Ciompi, tumulto dei
Il t. dei C., per quanto episodio di breve durata che non modificò stabilmente l’assetto politico-istituzionale di Firenze, fu ampiamente trattato dai contemporanei e dagli storici fiorentini almeno fino alla metà del Cinquecento. La storiografia moderna se ne è interessata soprattutto a partire dal 19° sec. quando, sensibilizzata dalle coeve rivoluzioni e dai movimenti di ispirazione socialista e marxista, vide talora nell’episodio una anticipazione (per quanto embrionale e scarsamente cosciente) delle lotte tra capitale e salariati del mondo industriale moderno. Tale lettura, in parte individuabile negli studi di Niccolò Rodolico (1899 e 1905), caratterizza soprattutto il lavoro di uno storico di ispirazione marxista come Victor I. Rutenburg (1958, trad. it. 1971). Sia Rodolico sia Rutenburg presuppongono che l’industria della lana fiorentina nel corso del Trecento avesse conosciuto uno sviluppo di tipo protocapitalistico, tale da configurare le premesse per un vero e proprio conflitto di classe tra imprenditori e prestatori d’opera. Studi successivi (Brucker 1968 e Stella 1993) hanno tuttavia dimostrato come la realtà sociale e produttiva dell’industria laniera fiorentina fosse quanto mai complessa e variegata: contrassegnata non già da significative concentrazioni manifatturiere, ma dalla presenza di una miriade di medie, piccole e piccolissime imprese artigianali. L’analisi della fisionomia sociale di alcuni ciompi, direttamente coinvolti nel tumulto, indica come molti di essi non fossero affatto salariati, ma artigiani indipendenti o piccolissimi imprenditori, che talora risultano contribuenti con un imponibile superiore a quello di molti membri delle Arti minori, che tradizionalmente si identificano con i ceti me-di fiorentini. La realtà sociale e produttiva fiorentina rivela insomma una tale complessità, che appare difficile ridurre il discorso alla semplice dicotomia imprenditori/salariati.
Il termine ciompi è di etimologia incerta, ma è certamente dispregiativo; infatti essi non designarono mai sé stessi con tale nome. Quanto a M., che narra distesamente l’episodio nel libro III delle Istorie fiorentine, non lo usa mai: impiega invece il termine plebe (in contrapposizione a «popolo» in III i 10), oppure l’equivalente «popolo minuto» (ma compare anche un «plebe minuta»: III xvi 9 e xviii 4). È poi da segnalare il termine sottoposti (III xii 8), che in III xiii 1 è collegato a «plebei» («gli uomini plebei, adunque, così quelli sottoposti all’Arte della lana come alle altre arti»). Il termine ciompi designava originariamente gli addetti alle mansioni meno specializzate dell’industria laniera (che si occupavano delle prime fasi di trattamento del materiale: battitori, pettinatori ecc.); ma appare spesso impiegato per indicare genericamente gli strati sociali più bassi della popolazione fiorentina: operai, artigiani e commercianti al minuto, anche non coinvolti nella produzione laniera.
L’esperienza rivoluzionaria propriamente designata come t. dei C. è circoscritta nei quaranta giorni compresi tra il 20-22 luglio 1378, quando i Ciompi occuparono Palazzo Vecchio, e il 31 agosto, quando la nuova Signoria appena entrata in carica (avrebbe dovuto governare nel bimestre settembre-ottobre), che comprendeva per la prima volta una rappresentanza del popolo minuto, fu rovesciata dalla violenta reazione delle Arti maggiori e minori. La breve esperienza dei Ciompi può essere considerata una deviazione imprevista all’interno della lunga lotta tra Arti maggiori e minori, lotta che contrassegnò la storia politica interna di Firenze nella seconda metà del Trecento (fino all’imporsi del regime oligarchico dopo il 1382).
Cronologia del tumulto. – Le premesse. Nel corso degli anni Settanta del Trecento aveva acquisito un peso politico sempre maggiore la parte guelfa, istituzione nata al tempo delle lotte contro i ghibellini (probabilmente nel 1267), ma divenuta di fatto l’espressione di un’alleanza tra alcune famiglie dell’alta borghesia e antiche famiglie magnatizie. Il potere riconosciuto alla parte di interdire l’esercizio dei pubblici uffici a chi era sospettato di ghibellinismo faceva dell’istituzione un formidabile strumento di controllo della politica cittadina. La parte riuscì di fatto a escludere dall’élite del governo nuovi soggetti, spesso sostenuti da clientele legate alle Arti minori. Durante la guerra contro papa Gregorio XI (1375-78), la cosiddetta guerra degli Otto santi (dal nome che il popolo aveva dato ironicamente agli Otto della guerra, la magistratura straordinaria incaricata di gestire le operazioni militari, che papa Gregorio aveva colpito nel 1376 con un interdetto), si acuirono notevolmente le divergenze tra la parte (guidata da Lapo da Castiglionchio, Piero degli Albizzi e Carlo Strozzi), contraria alla guerra, e la magistratura degli Otto, soprattutto sostenuta dalla media e piccola borghesia delle Arti minori (che trovarono i loro capi in Salvestro de’ Medici e Giorgio Scali).
La prima crisi scoppiò nel giugno 1378. Il 18 Salvestro de’ Medici propose misure legislative che avrebbero limitato il potere della parte. L’opposizione di quest’ultima provocò la reazione violenta delle Arti minori, che scesero in piazza (22 e 23 giugno) e assalirono le case dei grandi e dei capi della parte guelfa. Alla rivolta, che presto sfuggì di mano (furono assaliti monasteri e case estranee alla parte), presero parte anche molti salariati e ‘sottoposti’ non iscritti alle Arti. Nelle convulse settimane successive costoro, riuniti in assemblee, pensarono a un’insurrezione per ottenere, per la prima volta nella storia della città, un riconoscimento politico e il diritto di potere accedere alle magistrature.
I ‘minuti’ insorsero il 20 luglio assediando il Palazzo della Signoria. La Signoria in carica (per il bimestre giugno-luglio), di cui era gonfaloniere Luigi Guicciardini, si dimise due giorni dopo, mentre veniva acclamato gonfaloniere Michele di Lando, uno dei capi della rivolta. Con la stessa procedura vennero acclamati gli otto priori. I Ciompi ottennero dai Consigli del popolo e del comune (gli organi legislativi cui spettava il compito di ratificare le leggi) di avere rappresentanti nella Signoria e nei collegi. Vennero inoltre create tre nuove Arti (Tintori, Farsettai, Popolo minuto), nelle quali si sarebbero iscritti i ‘sottoposti’ esclusi dalle Arti: tra i membri delle nuove Arti sarebbero stati sorteggiati, da allora in poi, tre dei nove membri della Signoria.
Una frangia radicale dei Ciompi, insoddisfatta della politica moderata di Michele di Lando, si riunì a S. Maria Novella il 27 agosto, proponendo la sospensione delle magistrature ordinarie e la nomina di un comitato di Otto membri ai quali assegnare pieni poteri di controllo sull’operato della Signoria. La proposta, contro la quale si oppose lo stesso Michele di Lando, generò la reazione di un ampio blocco sociale (dall’alta borghesia finanziario-imprenditoriale delle Arti maggiori fino alla piccola borghesia delle Arti minori). Dopo durissimi scontri di piazza (30-31 agosto) i Ciompi vennero sconfitti. Il giorno successivo un parlamento (pronunciamento di piazza) dichiarava decadute tutte le riforme da loro introdotte.
Il governo dei Ciompi. – Un dato che occorre mettere subito in rilievo è come il t. dei C., se pur iniziato da un gesto rivoluzionario (il rovesciamento del governo in carica, con l’insurrezione del 20-22 luglio), non introdusse un nuovo assetto costituzionale, ma ridefinì equilibri e percentuali di rappresentanza senza intaccare i criteri istituzionali e le procedure tradizionali del comune (Rubinstein 1981, p. 105; ma sull’incapacità strutturale, nelle ribellioni medievali, di uscire dal quadro istituzionale cittadino cfr. Mollat, Wolff 1970). La partecipazione al governo dei Ciompi veniva concretamente garantita dall’assegnazione ai loro rappresentanti di una quota dei membri della Signoria e delle altre principali magistrature dell’esecutivo cittadino (Buoniuomini e Gonfalonieri di compagnia). Si inseriva coerentemente in questo meccanismo di rappresentanza la creazione delle tre nuove Arti che si affiancavano alle tradizionali ventuno Arti (le sette maggiori e le quattordici minori). Il riconoscimento giuridico di una rappresentanza del popolo minuto (una volta votata dai Consigli del comune e del popolo, il 21 e il 22 luglio) avvenne attraverso le normali procedure elettorali. Fu così indetto uno scrutinio (‘squittino’) degli eleggibili del popolo minuto, perché i loro nomi potessero essere sorteggiati per le elezioni delle magistrature assieme ai nomi degli appartenenti alle Arti maggiori e minori. In quanto tentativo di creare una rappresentanza dei ceti salariati all’interno del comune, la nascita delle tre nuove Arti costituisce l’atto politicamente più rilevante dei Ciompi. Quello, soprattutto, su cui si fonda l’interpretazione storica di chi (come i già citati Rodolico e Rutenburg) vede nel t. dei C. qualcosa di qualitativamente diverso – sul piano della consapevolezza politica – rispetto a tanti episodi di ribellismo proletario della storia tardomedievale.
La storiografia fiorentina fino a Machiavelli. – Stante l’importanza che l’episodio acquistò nella coscienza politico-sociale di Firenze, storici e memorialisti successivi diedero in genere ampio spazio al suo racconto (con qualche eccezione: come Poggio Bracciolini, le cui Historiae Florentini populi, concentrate soprattutto sulla politica estera, quasi nulla dicono del tumulto). Attenzione particolare meritano le Historiae (1439) di Leonardo Bruni, che dall’episodio ricava un’esplicita lezione conservatrice. Armare la plebe per farne uno strumento delle lotte tra fazioni comporta il rischio di non poterla poi controllare:
Id perpetuum documentum esse potest praestantibus in civitate viris, ne motum et arma in arbitrio multitudinis devenire patiantur; neque enim retineri possunt, cum semel inceperint fraenum arripere
Il fatto può costituire un perenne monito per i dirigenti della repubblica, affinché non consentano che iniziativa e armi vengano nelle mani della plebe: non potranno infatti essere trattenuti, una volta che abbiano preso nelle loro mani il freno (Leonardi Aretini Historiarum Florentini populi libri XII, a cura di E. Santini, C. di Pierro, in RIS, 19.3, p. 224).
Bruni delinea anche quella celebrazione eroica di Michele di Lando (p. 225) che sarebbe diventato un motivo ricorrente nella storiografia fiorentina, e che è presente nelle Istorie di M., ma di cui già troviamo traccia in Giovanni Cavalcanti (Istorie fiorentine, a cura di G. di Pino, 1944, p. 148), testo anch’esso ben noto a M., che lo utilizzò come fonte principale del IV libro delle sue Istorie.
Francesco Guicciardini comincia le sue giovanili Storie fiorentine proprio con il racconto del tumulto dei Ciompi. Per quanto la scelta fosse in parte dovuta all’incrocio tra storia cittadina e memorialistica familiare (il gonfaloniere destituito dai Ciompi, Luigi Guicciardini, era un antenato dello storico), resta il fatto che l’evento segna per lui un vero snodo storico, determinando, per reazione al pericolo della rivoluzione sociale, il consolidarsi di quel regime che avrebbe guidato la politica fiorentina fino all’avvento dei Medici, fondato sul potere oligarchico di poche famiglie dell’alta borghesia sostenute da un largo consenso dei ceti medi.
Il tumulto nelle Istorie Fiorentine. – Al racconto del tumulto M. dedica la parte centrale del III libro delle Istorie fiorentine (capp. x-xviii). Il t. dei C. è complessivamente interpretato da M. come una diretta conseguenza delle forme degenerate del contrasto politico fiorentino, dominato da conflitti tra famiglie (lo scontro tra Ricci e Albizzi, al quale è dedicato uno spazio che non ha alcun riscontro nelle fonti: capp. ii-vii) e dalle «sette»: concetto fondamentale nell’universo ideologico delle Istorie, chiarito da M. nell’orazione di un anonimo cittadino (III v). Con «sette» M. designa gli accordi tra privati mirati all’occupazione del potere e che impediscono quella dialettica tra le parti sociali (gli «umori») che deve contrassegnare una repubblica sana (la più chiara formulazione del concetto di ‘setta’ nel primo capitolo del libro VII delle Istorie).
Del contrasto Ricci-Albizzi, che nel racconto machiavelliano è il più significativo antecedente del tumulto, parla la Cronaca di Marchionne di Coppo Stefani (rubr. 662); ma quello che nella Cronaca non è che un elemento marginale, diviene in M. un fattore centrale per comprendere le dinamiche profonde della storia cittadina, e per spiegare le condizioni complessive che resero possibile il trauma del tumulto. Quanto alle fonti sul tumulto (analizzate specificamente da Vittorio Fiorini in N. Machiavelli, Istorie fiorentine, libri I-III, 1894; Anselmi 1979; Cabrini 1990), oltre che di Stefani M. si servì di Bruni, ma soprattutto di alcuni testi coevi all’evento, come la breve Cronaca di Alamanno Acciaioli (in Il tumulto dei Ciompi: cronache e memorie, a cura di G. Scaramella, 1917, pp. 13-34), o l’anonimo resoconto noto come Lettera sul tumulto dei Ciompi (pp. 141-48), nonché la continuazione (Aggiunte) anonima alla Cronaca dell’Acciaioli (pp. 35-41).
Secondo M. fu il fondamento familiare e consortile che caratterizza la natura dei contrasti politici fiorentini a produrre quella tensione insanabile tra parte guelfa e magistratura degli Otto santi che occasionò il t. dei C. (Istorie III viii-x). L’utilizzo, da parte di Salvestro de’ Medici e del suo gruppo, della forza della plebe per realizzare i propri scopi è esplicitamente stigmatizzato da M., che riprende la lezione politica già individuata da Bruni: «Non sia alcuno che muova un’alterazione in una città, per credere poi o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo» (III x 4). Non meno tradizionale, come abbiano visto, è il giudizio positivo su Michele di Lando, che M. esalta come salvatore della città (III xvii). Con libertà rispetto alle sue fonti, M. ne fa addirittura il protagonista assoluto della repressione, attribuendo al personaggio tratti apertamente eroici, ben rilevabili in un ritratto celebrativo che coniuga «virtù» (intelligenza, coraggio e decisione) con disinteressato amor di patria:
Ottenuta la impresa [la sconfitta dei Ciompi armati] si posorono i tumulti solo per la virtù del gonfaloniere; il quale d’animo, di prudenzia e di bontà superò in quel tempo qualunque cittadino, e merita di essere annoverato intra i pochi che abbino beneficata la patria loro: perché se in esso fusse stato animo o maligno o ambizioso, la republica al tutto perdeva la sua libertà […]. Ma la bontà sua non gli lasciò mai venire pensiero nello animo che fusse al bene universale contrario (III xvii 13-14).
Alla celebrazione del repressore si accompagna una condanna per la ribellione che non solo connota l’agire della plebe con i termini moralmente negativi di «arroganzia» (xvii 2), «prosunzione» (xvii 6) e «insolenzia» (xvii 7), ma che fa trasparire (in perfetta consonanza, per altro, con le narrazioni contemporanee al tumulto) un aperto disprezzo per i «minuti»: l’esperienza rivoluzionaria, scrive M. a conclusione del racconto del tumulto, fece «i migliori artefici [= i membri delle tradizionali Arti maggiori e minori] ravvedere e pensare quanta ignominia era, a coloro che avevono doma la superbia de’ Grandi, il puzzo della plebe sopportare» (III xviii 15).
Il dato forse più significativo della lettura machiavelliana dell’episodio consiste nell’individuazione delle motivazioni economico-sociali dei Ciompi, acutamente enucleate in III xii. M. scrive che la «infima plebe» temeva di essere punita per le insurrezioni («arsioni e ruberie») compiute nelle settimane precedenti (cioè durante i fatti del 22-23 giugno, quando le proteste di piazza contro le potenti famiglie della parte degenerarono violentemente). Ma se la paura «di essere abbandonati da coloro che a fare male gli avevano istigati» (III xii 2) è un fattore puramente congiunturale che li spingerà alla ribellione aperta, M. individua le ragioni profonde della scelta rivoluzionaria in un vero e proprio odio di classe («uno odio che il popolo minuto aveva con i cittadini ricchi e principi [gruppi dirigenti] delle Arti, non parendo loro essere sodisfatti delle loro fatiche secondo che giustamente credevano meritare», III xii 3), dettato non già da cause generiche, ma da precise ragioni strutturali proprie del sistema delle Arti. La rigida organizzazione per categorie di mestiere escludeva la possibilità di dare una rappresentanza agli interessi dei prestatori d’opera, necessariamente contrapposti a quellidei datori di lavoro. È un dato che M. coglie con piena lucidità, in una breve, ma acuta ricostruzione storica del costituirsi delle Arti (III xii 7):
nello ordinare i corpi delle Arti, molti di quelli esercizii [mestieri; specializzazioni] in ne’ quali il popolo minuto e la plebe infima si affatica, sanza avere corpi d’Arti proprie restorono, ma a varie Arti conformi alle qualità degli esercizii loro si sottomessono.
In questo modo i sottoposti, in caso di controversie salariali, avrebbero dovuto rivolgersi ai magistrati delle Arti, cioè a dire a quelli stessi che costituivano, nella controversia, la controparte:
ne nasceva che quando erano o non sodisfatti delle fatiche loro, o in alcun modo dai loro maestri [padroni di bottega] oppressati, non avevano altrove dove rifuggire che al magistrato di quella Arte che gli governava, dal quale non pareva loro fusse fatta quella giustizia che giudicavano si convenisse.
Considerazioni a parte merita il famosissimo discorso dell’anonimo Ciompo (→), l’abile agitatore che nel xiii capitolo del III libro infiamma gli animi della plebe indirizzandola alla rivolta. La pagina è naturalmente un’invenzione retorica che trascende le circostanze storiche e che consente a M. di inserire alcuni temi cari alla sua meditazione politica: un’antropologia radicalmente negativa, che vede nella sopraffazione una regola ineludibile della convivenza umana («gli uomini mangiono l’uno l’altro», xiii 15); la violenza come componente necessaria dell’agire politico («Debbesi adunque usare la forza quando ce ne è data la occasione», xiii 16); l’«occasione», momentanea e fugace possibilità offerta all’intelligenza nell’indeterminatezza variabile della «fortuna» («La opportunità che dalla occasione ci è porta vola, e invano quando la è fuggita si cerca poi di ripigliarla», xiii 20); l’agire politico come previsione intelligente e audace intervento preventivo («Voi vedete le preparazioni de’ vostri avversari: preoccupiamo i pensieri loro», xiii 21). Una pagina che riprende una costellazione di suggestioni e spunti classici (Platone e Seneca), patristici (san Paolo) e umanistici (da Dante a Coluccio Salutati); combinandoli in un discorso di rara potenza che ha attratto lettori eccellenti (a cominciare da Karl Marx) e ha generato una ricca letteratura critica (per la quale si rimanda a Pedullà 2003).
Bibliografia: N. Machiavelli, Istorie fiorentine, libri I-III, con commento di V. Fiorini, Firenze 1894; N. Rodolico, Il popolo minuto: note di storia fiorentina (1343-1378), Bologna 1899; N. Rodolico, La democrazia fiorentina nel suo tramonto: 1378-1382, Bologna 1905; Il tumulto dei Ciompi: cronache e memorie, a cura di G. Scaramella, in RIS, 18.3, 1917; G.A. Brucker, The Ciompi revolution, in Florentine studies. Politics and society in Renaissance Florence, ed. N. Rubinstein, London 1968, pp. 314-57; M. Mollat, P. Wolff, Ongles bleus, Jacques et Ciompi: les revolutions populaires en Europe aux 14e et 15e siècles, Paris 1970; V. Rutenburg, Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ’300 e ’400, Bologna 1971 (ed. orig. Mosca 1958); G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; N. Rubinstein, Il regime politico di Firenze dopo il tumulto dei Ciompi, in Il tumulto dei Ciompi. Un momento di storia fiorentina ed europea, Firenze 1981, pp. 105-24; E. Sestan, Echi e giudizi sul Tumulto dei Ciompi nella cronistica e nella storiografia, in Il tumulto dei Ciompi. Un momento di storia fiorentina ed europea, Firenze 1981, pp. 125-60; C.M. de la Roncière, Prix et salaires à Florence au 14e siècle (1280-1380), Roma 1982; A.M. Cabrini, Interpretazione e stile in Machiavelli: il terzo libro delle Istorie, Roma 1990; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993; A. Stella, La révolte des Ciompi. Les hommes, les lieux, le travail, Paris 1993; G. Pedullà, Il divieto di Platone, in Storiografia repubblicana fiorentina, a cura di J.-J. Marchand, J.-C. Zancarini, Milano 2003, pp. 209-66.