Tumori e cancro
Basi molecolari dell'oncologia
L'era postgenomica: dalla ricerca di base, alla diagnosi, alla cura
A partire dalla metà degli anni Ottanta del 20° sec., gli studi di biologia molecolare applicati all'oncologia hanno inequivocabilmente dimostrato che i tumori sono malattie causate dall'accumulo di molteplici alterazioni geniche all'interno di una singola cellula del nostro organismo. Un tumore può impiegare anche molti anni prima di diventare clinicamente evidente. Il processo tumorale inizia nei circa 35.000 geni contenuti nel DNA delle cellule, i quali sono responsabili dei meccanismi di regolazione di tutti i processi biologici e metabolici che avvengono nel corpo umano. Alcuni fattori esterni (per es., il fumo di sigaretta o una dieta ricca di grassi ecc.) possono danneggiare il DNA, generando una mutazione, la quale, se singola, può essere comunque riparata dalla cellula. Se, però, nel corso della vita un individuo accumula numerose mutazioni, allora il meccanismo di riparazione può fallire, dando inizio al processo di trasformazione neoplastica. La sfida nata da queste conoscenze è stata quella di approntare strumenti idonei per riparare i geni alterati e i danni biologici da loro determinati. Questa fase della ricerca, il cui compito è quello di riconoscere quali siano i più importanti fra i geni alterati, capirne la funzione e ricostruire il processo (percorsi biochimici) che ha causato la trasformazione neoplastica, può essere riassunta con la locuzione era della ricerca oncologica postgenomica. Dalla metà degli anni Novanta del 20° sec., molteplici studi sono stati condotti per descrivere in modo sistematico le caratteristiche genetiche dei tumori (genotipo) e per identificare le molteplici alterazioni geniche dei diversi tipi di tumore. La maggior parte degli studi è stata indirizzata alla comprensione dell'attività delle due classi di geni che caratterizzano i tumori: oncogeni e antioncogeni. Gli oncogeni sono geni che, se attivati, inviano alla cellula l'ordine di riprodurre sé stessa all'infinito, cioè di non invecchiare e di non morire, trasformandola così da normale in tumorale. Questi geni oncogeni possono essere attivati da molteplici fattori, sia endogeni (alterazioni geniche casuali sopravvenute nel corso della vita), sia esogeni (agenti cancerogeni, radiazioni, sostanze chimiche, fumo di sigaretta, asbesto, virus e così via). Quando intervengono delle mutazioni - cambiamenti della sequenza del DNA - a carico di questi geni, la crescita delle cellule non viene più regolata correttamente e può quindi dar luogo a un cancro che è, appunto, una divisione incontrollata di cellule. Le mutazioni che avvengono nella sequenza del DNA degli oncogeni sono dominanti: basta infatti che una sola delle due copie che possediamo (ogni gene è presente in doppia copia in ogni cellula) sia mutata perché la cellula sia stimolata a crescere in maniera incontrollata.
Gli antioncogeni, invece, sono geni che in condizioni di normalità sopprimono la formazione di tumori e perciò sono anche chiamati geni oncosoppressori. In condizioni di normalità, i geni oncosoppressori proteggono dai tumori, e prevengono così la crescita incontrollata delle cellule. Alterazioni di natura genetica a carico dei geni oncosoppressori impediscono il corretto funzionamento cellulare e possono portare allo sviluppo del cancro. In questo caso si parla di mutazioni recessive: vale a dire che è necessario che tutte e due le copie di quel gene siano mutate. Fin dalla nascita alcuni individui possono avere una copia 'sbagliata' di un gene oncosoppressore: questi soggetti hanno quindi una probabilità più alta - ma non in verità la certezza - rispetto alla popolazione generale, di sviluppare un certo tipo di cancro. Uno dei geni oncosoppressori più frequentemente alterato nei tumori è il gene p53. Circa il 50% dei tumori umani sfugge al controllo dei meccanismi di sorveglianza della proliferazione (differenziamento, invecchiamento, morte) a causa di mutazioni di p53.
Gli studi condotti al fine di comprendere il funzionamento dei geni oncogeni e di quelli oncosoppressori hanno evidenziato come la corretta regolazione dei processi molecolari che sono preposti alla duplicazione, differenziamento e morte cellulare, siano essenziali per impedire la formazione dei tumori. Le cellule normali che non presentano alterazioni di oncogeni e oncosoppressori vanno infatti incontro a differenziamento per adattarsi ai diversi tessuti dell'ospite, e di conseguenza, dopo un periodo di vita definito, invecchiano (senescenza) e muoiono (necrosi, apoptosi). Le cellule cancerose, invece, a seguito di alterazioni a carico dei geni oncosoppressori, perdono la capacità di regolare correttamente i processi di differenziamento, senescenza e morte cellulare, acquisendo la capacità di proliferare indefinitamente. Gli studi per comprendere il funzionamento dei geni oncogeni e oncosoppressori e i meccanismi molecolari sottesi alla loro attività hanno aperto dei nuovi orizzonti di ricerca per ldi nuove terapie biologiche mirate alla cura del singolo paziente.
La ricerca dei meccanismi molecolari responsabili della genesi e dello sviluppo delle cellule tumorali, e la definizione del ruolo che in questo processo possono svolgere gli oncogeni e gli oncosoppressori e le loro mutazioni, hanno tratto grandi vantaggi dalla decifrazione del genoma umano. Conoscere, infatti, l'architettura del genoma umano e avere la possibilità di identificare correttamente i circa 35.000 geni che lo compongono consente di decifrare nei diversi tipi di tumore le basi genetiche della malattia cancro. Con lo studio delle alterazioni geniche nelle diverse neoplasie si è sviluppata la nuova diagnostica molecolare applicata sia ai tumori la cui patogenesi si basa su una predisposizione genetica (tumori ereditari), sia a tutti gli altri tumori denominati sporadici. Nel caso dei tumori ereditari (circa il 5-8%) i nuovi test genetici contribuiscono ad attualizzare le stime di rischio e aiutano a individuare tra i familiari i portatori del difetto genetico (individui eterozigoti: coloro che presentano l'alterazione di un solo allele del gene che predispone alla formazione di tumore), risparmiando ai non portatori (individui omozigoti: i due alleli del gene non sono alterati) inutili e costose indagini cliniche. Nel caso dei tumori sporadici gli studi hanno evidenziato che: a) una singola mutazione è insufficiente a determinare la formazione di un tumore; b) solo la concomitanza di successive e diverse alterazioni geniche è responsabile della formazione di un tumore; c) il tipo di geni alterati e la successione temporale delle diverse alterazioni (mutazioni) a carico dei diversi geni coinvolti nel processo tumorale sono diversi da tumore a tumore; d) il percorso molecolare per cui una cellula, attraverso una sequenza di mutazioni a carico di geni diversi, va incontro alla trasformazione neoplastica è assolutamente unico e diverso per ogni tumore. Nel caso dei tumori sporadici, la diagnostica molecolare ha consentito l'affermarsi del concetto che sotto l'etichetta di una definizione su base istomorfologica di una neoplasia (per es., il carcinoma della mammella) si celano in realtà malattie diverse che riflettono le diverse alterazioni geniche e quindi i diversi meccanismi molecolari responsabili della loro insorgenza. Il dopo genoma ci propone, così, un approccio al problema cancro centrato su una diagnostica molecolare con test genetici, una classificazione molecolare delle neoplasie e una terapia sempre più basata sulla conoscenza dei meccanismi molecolari che hanno segnato la genesi del singolo tumore, quasi la sua firma molecolare. Da sempre i clinici si sono chiesti come fosse possibile che tumori apparentemente identici rispondessero in modo completamente diverso allo stesso trattamento. Le conoscenze acquisite hanno spiegato che, al di là di un'apparente identità morfologica, tumori diversi rispondono in modo diverso perché sono il risultato di un diverso percorso molecolare. Quindi, attraverso un'adeguata classificazione molecolare si potrà, e in parte già si può, predire la risposta di un tumore a un determinato trattamento risparmiando inutili tossicità. Le conoscenze acquisite sui meccanismi molecolari responsabili della formazione dei tumori hanno completamente destrutturato il concetto di terapia basata sul tipo tumorale, sostituendola con l'idea di una terapia che si fonda sul meccanismo molecolare responsabile di quel tumore. Gli studi di postgenomica permettono di scoprire le cosiddette 'spie' genetiche dei vari tumori, rendendo possibile identificare per un determinato paziente il tipo di cura più appropriato con una elevata precisione d'intervento e di previsione dei risultati. Esempi in tal senso sono già disponibili a seguito dell'individuazione di farmaci, cosiddetti intelligenti, disegnati allo scopo di correggere meccanismi molecolari specificamente alterati in alcune neoplasie (v. oltre: Nuovi farmaci antitumorali non-chemioterapici). L'approccio per una terapia integrata dei tumori basata sulle conoscenze molecolari richiede uno sforzo tecnologico rilevante reso, peraltro, possibile dall'avvento delle nanotecnologie. A seguito dei progressi effettuati in svariati settori tecnologici (biologia molecolare, elettronica, immagini, robotica, informatica, ottica), le nanotecnologie forniscono infatti gli strumenti per analizzare la presenza dei geni e dei loro prodotti proteici in ogni tumore attraverso la deposizione di un numero elevatissimo di campioni biologici in piccole superfici e l'analisi di questi campioni con altrettanto numerose sonde biologiche. Guardando lontano, quindi, le nuove conoscenze molecolari dell'era postgenomica permetteranno di attuare ulteriori miglioramenti significativi per le diagnosi, prognosi e cura dei tumori.
Basi ereditarie della suscettibilità allo sviluppo dei tumori
Il cancro può avere cause genetiche che dipendono da alterazioni del DNA ereditate dai genitori. Chi fin dalla nascita possiede nelle sue cellule mutazioni a rischio perché le ha ereditate dai genitori avrà maggiori probabilità di ammalarsi in età giovane. La valutazione del rischio di cancro basata sulla storia familiare e la discussione sulle possibilità di prevenzione del cancro sono aspetti fondamentali dell'oncologia preventiva. In alcuni casi l'analisi basata sul DNA può essere un aiuto nell'analisi di rischio del cancro. Poiché i test genetici sollevano molte questioni mediche, sociali, psicologiche ed etiche nei pazienti e nelle loro famiglie, è essenziale quindi che questi problemi vengano affrontati, in maniera approfondita, prima e dopo i test che valutano l'eventuale predisposizione al cancro. I test genetici sono messi a disposizione di un gruppo selezionato di pazienti come parte dell'assistenza preventiva per le famiglie. Infatti, nonostante i rapidi passi avanti della ricerca nel campo della genetica del cancro, nessuno dei test disponibili per la suscettibilità al cancro è appropriato per lo screening di persone asintomatiche nella popolazione generale. Nell'ambito delle sindromi di suscettibilità a una neoplasia ben definita, l'individuazione di una mutazione in un membro della famiglia può essere comunque utilizzata come base nel test per gli altri membri della stessa famiglia. Oltre duecento alterazioni geniche risultano in correlazione con lo sviluppo di neoplasie ereditarie.
Avanzamenti tecnologici nella diagnosi e prognosi oncologica
I maggiori progressi nella diagnosi e prognosi dei tumori derivano, oltre che dalle conoscenze molecolari, dalle nuove tecniche di visualizzazione dei tumori all'interno dell'organismo. Di seguito sono descritte le principali innovazioni nell'ambito dell'endoscopia e della medicina nucleare, a partire dalla fine del 20° secolo.
Endoscopia
L'endoscopia è una tecnica diagnostica che permette, mediante l'utilizzo di specifiche apparecchiature dette endoscopi, di esplorare visivamente l'interno di alcuni organi e di alcune cavità del corpo umano e prelevare, con appositi strumenti, frammenti di tessuto da sottoporre a esame istologico, con possibilità di asportazione mirata sulla lesione in esame. L'espandersi delle indicazioni chirurgiche trattabili per via endoscopica ha dato origine a una nuova branca della medicina detta endoscopia interventistica o terapeutica. Un esempio di queste nuove tecnologie dedicate a un miglioramento della diagnosi dei tumori è stato messo a punto anche in Italia. Questo strumento diagnostico endoscopico innovativo permette di osservare eventuali alterazioni negli organi tramite una videocamera incorporata in una capsula di forma cilindrica che, dopo essere stata inghiottita dal paziente, è in grado di inviare immagini dell'apparato digerente e dell'intestino tenue utili per la diagnosi di patologie, come polipi e neoplasie. La capsula viene poi eliminata, ormai inattiva, entro le 24 ore dall'assunzione, attraverso le feci. La capsula è costituita da una minitelecamera per effettuare le riprese, da batterie miniaturizzate che le conferiscono un'autonomia di circa 6-8 ore e da quattro faretti per illuminare le cavità da riprendere. La minitelecamera trasmette le immagini a una rete di sensori fissati sull'addome e collegati a un miniregistratore, che capta e conserva tutti i segnali trasmessi dalla capsula. Questi stessi dati vengono poi elaborati da un computer e trasformati in immagini anatomiche. La capsula si rivela particolarmente utile per effettuare l'analisi dell'intestino tenue, che i tradizionali strumenti endoscopici, come la colonscopia e la gastroscopia, non riescono a raggiungere, anche se non può sostituire gli strumenti endoscopici classici, che consentono di effettuare biopsie e piccoli interventi chirurgici durante l'esame diagnostico.
La medicina nucleare
La medicina nucleare è una scienza multidisciplinare per lo sviluppo delle cui applicazioni è necessario il contributo di medici, fisici, chimici, biologi, matematici, specialisti di informatica e ingegneri, e richiede conoscenze specifiche nei settori della fisiologia, fisiopatologia, biologia molecolare, chimica, fisica e matematica. La medicina nucleare ha acquistato nel tempo una rilevanza sempre maggiore in oncologia per le sue applicazioni alla diagnosi, prognosi e terapia dei tumori. L'innovazione tecnologica più rilevante, che ha consentito un sostanziale miglioramento della diagnosi dei tumori, è costituita dalla PET-TAC, nuovo strumento diagnostico nato dalla fusione di PET (Positron Emission Tomography) e TAC (tomografia assiale computerizzata). La prima (PET) è basata sulla somministrazione per via endovenosa al paziente di molecole marcate con radioisotopi che emettono positroni, tra le quali la più utilizzata è il fluoro-desossi-glucosio (18F-FDG), un analogo del glucosio che è captato dalle cellule tumorali, consentendo l'acquisizione di immagini che individuano processi biochimici e funzioni biologiche attive nelle lesioni tumorali. La PET è quindi in grado di evidenziare i tumori e le metastasi. La TAC, eseguita congiuntamente, permette di localizzare con estrema precisione la sede (o le sedi) delle lesioni. La disponibilità di analisi congiunte PET-TAC consente dunque di ottenere attraverso un'unica indagine diagnostica il dato funzionale e l'immagine anatomica corrispondente, perfettamente sovrapponibili e senza possibilità di errore di localizzazione, dal momento che le due indagini sono eseguite contemporaneamente e automaticamente coregistrate, cioè messe in esatta corrispondenza spaziale. La corretta localizzazione della sede della malattia attuata attraverso l'indagine PET-TAC è estremamente rilevante non solo per la diagnostica, ma anche per effettuare prelievi bioptici mirati e anche per fornire i dati necessari all'ottimizzazione della distribuzione della dose di radiazioni. Oltre alle applicazioni in campo diagnostico la PET-TAC sta diventando una risorsa molto importante anche per il miglioramento della prognosi nel trattamento dei tumori. Infatti, essa viene utilizzata per seguire la distribuzione e l'assorbimento di un farmaco dopo la sua somministrazione, riuscendone a valutare la possibile efficacia. Così la PET-TAC è una delle indagini di diagnostica per immagini più sensibile e specifica in oncologia.
Moderni aspetti nella terapia dei tumori
Diverse branche dell'oncologia hanno contribuito allo sviluppo e all'avanzamento di nuove terapie oncologiche. Di seguito vengono riportate le principali innovazioni terapeutiche nell'ambito dei trattamenti farmacologici, radioterapici e chirurgici.
Nuovi farmaci antitumorali non-chemioterapici
La cura delle neoplasie maligne è ancora largamente basata sull'impiego di farmaci chemioterapici citotossici, la cui azione mira direttamente a danneggiare il DNA oppure a inibire la duplicazione cellulare provocando la morte in maniera aspecifica sia delle cellule tumorali sia delle cellule normali che sono in fase di replicazione. La mancanza di specificità d'azione dei chemioterapici è alla base della considerevole tossicità che segue alla loro somministrazione e che si manifesta con mielosoppressione, mucosite, alopecia, astenia, alterazioni delle funzioni cardiache, di quelle neurologiche, renali e gastroenteriche. Questo bagaglio di effetti indesiderati non risulta sempre controbilanciato da una soddisfacente remissione della malattia neoplastica, soprattutto nei tumori solidi in fase avanzata che rimangono spesso incurabili con limitate possibilità di sopravvivenza a lungo termine. Gli strumenti utilizzati per ottenere la mappa del genoma umano, e la disponibilità delle conoscenze così acquisite, hanno consentito di avviare nuovi approcci per lo studio dei tumori, e hanno aperto la strada a una nuova disciplina scientifica: l'oncogenomica. Uno degli obiettivi della nuova disciplina è riuscire a ottenere una mappa del 'malfunzionamento' genico dei singoli tumori, intendendo per malfunzionamento l'insieme delle alterazioni geniche e dei difetti di funzione riscontrabili per i segnali errati generati da queste alterazioni. La conoscenza delle alterazioni geniche e degli errori conseguenti può consentire, infatti, di identificare le molecole responsabili e quindi i possibili bersagli biologici di terapie antitumorali mirate. L'identificazione nei singoli tumori di bersagli molecolari specifici permette lo sviluppo dei nuovi farmaci intelligenti, capaci di colpire in modo selettivo le cellule tumorali portatrici di quel determinato difetto e di risparmiare le cellule dei tessuti sani prive dello stesso difetto. La nuova disciplina che si occupa di come sviluppare questi farmaci è denominata farmacogenomica: essa descrive la possibilità di confezionare farmaci biologici su misura per i malati, la cui risposta individuale può essere prevista attraverso l'analisi del genoma del paziente. Se l'oncogenomica fornisce indicazioni corrette relativamente ai bersagli identificati e la farmacogenomica sviluppa farmaci veramente specifici per i bersagli tumorali, allora i trattamenti antitumorali colpiranno in modo selettivo solo le cellule tumorali, con pochi o nessun effetto collaterale per le cellule sane. I malati di cancro che affrontano una terapia così studiata dovrebbero ottenere, inoltre, una migliore conoscenza della propria malattia e quindi una prognosi più accurata. Gli studi in questo senso sono già stati condotti dalla comunità scientifica internazionale e alcuni risultati rilevanti sono stati già conseguiti. Sono in corso una serie di studi clinici volti a definire la capacità terapeutica dei farmaci biologici sviluppati per un trattamento mirato delle neoplasie. Se questa è certamente una grande conquista della ricerca postgenomica, va anche detto che proprio l'introduzione nella pratica clinica di farmaci antitumorali di tipo biologico ha ancor meglio evidenziato la capacità dei tumori di sviluppare una resistenza specifica ai farmaci attraverso l'acquisizione di nuove alterazioni geniche, le cosiddette mutazioni adattative, utili cioè al tumore per sfuggire alla morte indotta dai farmaci. A questo capitolo vanno anche ascritte molte delle mutazioni evolutive multiple spesso identificate nei geni oncogeni e oncosoppressori che sovente sono causa di una peggiore prognosi dei tumori umani. I recettori per i fattori di crescita e quelli per le vie di segnalazione intracellulare rappresentano il bersaglio della maggior parte dei nuovi farmaci antineoplastici.
Lo spettro d'azione di questi nuovi farmaci è però limitato a quei particolari sottogruppi di neoplasie che al di là del fenotipo istologico presentano le stesse alterazioni molecolari. Di seguito sono descritti brevemente i principali farmaci biologici inseriti in terapia e sono riportati anche i risultati ottenuti dopo il trattamento delle diverse patologie tumorali.
Farmaci antitumorali inibitori delle proteine della famiglia del recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR). - Il recettore del fattore di crescita dell'epidermide o EGFR (Epidermal Growth Factor Receptor) fa parte di un'ampia famiglia di recettori espressi sulla superficie cellulare. Questi recettori, qualora stimolati da fattori di crescita, sono responsabili dell'attivazione di una serie di segnali intracellulari che portano a crescita, a replicazione e a differenziamento cellulare. In condizioni fisiologiche, l'attivazione del segnale di proliferazione cellulare generato dall'EGFR avviene soltanto in determinate fasi dello sviluppo e in determinati organi, essendo la sua attivazione sottoposta a un rigorosissimo controllo. Al contrario, nelle cellule neoplastiche, il controllo dell'attivazione del recettore è assente e in aggiunta lo stesso recettore è espresso in quantità più elevata che nelle cellule normali. La carenza di controllo e la sua maggiore espressione sulla superficie cellulare permettono che il recettore si autoattivi in modo indipendente e generi autonomamente la cascata di eventi molecolari che porta alla proliferazione cellulare indefinita anche in tessuti lontani da quelli d'origine (metastasi). Alcuni tipi di cancro, (polmone, prostata, colon-retto, ovaio, distretto cervico-facciale) esprimono elevati livelli di EGFR e l'elevata espressione del recettore correla con un'elevata capacità del tumore di formare metastasi. Queste informazioni hanno stimolato numerosi studi volti a identificare nei tumori umani le alterazioni funzionali e di espressione dei recettori della famiglia dell'EGFR. L'individuazione di queste alterazioni molecolari, come potenziali bersagli terapeutici, ha fornito il razionale per sviluppare farmaci biologici innovativi volti a bloccare l'attività di EGFR. Diverse molecole hanno mostrato benefici effetti in termini di sopravvivenza in soggetti colpiti da diversi tipi di tumore, fra queste ricordiamo l'erlotinib, il gefitinib, il cetuximab e il trastuzumab.
Farmaci antitumorali inibitori di molecole diverse dall'EGFR. - Sono stati sviluppati molti farmaci biologici in grado di inibire l'attività di molecole-chiave nella trasformazione neoplastica; tra questi, un farmaco biologico che agisce bloccando l'attività di alcune molecole responsabili della proliferazione cellulare: a) la proteina di fusione Bcr-Abl presente esclusivamente nelle cellule di leucemia mieloide cronica (LMC); b) il prodotto del gene c-kit che codifica per un recettore presente sulla superficie cellulare implicato in diversi processi tumorigenici; c) il recettore per il fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR). Sono stati riportati risultati positivi dell'impiego di questo farmaco nel trattamento di pazienti con sarcomi del tratto gastroenterico (GIST).
Inibitori della farnesil transferasi. - I geni della famiglia ras (H-ras, K-ras, N-ras) sono funzionalmente attivi nelle cellule normali e codificano per proteine che sono capaci di indirizzare la cellula verso la proliferazione. In circa il 30% dei tumori solidi sono rilevabili delle mutazioni a carico dei geni appartenenti alla famiglia ras. Le mutazioni fanno sì che queste stesse molecole siano più attive e consentano una proliferazione sregolata delle cellule tumorali. Dal momento che il processo di farnesilazione risulta fondamentale per l'attività delle oncoproteine ras, l'inibizione specifica dell'enzima farnesil transferasi è stata individuata come una strategia terapeutica potenzialmente utile nei tumori con mutazioni dei geni ras. Studi clinici hanno mostrato un'elevata efficacia antitumorale e una scarsa tossicità del farmaco.
Inibitori del proteosoma. - Tali farmaci inibiscono in modo reversibile l'attività proteolitica del proteosoma. Il proteosoma è un complesso enzimatico ubiquitario che degrada le proteine ubiquitinate. L'inibizione del proteosoma altera i meccanismi normali di omeostasi, portando così alla morte cellulare. L'inibizione del proteosoma è stata proposta come terapia mirata nel trattamento dei tumori ematologici, pancreatici e dei tumori della prostata.
Farmaci ad attività antiangiogenica. - Il VEGF (Vascular Endotelial Growth Factor) è una proteina coinvolta nell'angiogenesi tumorale. Legando il VEGF, il farmaco interferisce con il processo di sviluppo di nuovi vasi, i quali permettono al tumore di crescere. Alcuni studi dimostrano che queste molecolesono in possesso di una attività clinica promettente nel carcinoma colorettale metastatico.
Inibitori delle istone deacetilasi. - Gli inibitori delle istone deacetilasi sono composti chimici in grado di inibire l'attività enzimatica degli enzimi istone deacetilasi. Questi sono enzimi cellulari che regolano l'espressione genica, la replicazione del DNA e la stabilità del genoma, e la loro funzione è frequentemente alterata nei tumori. Gli inibitori degli enzimi istone deacetilasi costituiscono un nuovo tipo di farmaco intelligente. I farmaci biologici descritti finora, infatti, agiscono sulla causa iniziale, che risulta diversa da tumore a tumore, e quindi il loro uso è ristretto a pochi tipi di tumore. Invece, farmaci rivolti a inibire l'attività degli enzimi istone deacetilasi sono rivolti a tutti i tipi di tumore, perché la caratteristica della cellula tumorale è proprio quella di possedere una sregolata attivazione dell'espressione genica e dei processi concomitanti.
Farmacoresistenza delle cellule tumorali
La farmacoresistenza o la capacità delle cellule tumorali di attivare efficaci meccanismi di difesa nei confronti degli agenti citotossici, sia chimici sia fisici, rappresenta la causa principale del fallimento del trattamento chemioterapico. Il fenomeno si può manifestare già all'inizio del trattamento (resistenza intrinseca) oppure insorgere successivamente (resistenza acquisita). Esistono diversi meccanismi di resistenza ai farmaci antitumorali fra cui cambiamenti nell'assorbimento del farmaco oppure nella sua escrezione attraverso la membrana cellulare. Questo meccanismo è associato alla resistenza definita classicamente MDR (Multidrug Resistance). Il gene mdr-1 codifica per la proteina P-170 un membro della superfamiglia di proteine trasportatrici conosciute come ATP binding cassette (ABC) transporter. Queste proteine si legano direttamente ai composti citotossici e riducono l'accumulo intracellulare del farmaco. Il fenotipo MDR si caratterizza per una resistenza a farmaci causata dalla iperespressione di questa proteina. Altri tipi di farmacoresistenza sono dovuti ad alterazioni quantitative o alterazioni qualitative del bersaglio intracellulare. Una sostanziale modificazione dell'espressione della proteina bersaglio oppure una sua mutazione, che causa una ridotta interazione con il farmaco, possono risultare responsabili di insensibilità a farmaci bersaglio-specifici. Nel caso dei farmaci che inducono danno al DNA, mutazioni degli enzimi che partecipano ai processi di riparazione del DNA, alla segnalazione del danno o nei processi regolatori che controllano l'attivazione dell'apoptosi possono determinare insensibilità a numerosi farmaci. L'insensibilità a stimoli proapoptotici può essere dovuta a specifiche alterazioni (quali mutazioni del gene oncosoppressore p53) o ad aumentata espressione di fattori antiapoptotici. Così, vari difetti nei meccanismi che controllano il processo di morte cellulare riducono la suscettibilità cellulare all'apoptosi e rappresentano presumibilmente la base cellulare della resistenza intrinseca di molti tipi tumorali. La comprensione dei meccanismi di resistenza ha fornito le basi razionali per nuovi approcci di potenziale interesse terapeutico nel tentativo di migliorare l'efficacia delle terapie convenzionali.
Radioterapia
Radioterapia stereotassica
Le tecniche radioterapiche convenzionali sono state implementate se non addirittura soppiantate dalla moderna radioterapia basata sulla stereotassia. Il principio della radioterapia sterotassica è la somministrazione precisa di elevate dosi di radiazione al cancro senza però danneggiare i tessuti circostanti sani. Questo principio è di grande importanza poiché dosi più elevate significano migliori tassi di controllo del cancro nell'area irradiata. Inoltre, grazie all'estrema precisione della radioterapia stereotassica, si evitano radiazioni che non sono necessarie ai tessuti sani. L'estrema precisione della metodica è dovuta alla mappatura dell'organo da irradiare condotta con i sistemi di imaging a disposizione. Il paziente viene perciò sottoposto a TAC, risonanza magnetica nucleare (RMN) e PET. Le immagini ottenute con queste metodiche vengono sovrapposte e devono corrispondere esattamente. Ottenuta questa mappa, si studia il bersaglio e la traiettoria che le radiazioni dovranno percorrere. Un programma informatico tradurrà le immagini in una dimensione tridimensionale, indispensabile per guidare la mano del radioterapista. La radioterapia stereotassica è applicabile a tutti i tipi di tumore (primari o metastatici) in tutti i distretti corporei. Un largo spettro di tipi diversi di cancro, inclusi gli adenocarcinomi, i carcinomi squamosi, i tumori del polmone,i tumori del seno, i tumori delle cellule germinali, i tumori del pancreas, i tumori del colon, i sarcomi e infine i melanomi, sono stati trattati con successo. In caso di lesioni di grosse dimensioni è utilizzata la radioterapia stereotassica frazionata. Questa metodica consiste nel frazionare una più elevata dose totale di radiazioni, riducendo tuttavia la quantità di dose assorbita in ciascuna seduta dai tessuti sani. La radioterapia stereotassica frazionata coniuga il vantaggio dell'elevata selettività dell'irradiazione stereotassica con il favorevole meccanismo radiobiologico del frazionamento della dose nel tempo, raggiungendo, anche in virtù di questa modalità, un successo terapeutico molto elevato con minore tossicità acuta per i tessuti sani.
Radiochirurgia
Per radiochirurgia s'intende l'irradiazione con un'alta dose di una piccola e ben definita area patologica che viene identificata con metodo stereotassico. Si parla di radiochirurgia quando la radioterapia stereotassica viene utilizzata per il trattamento di lesioni non superiori ai 40 mm di diametro. Il fascio di radiazioni agisce come un bisturi, con precisione millimetrica, causando la necrosi dell'intera lesione. In analogia a quanto è attuato in radioterapia stereotassica per lesioni di maggiore dimensioni, anche in questo caso risulta possibile somministrare delle dosi molto elevate in un numero limitato di sedute (radiochirurgia stereotassica frazionata), riuscendo a somministrare sempre dosi minime ai tessuti sani. La radiochirurgia, come pure la radioterapia stereotassica, è applicata a una vasta gamma di patologie cerebrali e non cerebrali. La radiochirurgia stereotassica corporea può rappresentare una terapia alternativa a una chirurgia o un'ulteriore possibilità terapeutica in caso di recidive o di masse tumorali residuali in pazienti già trattati.
Radioterapia a modulazione di intensità (IMRT)
La radioterapia a modulazione di intensità è una tecnica complessa che, utilizzando alti gradienti di dose, permette l'erogazione di una dose altamente conformata al bersaglio risparmiando però i tessuti sani circostanti. Nell'IMRT (Intensity-Modulated Radiation Therapy) ciascun fascio di radiazioni viene suddiviso in tanti piccoli fasci che erogano dosi di radiazioni diverse in punti diversi. Al fine di ottenere tale risultato è necessario disporre di un acceleratore lineare fornito di un collimatore multilamellare con particolari caratteristiche tecniche tali da permettere di modulare l'intensità del fascio di radiazioni. Tale tecnica consente di indirizzare la dose specificamente al bersaglio, risparmiando gli organi sani circostanti, grazie all'utilizzo di metodiche di imaging come la TAC con mezzo di contrasto e la RMN. Con l'aiuto di queste tecniche, infatti, vengono ricostruite immagini a due e tre dimensioni multistrato, le quali consentono un'irradiazione più accurata capace di risparmiare i tessuti sani circostanti. L'IMRT permette quindi di erogare nello stesso tempo dosi diverse a bersagli diversi, indirizzando al tumore una dose terapeutica più elevata, diminuendo quella ricevuta dai tessuti sani. L'operatore, attraverso un particolare software di calcolo chiamato inverse planning, definisce esattamente come deve essere erogata la dose allo scopo di ottenere la migliore distribuzione di dose possibile (massima conformazione) tra tumore e tessuto sano. La IMRT è una tecnica che sta conoscendo una rapida diffusione nel mondo occidentale, nel quale viene utilizzata da diversi anni. Le prime esperienze riportate in letteratura sembrano dimostrare la sua efficacia nel migliorare il controllo tumorale e nel diminuire gli effetti collaterali dei trattamenti. In Italia questa metodica è stata introdotta per il trattamento dei tumori prostatici e della mammella.
Radioterapia intraoperatoria (IORT)
La radioterapia intraoperatoria, grazie all'utilizzo di un acceleratore lineare mobile con braccio robotico, permette la cura radioterapica durante l'intervento chirurgico. Questa innovazione sostituisce la radioterapia postintervento, che richiede ai pazienti frequenti sedute nell'arco di almeno sei settimane presso un centro specializzato. L'utilizzo della IORT rappresenta una risposta adeguata alla necessità di sterilizzare il letto del tumore, risparmiando i tessuti adiacenti. Infatti, attraverso la IORT è possibile, nel corso dell'intervento operatorio, irradiare con un'unica dose elevata il letto del tumore per ridurre le probabilità di formazione di recidive o metastasi. Questa tecnica terapeutica si è dimostrata statisticamente valida in svariati tipi di tumore, come i tumori del seno, pancreatici, colorettali, gastrici, ginecologici e dei tessuti molli.
Chirurgia
Chirurgia guidata dalle immagini
Lo sviluppo della diagnostica per immagini, l'ingresso in sala operatoria di attrezzature e tecnologie d'avanguardia e l'uso di strumentazioni sempre più sofisticate, hanno consentito di sviluppare metodologie sempre meno invasive anche per la chirurgia oncologica. Uno svariato numero di tecniche di imaging, sia pre- sia intraoperatorie, sono diventate parte integrante dell'approccio chirurgico al trattamento di diversi tumori sia cerebrali sia addominali. La microchirurgia di lesioni cerebrali profonde è spesso complicata dalla stretta vicinanza di grandi vasi sanguigni determinando la necessità per il chirurgo di lavorare in uno spazio molto ristretto. La combinazione di tecniche di TAC, di RMN e di angiografia digitale permette di guidare resezioni microchirurgiche di lesioni cerebrali profonde con elevata precisione. La colonscopia virtuale è un'indagine preoperatoria che utilizza le immagini acquisite mediante TAC per ottenere informazioni sulle strutture interne del colon. Un computer elabora le immagini per ottenere rappresentazioni dettagliate che consentano durante l'intervento di indirizzare il chirurgo sulla presenza di polipi o di altro tessuto anomalo sulla parete interna del colon. Sempre nell'ambito del tumore colorettale, uno studio condotto negli USA sta valutando l'efficacia dell'uso della PET intraoperatoria nell'identificazione di metastasi epatiche di derivazione colorettale. La colangio-RMN, tecnica che richiede un'elevata esperienza da parte del medico radiologo che la esegue, è un particolare tipo di RMN per lo studio delle vie biliari. Un corretto uso della colangio-RMN permette di visualizzare completamente le vie biliari, fornendo al chirurgo nel corso dell'intervento un aiuto formidabile nel definire i margini di resezione. Nei tumori della mammella è attualmente in corso di sperimentazione l'impiego della PET per un'indagine diagnostica dei linfonodi precedente l'eventuale asportazione. Questa metodica, semplice e non invasiva, indica se i linfonodi ascellari sono infiltrati da cellule tumorali. Ciò permette di evitare la biopsia del linfonodo sentinella, metodica non ancora alla portata di tutti i centri dove si cura il tumore mammario, in quanto prevede contemporaneamente la presenza di un chirurgo oncologo, di un medico nucleare e di un anatomo-patologo. Nel complesso, i dati indicano come in molteplici neoplasie, l'utilizzo delle tecniche di chirurgia guidata dalle immagini aumenti la precisione della resezione e riduce il tempo dell'intervento chirurgico, con un netto miglioramento per la prognosi del paziente.
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