegetali; 5) antiblastici vari.
Gli agenti alchilanti sono sostanze che, come tali o dopo attivazione metabolica da parte dei tessuti dell'organismo, sono capaci di sostituire con gruppi alchilici (per es., un metile o un etile) atomi d'idrogeno di molti costituenti cellulari, in particolare acidi nucleici e proteine. Ai fini dell'azione citotossica antitumorale il bersaglio principale sembra il DNA, la cui sintesi risulta nettamente inibita da dosi di farmaco che hanno ancora scarsi effetti sulla sintesi dell'RNA e delle proteine. L'azione sul DNA consisterebbe nell'alchilazione delle basi puriniche e pirimidiniche e nell'esterificazione dei gruppi fosforici, con conseguenti rotture del polimero. Non è escluso, tuttavia, che all'azione citotossica degli agenti alchilanti contribuiscano, sia pure in minor misura, le reazioni con l'RNA e le proteine (enzimi compresi). Un agente alchilante può essere mono- o polifunzionale a seconda che possieda una o più catene alchilanti: la maggiore citotossicità degli agenti polifunzionali sembra legata al fatto che questi composti, oltre ad essere genericamente alchilanti, possono formare delle specie di ponti (cross-links) fra i due filamenti del DNA, fra due punti dello stesso filamento di DNA o anche fra DNA e proteine (o RNA).
Gli agenti alchilanti di più largo impiego nella terapia antitumorale, oltre alla già ricordata mostarda azotata (mecloretamina) e a tutta una serie di suoi derivati quali la ciclofosfamide, il clorambucile e il melfalan (l-fenilalanin-mostarda), sono un alchilsulfonato noto come busulfano, le etilenimine trietilenmelamina (TEM) e trietilentiofosforamide (TioTEPA), le nitrosouree carmustina (BCNU, da: bis-cloroetil-nitrosourea), lomustina (CCNU, da: cloroetil-cicloesil-nitrosourea), semustina (metil-CCNU) e streptozotocina, la mitomicina C e il composto triazenico dacarbazina (DTIC da: dimetil-triazeno-imidazol-carbossamide).
Un'altra categoria di antiblastici è quella degli antimetaboliti. Per definizione un antimetabolita è un composto strutturalmente simile a un metabolita fisiologico, del quale esso inibisce competitivamente la sintesi e/o l'utilizzazione; quasi inutile sottolineare che, se il metabolita fisiologico è essenziale per la vita cellulare, l'antimetabolita causa la morte della cellula. I principali antimetaboliti usati in clinica come antiblastici sono antifolici (metotrexato e aminopterina), antipurine (6-mercaptopurina e 6-tioguanina) e antipirimidine (5-fluoro-uracile). Tutte queste sostanze interferiscono con la biosintesi degli acidi nucleici sia pure agendo a livelli diversi. Semplificando non poco il complesso problema, possiamo dire che antipurine e antipirimidine ostacolano la sintesi o l'utilizzazione di nucleosidi e nucleotidi, rispettivamente purinici e pirimidinici, mentre gli antifolici inibiscono la trasformazione dell'acido folico nella forma coenzimaticamente attiva (tetraidrofolico) necessaria, fra l'altro, per la biosintesi del nucleo purinico e per la formazione di nucleotidi essenziali per la sintesi del DNA (metilazione dell'acido desossiuridilico ad acido timidilico). Un dato molto importante anche ai fini pratici è che i derivati tetraidrogenati dell'acido folico annullano gli effetti tossici degli antifolici. Un antagonista pirimidinico un po' particolare usato nella terapia antiblastica è la citarabina (citosina-arabinoside o ara-C), che differisce dal nucleoside fisiologico per la presenza di arabinoso al posto del riboso: la citarabina agisce tramite un'inibizione della DNA-polimerasi (DNA-dipendente).
Fra gli antibiotici più efficaci in senso antitumorale, oltre alla streptozotocina e alla mitomicina C classificate fra gli agenti alchilanti, ricorderemo i seguenti: daunorubicina (daunomicina), doxorubicina (adriamicina), dactinomicina (actinomicina D), mitramicina e bleomicina. Fatta eccezione per la bleomicina, che sembra agire producendo una frammentazione del DNA, questi antibiotici altererebbero le funzioni del DNA (duplicazione, trascrizione o entrambe) attraverso un processo di "intercalazione", cioè determinando un leggero svolgimento della doppia elica del DNA e inserendosi fra coppie di basi adiacenti nell'elica. Tutto ciò, comprensibilmente, si fa risentire sulla sintesi delle proteine, compresa la produzione degli enzimi deputati alla sintesi degli acidi nucleici.
Degli alcaloidi vegetali quelli più largamente impiegati nella terapia antitumorale sono vincristina e vinblastina, entrambe isolate dalla pervinca (Vinca rosea). L'effetto più appariscente di queste sostanze, dette anche antimitotici, è quello di bloccare il ciclo mitotico in metafase impedendo la formazione del fuso tramite un'interazione con le proteine dei microtubuli. Questo effetto, tuttavia, non sembra il solo fattore responsabile della citotossicità in quanto altre sostanze ugualmente attive sul ciclo mitotico presentano scarsa attività antitumorale. Quanto al meccanismo d'azione, vincristina e vinblastina inibirebbero la sintesi proteica interferendo nella produzione e nella funzione degli RNA di trasferimento (tRNA), ma non è escluso che esse abbiano anche altre azioni a livello del metabolismo degli acidi nucleici.
Alcuni farmaci antiblastici non rientrano in alcuna delle categorie sopra ricordate e vengono pertanto riuniti sotto il termine di antiblastici vari. È questo il caso, per es., dell'idrossiurea, che inibisce la trasformazione dei ribonucleotidi in desossiribonucleotidi, e della procarbazina, che provoca frammentazione del DNA cellulare. Un antiblastico un po' particolare è infine l'asparaginasi, enzima mediante il quale si può distruggere l'asparagina circolante. L'azione antitumorale di questo enzima si basa sul fatto che, mentre le cellule normali sono capaci di sintetizzare l'asparagina di cui hanno bisogno, alcune cellule leucemiche e tumorali non possiedono l'enzima necessario per questa sintesi e pertanto muoiono se viene loro a mancare l'apporto di asparagina dal circolo. La scoperta di questo nuovo principio terapeutico è senza dubbio importante, tanto più che l'asparaginasi ha una tossicità molto bassa, ma in clinica l'uso dell'asparaginasi ha dato risultati molto inferiori a quelli che si poteva sperare sulla base degli esperimenti sugli animali.
È bene tener presente che, fatta eccezione per l'asparaginasi, tutti i farmaci finora disponibili per la chemioterapia dei t., pur essendo spesso indicati come "antitumorali", sono in realtà farmaci citotossici piuttosto aspecifici; essi, infatti, non colpiscono selettivamente le cellule neoplastiche ma esplicano la loro azione tossica anche sulle cellule normali dell'ospite, specialmente in quelle che mantengono per tutta la vita la capacità di dividersi (precursori delle cellule ematiche, strato basale degli epiteli, spermatogoni). Ne consegue che in nessun caso il controllo chemioterapico della crescita tumorale è esente da ripercussioni più o meno gravi nei tessuti sani; particolarmente preoccupanti, soprattutto nel caso della chemioterapia aggiuntiva (v. oltre) e nelle forme di neoplasia in cui si può avere una guarigione definitiva, sono gli effetti mutageni e cancerogeni dei farmaci antiblastici nonché la loro azione immunosoppressiva. Al riguardo è da notare che i farmaci antineoplastici usati a scopo immunosoppressivo nell'uomo fanno aumentare enormemente la normale incidenza di neoplasie, particolarmente di quelle del sistema linforeticolare. Non va dimenticato, tuttavia, che molti degl'inconvenienti e dei rischi della chemioterapia sono insiti anche nel trattamento radioterapico.
Non essendo nota alcuna differenza metabolica qualitativa fra cellula neoplastica e cellula normale, non meraviglia il fatto di non conoscere una sostanza capace di distruggere selettivamente le cellule tumorali. Anzi, poiché l'efficacia terapeutica presuppone una certa selettività nei confronti delle cellule tumorali, resta da spiegare l'indubbia efficacia terapeutica, almeno temporanea, dei farmaci antiblastici. L'esperienza ha dimostrato che questa apparente selettività degli antiblastici attuali dipende, oltre che dal tipo di farmaco e dal tipo di t., da molti altri fattori fra i quali la dose e le modalità di somministrazione del farmaco nonché la capacità di alcuni tessuti normali di proliferare più rapidamente dei t. e pertanto di riparare più prontamente i danni causati dal farmaco.
Sulla base di queste considerazioni si è cercato da un lato di trovare antiblastici sempre più attivi e, dall'altro, di razionalizzare l'uso di farmaci già disponibili anche alla luce delle più recenti acquisizioni sulla cinetica di accrescimento delle neoplasie e sulla diversa sensibilità ai chemioterapici delle cellule nelle varie fasi del ciclo proliferativo cellulare. La valutazione preclinica dei farmaci antiblastici è andata sempre più integrandosi con le diverse fasi della farmacologia clinica, dalla definizione dei parametri tossicologici (fase I) e dello spettro di attività (fase II) alla misura prospettica dell'efficacia terapeutica (fase III). In linea generale la chemioterapia di combinazione (polichemioterapia), cioè la somministrazione contemporanea o sequenziale di due o più farmaci antiblastici, è risultata più efficace della terapia con un singolo farmaco (monochemioterapia) e sono stati messi a punto diversi protocolli internazionali di polichemioantiblasticoterapia per le varie forme di neoplasia chemiosensibili.
Nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni, la chemioterapia dei t. costituisce ancora un trattamento sostanzialmente palliativo. Forse non è inutile sottolineare che la maggioranza dei più frequenti t. maligni dell'uomo (carcinomi dello stomaco, del polmone, dell'intestino, dell'utero, della vescica, del pancreas, ecc.) risponde poco o nulla al trattamento con i farmaci antiblastici attualmente disponibili. Tuttavia, non possiamo ignorare che in alcune forme neoplastiche la chemioterapia, da sola o in aggiunta ad altre forme di trattamento (chemioterapia aggiuntiva), può consentire un aumento della sopravvivenza talvolta identificabile con la guarigione (leucemia linfatica acuta del bambino, malattia di Hodgkin, linfoma di Burkitt, gestocoriocarcinoma, tumore di Wilms, sarcoma osteogenico) o comunque remissioni significative (linfomi non Hodgkin, leucemia linfatica cronica, rabdomiosarcoma infantile, sarcoma embrionale, adenocarcinoma della mammella e dell'ovaia, t. testicolari, mieloma multiplo). Certamente l'applicazione più importante della chemioterapia aggiuntiva (o adiuvante) è quando essa viene praticata a seguito d'intervento chirurgico, radioterapico o di entrambi allo scopo di distruggere eventuali micrometastasi; in casi particolari, tuttavia, la chemioterapia può avere anche un'indicazione "preparatoria" agli altri tipi d'intervento.
Endocrinoterapia. - La somministrazione di ormoni antagonisti (endocrinoterapia attiva) e/o l'eliminazione di ormoni agonisti endogeni (endocrinoterapia passiva) può avere un effetto palliativo su alcuni tumori. L'eliminazione di ormoni endogeni può essere realizzata sia con la somministrazione di sostanze che inibiscono la sintesi o la secrezione dell'ormone sia con l'ablazione chirurgica o la distruzione radiologica di ghiandole endocrine. In linea generale i t. che risentono dell'endocrinoterapia sono soprattutto quelli che insorgono in organi ("organi bersaglio") il cui sviluppo e la cui funzione sono normalmente sotto l'influenza di ormoni specifici: prostata, utero, mammella, tiroide, ovaia e forse testicolo. Va notato, però, che non tutti i t. di questi organi sono sensibili agli ormoni, ma solo quelli che nel corso della trasformazione neoplastica hanno conservato i recettori per gli ormoni (tumori ormono-dipendenti). Somministrando sostanze che bloccano questi recettori nel t. si sono avuti risultati paragonabili a quelli ottenuti con l'iniezione di ormoni antagonisti.
L'endocrinoterapia, di solito associata ad altri tipi di trattamento, è stata applicata con qualche successo in casi di carcinoma della prostata, adenocarcinoma dell'utero, carcinomi della mammella, dell'ovaia e della tiroide. I migliori risultati si sono ottenuti nel carcinoma della prostata associando all'orchiectomia il trattamento con antiandrogeni (ciproterone acetato).
Anche alcune neoplasie di organi considerati non-bersaglio possono risentire favorevolmente del trattamento con ormoni. Per es., i cortisonici ad alte dosi in combinazione con farmaci citotossici inducono remissioni importanti in caso di leucemia linfatica acuta e cronica, e di alcune forme di linfoma, provocando la lisi delle cellule linfoidi sia normali sia neoplastiche. Risultati positivi, ma sempre di breve durata, si sono avuti anche in una buona percentuale di pazienti con adenocarcinoma renale trattati con alte dosi di progestinici e/o androgeni. È possibile che anche in queste forme neoplastiche di organi ritenuti non-bersaglio l'efficacia degli ormoni sia in relazione con la presenza di recettori ignorati o comparsi per effetto della disdifferenziazione (differenziazione anomala) associata alla trasformazione neoplastica.
Immunoterapia. - Molti degl'insuccessi della terapia antitumorale sono dovuti non già al t. primitivo e alla sua diffusione locale, dominabili efficacemente con il trattamento chirurgico e/o radioterapico, ma alle cellule tumorali disseminate a distanza nell'organismo (metastasi). Salvo qualche fortunata eccezione, le metastasi non possono essere eliminate radicalmente con la chemioterapia giacché la citotossicità dei farmaci antiblastici attualmente disponibili è piuttosto aspecifica e le dosi necessarie per distruggere completamente le cellule tumorali disseminate risulterebbero letali anche per l'ospite. Gli ostacoli che si frappongono a un soddisfacente trattamento delle metastasi giustificano l'interesse con cui, considerata la stretta specificità delle reazioni immunitarie, si guarda al campo dell'immunologia, anche se, allo stato attuale delle ricerche, l'immunoterapia dei t. dell'uomo costituisce più una speranza che una realtà. Gli esperimenti sugli animali hanno chiaramente dimostrato che anche per distruggere un piccolo numero di cellule tumorali è necessaria una reazione immunologica molto potente qual è difficile ottenere, senza particolari interventi, nei confronti dei t. autoctoni (v. sopra). Al momento attuale la prospettiva meno remota per l'immunoterapia è quella di una sua efficacia come trattamento aggiuntivo per distruggere una popolazione neoplastica già ridotta al minimo da altre forme di terapia (chirurgica, radioterapica o chemioterapica). Considerato che sia la radioterapia sia la chemioterapia (e in alcuni casi, come in quello dei cortisonici, anche l'endocrinoterapia) hanno un effetto immunosoppressore, e tenuto conto del fatto che la stessa presenza del t. può deprimere le capacità di risposta immunologica del portatore, ogni tentativo di stimolare specificamente o aspecificamente il sistema immunitario dell'ospite può essere giustificato, a condizione che esso: a) non comporti rischi per il paziente (non si dimentichi che un certo tipo di reazione immunologica può addirittura facilitare la crescita del t.); b) non faccia ritardare o escludere altri interventi di provata efficacia; c) venga eseguito in centri qualificati e non seguendo l'"intuito" di terapeuti più o meno disinteressati e, soprattutto, d) venga fatto nell'interesse del paziente. In pochi altri campi come in quello della terapia dei t. suonano opportune le parole di lord R. Platt (Medical science: master or servant, 1967): "La vera differenza fra medicina e scienza non è una questione di metodo né la consapevolezza che l'uomo è qualcosa più di una macchina. È una questione di scopi. Lo scopo del vero scienziato è la scoperta; lo scopo del medico è quello di pianificare il programma di trattamento che egli ritiene di massimo vantaggio per l'individuo (ammalato). Gli scopi sono innegabilmente diversi; fortunatamente non sono sempre in contrasto".
Bibl.: Unio Internationalis Contra Cancrum, Illustrated tumor nomenclature, Berlino, Heidelberg, New York 1965; M. J. Cline, Cancer chemioterapy, in Major problems internal medicine, vol. 1°, Philadelphia, Londra, Toronto 1971; K. E. Halnan, Rec. adv. in cancer and radiotherapeutics: clinical oncology, Edimburgo, Londra 1972; P. Bucalossi, U. Veronesi e altri, Trattato di oncologia clinica, 3 voll., Milano 1973; Cancer Medicine (a cura di J. F. Holland, E. Frey), Philadelphia 1973; Clinical cancer chemiotherapy (a cura di E.M. Greenspan), New York 1975; Cancer (A comprehensive treatise) (a cura di F. F. Becker), 6 voll., New York, Londra 1975-77; Scientific foundations of oncology (a cura di T. Symington, R. L. Carter), Londra 1976. Opere a carattere continuativo che si consigliano: Annual symposia on fundamental cancer research, Austin (dal 1947); Advances in cancer research, New York (dal 1953); Progress in experimental tumor research, Basilea, New York (dal 1960).
Radioterapia.
Il processo di rinnovamento delle apparecchiature di radioterapia già in atto negli anni precedenti si è ulteriormente sviluppato. Inoltre molti dei concetti di base della radiobiologia, la scienza su cui si fonda l'impiego terapeutico delle radiazioni, si sono modificati.
Le sorgenti di radiazioni fotoniche di energia relativamente bassa, fino a 300-400 keVp sono state generalmente sostituite da apparecchiature emittenti radiazioni di energia elevata. Si è assistito cosi alla scomparsa degli apparecchi per roentgenterapia statica e cinetica (v. radiologia, in App. III, 11, p. 566) mentre sono diventate di uso pressoché universale le unità per teleterapia utilizzanti sorgenti sigillate di radioisotopi, soprattutto 60Co e in grado minore 137Cs. Accanto ad esse si fanno sempre più numerosi gli acceleratori lineari e circolari di elettroni, capaci di produrre fasci collimati di fotoni sino a 40 MeV o di elettroni di energia corrispondente.
La grande diffusione delle apparecchiature con radioisotopi trova una ragione di essere nella qualità dei fasci di fotoni emessi ma, soprattutto, in motivi di ordine economico. Una buona unità per telegammaterapia con 60Co costa meno di un acceleratore elettronico il quale però produce fasci di fotoni dotati di caratteristiche fisico-geometriche migliori. Il futuro vedrà certo progressivamente sostituire le apparecchiature per telegammaterapia con macchine acceleratrici.
Nello stesso tempo i fasci di elettroni di elevata energia, sino a 40 MeV, prodotti da acceleratori elettronici, soprattutto betatroni, acceleratori lineari, microtroni, hanno trovato un largo impiego e coprono circa il 30% delle indicazioni alla radioterapia oncologica. È apparso evidente, sulla base delle esperienze compiute, che gli elettroni in radioterapia oncologica non posseggono peculiari attività biologiche, ma consentono la soluzione di molti problemi clinici in maniera migliore rispetto alle radiazioni fotoniche.
La notevole estensione dell'impiego delle radiazioni di alta energia e soprattutto l'uso estensivo degli elettroni ha fatto sollevare complessi problemi di ordine tecnico soprattutto per quanto riguarda il controllo dosimetrico dell'esecuzione della radioterapia: gli strumenti in uso per i fotoni emessi dalle apparecchiature sino a 300-400 keVp non erano adatti a misurare le dosi da elettroni e neppure le dosi da fotoni di energia elevata.
Nel frattempo le conoscenze di radiobiologia e soprattutto lo sviluppo della radiobiologia quantitativa hanno consentito una revisione dei concetti informatori della radioterapia. Oggi è noto che ciò che differenzia la risposta di tessuti sani o neoplastici all'irradiazione non è una diversa radiosensibilità, postulata in passato; in realtà tessuti sani e tessuti neoplastici differiscono solo per dati di cinetica cellulare. Gli studi di radiobiologia hanno fornito una base quantitativa alla radioterapia clinica e hanno reso ragione di certi insuccessi.
La radioterapia a fascio collimato, utilizzante cioè fasci di fotoni ed elettroni prodotti da sorgenti poste all'esterno dell'organismo, è integrata anche ai nostri giorni dalla curieterapia o brachiterapia. Secondo questa tecnica le sorgenti di radiazioni, quasi sempre fotoniche, sono messe nell'immediata vicinanza della parte malata o addirittura entro di essa come nella curieterapia interstiziale. Le tecniche alle quali si fa riferimento erano ovviamente già note, ma attualmente il radio, in pratica l'unica sostanza radioattiva di largo impiego in passato, si vede progressivamente sostituito da sostanze radioattive artificiali delle quali la più nota è l'iridio 192 (192Ir), utilizzato sotto forma di sottili fili rivestiti di platino. Il 192Ir e il 137Cs possono essere utilizzati secondo tecniche moderne di curieterapia denominate, con termine anglosassone, di after loading o remote loading. In queste tecniche il paziente viene sottoposto a un tempo chirurgico preoperatorio mediante strumenti non radioattivi. Le sostanze radioattive alle quali sarà affidato il trattamento vengono poi inserite nel paziente o manualmente (after loading) o a mezzo di dispositivi telecomandati (remote loading) ed esplicano la loro attività.
Gli sviluppi futuri della radioterapia riguardano le possibilità d'impiego di particelle ad alto LET quali i neutroni e i mesoni π negativi. I neutroni sono di più facile produzione e per essi esistono già esperienze cliniche nell'uomo. I mesoni π negativi hanno proprietà particolari ma il loro impiego in teoria molto promettente appare allontanato nel tempo dalle grandi difficoltà tecniche di produzione di fasci collimati.
Le particelle ad alto LET hanno la possibilità di esplicare un effetto letale sulle popolazioni neoplastiche tumorali senza essere influenzate dalla presenza o dall'assenza dell'ossigeno nell'ambito del volume irradiato. In altre parole le particelle ad alto LET possono produrre sulle cellule anossiche un danno pari a quello che si verifica a livello di cellule ossigenate. I fotoni e gli elettroni invece provocano, sulle cellule anossiche, un danno 3 volte inferiore, a parità di dose. Questo solo punto già di per sé costituisce grande speranza di progresso anche nel campo clinico nell'impiego di neutroni.
V. anche radiobiologia, in App. III, 11, p. 550 e in questa App.; radioprotezione, in questa Appendice.
Bibl.: Atti dei colloqui dell'Istituto del Radio "O. Alberti" degli Spedali Civili, Brescia 11-15 novembre 1974, Civitavecchia 1975; L. Magno, Il progresso delle apparecchiature per Radioterapia, in Radiazioni di alta energia (Roma), XI (1972), fasc. 1, pp. 3-9.