di Stefano M. Torelli
Il 23 ottobre del 2011, data delle prime elezioni libere della storia della Tunisia repubblicana (per la formazione dell’assemblea costituente), non è stato solamente un giorno storico per il paese, ma anche per il partito islamico Ennahda. Durante gli anni del regime di Ben ‘Ali, Ennahda aveva subìto una dura repressione, sacrificato all’ideale di una Tunisia laica e libera da qualsiasi riferimento alla religione nella sfera pubblica. La maggior parte dei suoi membri erano costretti in esilio o detenuti nelle carceri tunisine, poiché Ben ‘Ali aveva paventato la possibilità che le forze islamiste potessero spingere il paese verso una pericolosa deriva. In realtà, il presidente e capo indiscusso di Ennahda, Rachid Ghannouchi, è da sempre stato indicato come uno dei più ‘illuminati’ e moderati pensatori del cosiddetto islam politico a livello mondiale, la cui azione politica e la cui ideologia non entravano in contraddizione con i principi democratici. Ciononostante, il regime di Ben ‘Ali aveva trovato i pretesti per legittimare la repressione contro il movimento islamico, sfruttando anche il clima di terrore instaurato nella vicina Algeria negli anni Novanta durante la guerra civile – nel corso della quale i gruppi islamisti jihadisti avevano compiuto orrendi massacri anche contro i civili – e, nel decennio successivo, alimentando il timore che il terrorismo di matrice islamica potesse ripetere in Tunisia quanto fatto a livello internazionale con gli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti e in altri paesi come la Spagna, il Regno Unito e il Marocco.
È sulla base della dura persecuzione subita nei decenni precedenti che, all’indomani della fuga di Ben ‘Ali in Arabia Saudita, Ennahda ha raccolto tanto seguito tra la popolazione tunisina. A pagare è stata, prima di tutto, la sua strenua opposizione al precedente regime: il partito ne ha subìto la repressione senza mai tentare di scendere a compromessi. Prima ancora della sua natura islamica, è
stata questa aura di immacolatezza nei confronti dell’ex regime a conferire al movimento una popolarità superiore agli altri partiti che hanno preso parte al processo di democratizzazione tunisino – alcuni dei quali avevano trovato modalità differenti di convivenza con il regime. Ciò detto, il successo elettorale di Ennahda è dipeso anche da altri fattori. Prima di tutto, si tratta di un partito molto più compatto e presente sul territorio rispetto a un’opposizione laica, afferente al panorama politico della sinistra, che si è presentata estremamente frammentata. In secondo luogo, la vittoria di Ennahda ha confermato, al di là della componente religiosa, la presenza di una fetta di popolazione conservatrice che ha trovato proprio nel partito di Ghannouchi il punto di riferimento più naturale. Sebbene la vittoria di Ennahda – vittoria parziale, in quanto è risultato il primo partito del paese, ma senza i numeri per costituire una forza di governo maggioritaria – avesse inizialmente causato la reazione critica degli ambienti laici tunisini, preoccupati per una possibile deriva islamista del paese, i primi mesi al governo hanno testimoniato la maturità del partito islamico.
In primo luogo, Ennahda ha formato un governo di coalizione con due forze politiche di estrazione laica e socialista (Ettakatol e il Congresso per la repubblica), dimostrandosi in tal modo inclusivo, a differenza dell’islam politico in altri contesti mediorientali. In secondo luogo, l’anima moderata incarnata da Ghannouchi ha prevalso sulle istanze più radicali di una frangia del partito, come dimostrato in modo emblematico dalla rinuncia al riferimento alla sharia nei disegni della nuova carta costituzionale. Tuttavia, se le prime mosse al governo hanno in parte aiutato il partito islamico a fugare alcuni sospetti circa i supposti progetti di islamizzazione della società e lo hanno posto all’interno del quadro della democratizzazione, è su altri terreni che Ennahda rischia di non avere altrettanto successo e di perdere popolarità. Le difficoltà dimostrate nel gestire le politiche pubbliche e nell’affrontare la grave crisi socio-economica che interessa la Tunisia – che è stata alla base delle rivolte del 2010-11 – hanno messo in dubbio l’effettiva capacità di governo del partito. La Tunisia è entrata in una fase di stallo politico, anche per un clima di violenza sempre più diffuso nel paese, che ha fatto calare la popolarità di Ennahda, in quanto il più importante partito di governo. In questo clima, sembra che il partito di Ghannouchi abbia cominciato ad arroccarsi sulle proprie posizioni e ad agire come un partito elitario e conservatore, incapace di innovare le dinamiche politiche nazionali. Il braccio di ferro con le opposizioni laiche e di sinistra, che ne hanno a più riprese richiesto le dimissioni, e lo scollamento con la fetta di popolazione più giovane hanno portato Ennahda a un immobilismo che ne mina i pur evidenti progressi compiuti, se non altro a livello ideologico e comportamentale. Quello che, dopo la repressione della Fratellanza musulmana in Egitto, rimane l’unico partito islamico ancora al governo a seguito delle cosiddette ‘Primavere arabe’, sta quindi affrontando un ulteriore periodo di mutamento, i cui esiti rimangono incerti. Nel complesso, l’apparente abbandono del progetto di islamizzazione della Tunisia e l’adesione alle regole del processo di democratizzazione sono due risultati positivi della transizione di Ennahda. Le ombre, invece, sono costituite dal non aver saputo imprimere, nel medio-lungo periodo, una svolta radicale nel modo di fare politica e nel non essere riuscito a migliorare la situazione economica e sociale della popolazione, con particolare riferimento alle esigenze dei più giovani.