Vedi Turchia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Turchia rappresenta una delle realtà più dinamiche dello scenario euro-asiatico, tanto dal punto di vista economico quanto da quello diplomatico. Mettendo a frutto una strategica collocazione geopolitica che la pone al centro dei più rilevanti scenari regionali del sistema internazionale post-bipolare – dall’area del Mar Nero a quella del Mediterraneo orientale, dal Medio Oriente sino al Caucaso e all’Asia centrale – la Turchia è infatti riuscita ad assumere un ruolo di primo piano in tutti i contesti regionali a lei prossimi.
Erede dell’Impero ottomano, la Repubblica turca venne proclamata nell’ottobre 1923 a seguito della guerra di indipendenza condotta dal generale Mustafà Kemāl contro le potenze alleate che, a seguito della disfatta ottomana nella Prima guerra mondiale, occupavano il territorio anatolico. Oltre a rappresentare il campione della causa indipendentistica, Mustafà Kemāl – che dal 1934 avrebbe assunto il più noto cognome di Atatürk, ‘padre dei Turchi’ – fu presidente del paese sino alla sua scomparsa, nel 1938. Rifacendosi ai modelli istituzionali europei, egli fu promotore del periodo di profonde riforme sociali, istituzionali ed economiche che, in netta rottura con l’esperienza ottomana, hanno modernizzato e secolarizzato il paese, gettando le fondamenta sulle quali ancora oggi riposa la Repubblica turca.
La spinta occidentalizzatrice impressa da Atatürk al paese ha avuto rilevanti ripercussioni anche sulla politica estera turca, tradizionalmente attenta al rafforzamento dei legami con gli interlocutori euro-atlantici: pilastro del sistema di sicurezza euro-atlantico sin dal 1952 – con l’ingresso nella Nato – la Turchia ha infatti storicamente perseguito l’obiettivo di una piena partecipazione al processo di integrazione europea, avviando la cooperazione con la Comunità europea nel 1963 e aprendo, nel 2005, i negoziati per l’adesione all’Unione (Eu).
D’altra parte, la volontà di superare l’esperienza ottomana propria della visione kemalista si è riflessa, sul piano delle relazioni internazionali, anche in una linea di non coinvolgimento negli affari mediorientali. Tale impostazione è stata parzialmente rivista solo con la fine del sistema bipolare quando, venute meno quelle dinamiche che ne avevano limitato la libertà d’azione, la Turchia ha potuto sfruttare le proprie peculiarità culturali, economiche, istituzionali e strategiche per porre le basi di una nuovo attivismo regionale che si è tradotto in una fitta rete di relazioni bilaterali e multilaterali. È questa l’essenza più profonda della dottrina di politica estera della ‘profondità strategica’ che, teorizzata dall’attuale ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu, impegna il paese a capitalizzare i propri punti di forza per impostare una politica multiregionale turcocentrica.
Perseguendo una linea di ‘azzeramento dei problemi’ con i propri vicini, Ankara ha rivolto la propria politica estera anzitutto verso gli interlocutori mediorientali. Marginalizzando le fonti di tensioni bilaterali, nel primo decennio del 21° secolo la Turchia ha così costruito canali privilegiati di dialogo e cooperazione con la gran parte dei propri vicini – dalla Siria all’Iran, dall’Iraq ai paesi del Golfo – e, capitalizzando la propria crescita economica, si è al contempo posta alla guida dei piani di sviluppo della cooperazione e dell’integrazione economica regionale. Benché la Primavera araba – generando linee di tensione regionale e la rottura delle relazioni tra Ankara e il regime siriano – abbia messo parzialmente in crisi la politica mediorientale della Turchia, quest’ultima, forte di datate credenziali liberal-democratiche, di un’economia in crescita e di solide relazioni con i paesi euro-atlantici, resta un interlocutore imprescindibile per le nuove leadership regionali e, potenzialmente, un modello socio-istituzionale da cui trarre ispirazione.
Il Medio Oriente non è stato tuttavia l’unico ambito regionale verso il quale si è indirizzata la politica estera di Ankara. Nel mutato scenario successivo alla dissoluzione sovietica, la Turchia ha investito notevoli risorse diplomatiche ed economiche anche nel rafforzamento della partnership con le repubbliche caucasiche e centro-asiatiche (molte delle quali affini da un punto di vista etno-linguistico), oltre che con la stessa Federazione Russa. Gettata alle spalle la memoria della storica conflittualità che aveva caratterizzato le relazioni russo-turche nel corso degli ultimi due secoli, Ankara e Mosca hanno costruito una partnership strategica che ha nella cooperazione energetica e alla sicurezza i propri capisaldi.
L’impegno nella ricostruzione dell’area dei Balcani e il recente interesse per la cooperazione con i partner africani completano il quadro della prospettiva multiregionale della nuova politica estera turca. Tale allargamento del raggio d’azione turco non ha tuttavia comportato il ridimensionamento del valore attribuito da Ankara alle relazioni con i propri tradizionali alleati occidentali. La Nato resta infatti la pietra angolare delle politiche di sicurezza turche, mentre l’ingresso nell’Eu continua a costituire una priorità strategica. Ciò nondimeno, la maggior autonomia acquisita da Ankara in politica estera si è talvolta tradotta in decisioni parzialmente difformi da quelle dei propri alleati euro-atlantici, generando momenti di tensione. Tale tendenza si è manifestata con più chiarezza in relazione al tentativo della Turchia di anteporre le ragioni del dialogo e della cooperazione a quelle della contrapposizione nei riguardi dei paesi parte del proprio immediato vicinato – secondo la sopracitata strategia dell’azzeramento dei problemi con i propri vicini. Così, il rifiuto opposto nel 2003 alla richiesta statunitense di invadere l’Iraq da nord, l’apertura al dialogo con l’Iran sulla questione del nucleare o, ancora, il riconoscimento di Hamas come legittimo interlocutore palestinese hanno generato attriti con il tradizionale alleato statunitense e, non di meno, con Israele. In particolare, il tentativo turco di presentarsi come interlocutore credibile e modello di sviluppo economico-istituzionale per i propri vicini arabi ha comportato una presa di distanza dall’operato di Israele, tanto più netta quanto più muscolare si dimostrava la politica di Gerusalemme nei confronti della questione palestinese. Su questo sfondo, le dure critiche rivolte da Ankara all’operazione ‘piombo fuso’ a Gaza (dicembre 2008-gennaio 2009), così come l’incidente della Freedom Flottilla hanno segnato il punto più basso nelle relazioni bilaterali turco-israeliane , che – tradizionalmente fondate su una profonda intesa strategica – cercano oggi nuovi strumenti di rilancio.
Oltre alla mancata risoluzione del nodo cipriota – che Ankara sembra oggi voler demandare prioritariamente alle due comunità dell’isola e, parallelamente, alla responsabilità dell’Eu – la politica di azzeramento dei problemi con i propri vicini trova un evidente limite nelle relazioni con la vicina Repubblica armena. Chiuse le frontiere nell’aprile 1993 come ritorsione per l’occupazione armena della regione azera del Nagorno Karabach, la normalizzazione delle relazioni bilaterali appare lungi dal potersi considerare prossima, nonostante le speranze suscitate, nell’ottobre 2008, dalla firma dei Protocolli di Zurigo a ciò finalizzati. Sul processo di normalizzazione pesa infatti, da un lato, la mancata risoluzione del conflitto azero-armeno sul Nagorno Karabach e, dall’altro, il tentativo di Yerevan di veder riconosciuta internazionalmente la natura di ‘genocidio’ ai massacri perpetrati a danno della popolazione armena dalle autorità ottomane tra il 1915 e il 1921.
La politica di azzeramento dei problemi non si è limitata ad interessare le sole relazioni bilaterali della Turchia con i vicini, ma è stata estesa anche alle relazioni tra questi. Forte di una crescente credibilità regionale, la Turchia ha infatti promosso iniziative multilaterali per la risoluzione delle controversie regionali – dal gruppo di dialogo tra Turchia, Afghanistan e Pakistan sino alla conferenza dei paesi confinanti con l’Iraq e alla Piattaforma per la stabilità e la cooperazione nel Caucaso, promossa all’indomani del conflitto russo-georgiano del 2008 – impegnandosi al contempo anche in attività di mediazione. Oltre ad aver mediato tra il 2006 e il 2008 nei negoziati di pace israelo-siriani, il governo di Ankara si è anche proposto – insieme all’emergente Brasile – come mediatore per i colloqui tra l’Iran e la comunità internazionale circa il programma nucleare di Teheran. Con l’avvio delle rivolte in Medio Oriente, Ankara ha inoltre tentato di mediare nelle crisi in Libia e Siria, paesi con i quali beneficiava di solide relazioni economiche e diplomatiche. Benché questi sforzi si siano dimostrati infruttuosi, essi hanno tuttavia creato nuovi margini di intesa e collaborazione tra Ankara e i propri alleati euro-atlantici.
La Turchia è una repubblica parlamentare, nella quale il governo è retto da un rapporto di fiducia con il parlamento unicamerale, la Grande assemblea nazionale. Quest’ultima – che a maggioranza qualificata elegge anche il presidente della repubblica – è composta da 550 membri, eletti per un mandato quadriennale con sistema proporzionale. Peculiarità del sistema elettorale turco è la previsione di un’elevata soglia di sbarramento per l’accesso in parlamento, fissata dalla Costituzione (approvata nel 1982, sotto regime militare) al 10%, per limitare l’ingresso nell’assemblea di forze potenzialmente antisistemiche e favorire la stabilità istituzionale.
L’elevata soglia di sbarramento ha favorito l’ascesa e l’affermazione politica dell’attuale partito di governo, il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi, Akp) guidato dal primo ministro Recep Tayyip Erdoǧan. L’Akp, che a seguito delle elezioni del giugno 2011 è entrato nel suo terzo mandato governativo consecutivo, dopo quelli successivi alle elezioni del 2002 e 2007, ha garantito al paese la più lunga fase di stabilità politica della sua storia recente, tanto più evidente in contrapposizione alla netta instabilità che aveva caratterizzato gli anni Novanta. All’ombra di tale stabilità, l’Akp – favorito da una crescita economica senza precedenti e dalla prospettiva dell’ingresso nell’Eu – ha intrapreso un cammino di riforme nei campi economico, politico, sociale e dei diritti umani, che hanno notevolmente contribuito alla crescita del paese e all’avvicinamento agli standard politico-istituzionali europei. Apice del processo riformista dell’Akp è la revisione della Costituzione lungo un percorso che, dopo i primi emendamenti approvati per referendum nel settembre 2010, pone la riscrittura dell’intero testo costituzionale come una delle priorità dell’agenda governativa nel suo terzo mandato. Alle elezioni del 2011, però, l’Akp non è riuscito a ottenere una maggioranza tale (quantificabile in due terzi del Parlamento o almeno in tre quinti, per poter sottoporre i cambiamenti a referendum popolare) da poter cambiare la carta costituzionale senza l’appoggio di altre formazioni politiche. Alla forza dell’esecutivo attualmente in carica ha fatto da contraltare la progressiva perdita di consensi della principale forza di opposizione, il Partito repubblicano del popolo (Cumhuriyet Halk Partisi, Chp), fondato da Atatürk e erede dell’ideologia kemalista. Il Chp ha invertito in parte il trend negativo a seguito delle ultime elezioni parlamentari del 2011, in cui ha ottenuto il suo miglior risultato dal 1995, assicurandosi il 26% dei voti e conquistando 135 seggi, unica formazione ad aver aumentato la propria presenza in parlamento.
Alla stabilità governativa assicurata dall’Akp alla Turchia nella fase successiva al 2002 non ha corrisposto un’altrettanto profonda stabilità istituzionale. Il richiamo del partito di governo a valori confessionali ha rappresentato infatti il principale terreno di scontro con quanti accusano l’Akp di mettere in discussione il carattere secolare dello stato, pilastro della costruzione socio-istituzionale turca, perseguendo una ‘agenda segreta’ di islamizzazione del paese. Su questo sfondo, particolarmente tesi sono stati i rapporti tra l’attuale esecutivo e l’establishment militare che, assieme agli alti gradi della magistratura e dell’apparato burocratico nazionale, costituisce una sorta di ‘stato nello stato’, erettosi tradizionalmente a baluardo dell’ortodossia kemalista. Per tre volte, nel corso della storia repubblicana (1960, 1971 e 1980), l’esercito ha attuato colpi di stato nella prospettiva di porre un freno agli eccessi del radicalismo politico, mentre nel 1997 ha indotto il Partito del benessere, antesignano dell’Akp e accusato di promuovere l’islamizzazione della Turchia, alle dimissioni dal governo. Nel 2008, è stato lo stesso Akp a doversi difendere innanzi alla Corte costituzionale – che ha successivamente rigettato il caso – dall’accusa di essere divenuto il ‘punto di riferimento di attività antisecolari’. Oggi, invece, sono alcuni alti esponenti dell’esercito a doversi difendere innanzi alla magistratura dalle accuse di aver ordito trame rivolte al rovesciamento dell’Akp dopo l’affermazione elettorale del 2002.
La chiusura per via giudiziaria dei partiti politici considerati anti-sistema è una pratica consolidata in Turchia. Se negli anni Sessanta e Settanta questa aveva riguardato principalmente formazioni giudicate eversive, a partire dagli anni Novanta il bando ha colpito prevalentemente partiti rappresentativi della minoranza curda. L’ultimo di questi casi ha coinvolto il Partito della società democratica (Demokratik Toplum Partisi, Dtp) bandito dalla Corte costituzionale nel dicembre 2009 per essere divenuto ‘punto di riferimento di attività separatiste’.
La popolazione turca consta di quasi 75 milioni di persone. La crescita della popolazione (1,24% tra il 2005 e il 2010) è superiore a quella media Eu, benché negli ultimi anni stia rallentando. Infatti il tasso di fecondità (2,15 figli per donna tra il 2005 e il 2010) va riducendosi, anche grazie al più elevato tasso di istruzione femminile. Inoltre, la popolazione è giovane (il 44% è nella fascia dagli 0 ai 24 anni) e circa il 25% è concentrato nella regione di Marmara nella parte nord-occidentale del paese, dove sono situate Istanbul e Bursa.
La principale minoranza è rappresentata dai Curdi, che sono stimati tra il 15% e il 20% della popolazione. Essi compongono la maggioranza della popolazione nell’area sud-orientale del paese, dove il curdo è la lingua più comunemente parlata, ma vi sono comunità curde rilevanti anche nelle maggiori città – la presenza di Curdi a Istanbul è, per esempio, stimata attorno ai tre milioni. Secondo la legge turca – che ha conferito al concetto di cittadinanza un connotato civico e linguistico e non etnico – le uniche minoranze riconosciute come tali sono le minoranze non musulmane stabilite dal Trattato di Losanna del 1923, cioè quella armena, greca ed ebrea. Di conseguenza, il Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni razziali delle Nazioni Unite ha sottolineato come questa interpretazione restrittiva possa comportare un diverso trattamento per i gruppi etnici non riconosciuti. In effetti alcuni gruppi, in particolare i Rom e i Curdi, vivono una situazione socio-economica più difficile rispetto al resto della popolazione e sono vittime di discriminazioni nell’istruzione e nel mondo del lavoro.
Il settore dell’istruzione accusa nel complesso un certo ritardo, sebbene nell’ultimo decennio si siano verificati significativi progressi. Nel 1997 la scuola dell’obbligo è stata aumentata dai cinque agli attuali otto anni e il ministero dell’istruzione ha in progetto un’ulteriore estensione per la scuola secondaria. La scolarizzazione primaria raggiunge il 97,5%, mentre quella secondaria rimane decisamente più bassa (61% per i maschi e 56% per le femmine nel 2008). Il numero di studenti nelle università è cresciuto rapidamente. In generale, l’alfabetizzazione femminile è inferiore a quella maschile, sebbene di non larga misura.
La Turchia figura all’92° posto su 187 paesi nella classifica dell’indice di sviluppo umano stilata dalle Nazioni Unite. Tale valore è basso rispetto a quello dei paesi confinanti e, in generale, rispetto all’Europa e all’Asia centrale. Le scarse performance nel campo dell’istruzione costituiscono uno dei principali elementi che portano a tale risultato.
Sebbene la Costituzione garantisca la libertà di religione, il precetto laicista turco ha comportato alcune restrizioni per la maggioranza della popolazione, di religione musulmana sunnita, e per i credenti delle altre religioni. In base al principio di laicità dello stato, infatti, le donne non possono portare il velo nelle università pubbliche e negli uffici governativi. Inoltre, i musulmani non sunniti, come gli alevi – seguaci di un credo che incorpora alcuni elementi sunniti e alcuni sciiti – non sono riconosciuti. Viceversa le minoranze di ebrei, cristiani ortodossi e armeni cristiani sono riconosciute ufficialmente e generalmente tollerate, ma rimangono poco integrate nell’establishment nazionale.
Libertà di espressione e di stampa sono garantite dalla Costituzione, ma di fatto compromesse da alcuni recenti provvedimenti legislativi. Nel 2004, nell’ambito delle riforme intraprese per l’adesione all’Eu, la Turchia aveva adottato una legge che sostituiva la detenzione con sanzioni, in caso di violazioni da parte dei media. Tuttavia, con la riforma del codice penale del 2005, è stata reintrodotta la detenzione tra i sei mesi e i due anni in caso di ‘denigrazione della nazione turca’. La norma, sancita dall’articolo 301 del codice penale, ha attirato ripetute critiche internazionali, essendo divenuta nella pratica uno strumento per colpire giornalisti e scrittori (come il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk o la scrittrice Elif Shafak), rei di aver dibattuto apertamente di questioni ancora irrisolte quali la questione armena o il trattamento della minoranza curda.
L’uso di internet sta crescendo rapidamente. Nel 2012 circa il 44% della popolazione aveva accesso alla rete internet, sebbene questo sia più limitato in alcune parti del paese, in particolare nel sud-est. Le donne sono ancora sottorappresentate nella vita politica del paese, nelle università, nei tribunali e nelle posizioni dirigenziali. Dal 1934, anno in cui le donne hanno acquisito il diritto di elettorato passivo, la rappresentanza di donne in parlamento è cresciuta modestamente, fino all’attuale 9,1%.
Sebbene non vi fossero state esecuzioni sin dal 1984, una delle condizioni per l’apertura dei negoziati di adesione con l’Eu era l’abolizione della pena di morte, avvenuta nel 2004.
La Turchia, 18° economia mondiale nel 2011, è inclusa nelle cosiddette ‘next eleven economies’, un gruppo di paesi che secondo Goldman Sachs dovrebbero affermarsi nel 21° secolo come le più importanti economie del mondo. Non a caso, al centro della ‘Visione 2023’, che enuncia i progetti di medio periodo del governo, risiede l’ambizioso obiettivo di portare la Turchia tra le prime dieci economie del mondo entro il 2023, anno del centenario della fondazione della Repubblica. Fino agli anni Ottanta, in uno quadro di economia mista, lo stato ha giocato un ruolo importante, attraverso il controllo delle infrastrutture, delle industrie di base e le imprese pubbliche. Dopo gli anni Ottanta è invece cominciato un processo di liberalizzazione e privatizzazione dell’economia, per esempio nell’industria pesante e nelle telecomunicazioni, e oggi il settore privato gioca un ruolo preponderante nell’attività economica turca. Sebbene la Turchia ospiti notevoli risorse minerarie (il 60% delle riserve mondiali di boro), l’industria estrattiva conta per una porzione assolutamente marginale del pil. Dagli anni Sessanta l’industria manifatturiera, prevalentemente di proprietà di privati, rappresenta il motore dell’economia e contribuisce notevolmente alla crescita economica. Il settore terziario conta per il 64% circa del pil e si basa soprattutto sul turismo (oltre 29 milioni di turisti hanno visitato la Turchia nel 2011), ma anche sul settore finanziario. Le zone più industrializzate sono la regione di Marmara, che include Istanbul, Izmit e Bursa e produce un terzo del pil nazionale, la regione di Izmir, il triangolo Adana-Mersin-Iskenderun e la zona della capitale. Negli anni Duemila la crescita è stata sostenuta, la crisi economica globale ha avuto ripercussioni sull’economia (−4,7% nel 2009), ma già nel 2010 è stata registrata una forte ripresa, con una crescita del 9%, confermata nel 2011 con una crescita dell’8,5%.
In generale, dall’inizio del 21° secolo vi è stata una forte crescita del valore delle importazioni e delle esportazioni, che attualmente rappresentano circa un quarto del pil. La Turchia esporta prevalentemente tessili, metalli di base, attrezzature di trasporto (autoveicoli) e prodotti dell’industria agroalimentare, mentre importa prodotti chimici, risorse energetiche e macchinari.
L’Europa occidentale, e in particolare la Germania, è tradizionalmente il maggior partner per quanto riguarda le esportazioni turche. Sul versante delle importazioni la Russia è un partner fondamentale per le forniture energetiche e la Cina è ormai il terzo paese da cui la Turchia importa, dopo la Germania ma prima di Italia e Francia. Di rilievo negli ultimi anni anche l’interscambio con il Medio Oriente che, pur rimanendo basso nei valori assoluti, è in rapida crescita. La bilancia commerciale è generalmente negativa, in parte per le importazioni energetiche e per le importazioni di beni intermedi per l’industria.
La Turchia possiede significative riserve di carbone (lignite) e limitate riserve di petrolio (270 milioni di barili, estratti prevalentemente nella regione sud-orientale) e gas. Dal 1991, anno in cui è stato raggiunto il picco della produzione di petrolio, con 85.000 barili al giorno, la produzione ha continuato a diminuire. Di conseguenza, il paese importa più del 90% del petrolio e del gas e la dipendenza dalle importazioni è destinata ad aumentare di pari passo rispetto alla crescita economica. Si stima, infatti, che nel prossimo decennio la domanda di energia possa raddoppiare. Per garantire la sicurezza energetica del paese il governo turco sta dunque attuando una duplice strategia. Sul versante interno, esso promuove la razionalizzazione dei consumi e lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabile – idroelettrico, solare geotermico e nucleare – con l’obiettivo di raddoppiare entro il 2023 l’energia prodotta da rinnovabili, che soddisfa oggi poco più del 10% del fabbisogno annuo primario. Parallelamente e sul versante esterno, la Turchia persegue una decisa politica di diversificazione della provenienza delle importazioni. Difatti, benché povera di risorse energetiche, la Turchia si colloca geograficamente nelle immediate vicinanze delle regioni di maggior produzione di gas e petrolio dell’area eurasiatica – dal Medio Oriente al Golfo Persico, dal Caspio all’Asia centrale. Obiettivo centrale della strategia energetica nazionale da un ventennio a questa parte è dunque quello di assurgere a snodo di distribuzione degli idrocarburi alle porte dell’Europa, ottenendo il risultato di diversificare le proprie rotte di approvvigionamento, diminuire i costi di importazione dell’energia (attraverso i guadagni derivanti dalle tasse di transito) e, non secondariamente, approfondire la propria valenza strategica nei confronti degli interlocutori europei.
Il paese è così divenuto crocevia di oleodotti internazionali: il Kirkuk-Ceyhan dall’Iraq e il Baku-Tbilisi-Ceyhan dall’Azerbaigian attraverso la Georgia. Il primo è operativo dal 1977 e riveste particolare importanza per l’Iraq e per il governo regionale curdo, che ha grande interesse a rafforzare il legame con la Turchia nella prospettiva di sviluppare il proprio potenziale energetico, sia in termini di investimenti che di trasporto verso i mercati occidentali. Il secondo è operativo dal 2006 e rappresenta un’importante via per il mercato internazionale di petrolio proveniente dalla regione del Caspio (e dal Kazakistan). Esso può trasportare circa 1,2 milioni di barili al giorno, ma tale capacità potrebbe essere ampliata. Infine l’oleodotto Samsun-Ceyhan, che aggirerebbe la congestionata rotta attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli e dovrebbe trasportare petrolio russo e kazako dal Mar Nero.
Le importazioni da Iraq e Caspio si affiancano a quelle provenienti da Russia e Iran, che restano i principali fornitori di petrolio del paese: la Turchia, infatti, fa parte dei paesi emergenti che gli USA esentano dalle restrizioni nelle importazioni dovute all’embargo imposto a Teheran. Il paese ha comunque accordato di ridurre del 20% gli acquisti di petrolio iraniano, allineandosi con i piani statunitensi.
Per quanto concerne il gas, la Turchia importa la risorsa principalmente dalla Russia (attraverso un gasdotto che transita in Bulgaria e il Blue Stream, che attraversa il Mar Nero), dall’Iran (gasdotto Tabriz-Ankara) e dall’Azerbaigian (gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum). Nel corso degli ultimi anni la Turchia si è inoltre dotata di impianti di rigassificazione del metano, che le consentono di importare gas in forma liquefatta da produttori non confinanti (Algeria, Nigeria, Qatar e Egitto). Accanto alla possibilità di incrementare la capacità di importazione da sud, principale progetto per l’aumento delle importazioni e del flusso di riesportazioni verso l’Europa è il gasdotto Transanatolico, predisposto d’intesa con l’Azerbaigian, che potrebbe consentire entro il 2017 di importare dal Caspio 16 Gmc/a di gas – 6 destinati al consumo interno e 10 all’esportazione verso l’Eu.
Le emissioni di CO2 sono più che raddoppiate dagli anni Novanta e si stima che continueranno ad aumentare, anche a causa della crescente domanda di energia. La Turchia fa parte della Convenzione sui cambiamenti climatici dal 2004 e del Protocollo di Kyoto dal 2009, ma in quanto economia in rapido sviluppo con basse emissioni pro capite non ha stabilito un limite quantitativo di riduzione delle emissioni.
L’esercito ha storicamente rivestito un ruolo di primissimo piano all’interno della vita pubblica turca. Il processo di democratizzazione interno passa, dunque, anche attraverso una minore ingerenza dell’esercito nella politica del paese, frutto, da un lato, del peculiare ruolo di guardiano dell’assetto istituzionale nazionale e, dall’altro, delle contingenze storiche che hanno accompagnato la nascita e l’evoluzione della Repubblica turca. Sin dalla formazione dello stato e in diretta conseguenza del sistema ottomano delle capitolazioni (secondo cui si riconosceva alle potenze europee il diritto di protezione delle minoranze religiose stanziate nell’Impero), la Turchia ha infatti interpretato le minacce all’integrità nazionale interne al paese come diretta emanazione delle minacce provenienti dall’esterno – la cosiddetta ‘sindrome di Sèvres’. Ciò ha comportato l’indivisibilità della politica di sicurezza nazionale nelle sue dimensioni interna ed esterna. D’altra parte, la protezione dell’integrità territoriale rispetto alle rivendicazioni provenienti da Grecia, Armenia e Siria, così come la costante minaccia militare sovietica nell’epoca della Guerra fredda, hanno contribuito a mantenere saldo il ruolo politico dello Stato maggiore turco per tutto il corso del 20° secolo.
La sovrapposizione tra sicurezza interna ed esterna e il conseguente primato dello Stato maggiore nella formulazione delle politiche nazionali è emersa soprattutto in relazione alla minaccia proveniente dal terrorismo curdo di matrice separatista, rappresentata dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partîya Karkerén Kurdîstan, Pkk), che dal 1984 ha impegnato le forze armate turche in un conflitto a bassa intensità che ha provocato decine di migliaia di vittime. Fenomeno transnazionale per definizione – per la dispersione della popolazione curda tra Turchia, Siria, Iraq settentrionale e Iran – la questione curda ha inficiato per due decenni tanto il coerente sviluppo dell’area sud-orientale del paese, bloccato da uno stato di sostanziale guerra civile, quanto le relazioni bilaterali di Ankara con i paesi interessati dalla presenza di Curdi. In particolare, il sostegno logistico fornito dal regime siriano alle attività del Pkk ha portato i due paesi alle soglie del conflitto armato nell’ottobre 1998, quando Damasco acconsentì a chiudere le basi curde nel proprio territorio e ad espellere il leader e fondatore del movimento, Abdullah Öcalan. Allo stesso modo, le ripetute azioni militari condotte in chiave antiterroristica dall’esercito turco nel territorio nord-ira-cheno hanno provocato tensioni tra Ankara e le autorità federali irachene, oltre che con quelle del Governo regionale curdo. Sullo sfondo della crisi siriana e della rottura dei rapporti tra Ankara e Damasco, le attività terroristiche transfrontaliere della guerriglia curda sono riprese in larga scala nel corso dell’ultimo biennio, riportando la questione in cima all’agenda politica e anche nei rapporti con i paesi vicini, minacciando i progressi registrati dal 2002. Con l’Akp, infatti, le draconiane strategie di contrasto del terrorismo curdo sembravano aver definitivamente lasciato il passo a una soluzione politica sul piano interno (riconoscimento dei diritti civili dei Curdi) e diplomatica su quello regionale (approfondimento della cooperazione bilaterale con i paesi interessati dal fenomeno), entrambe messe in crisi dall’attuale recrudescenza delle operazioni terroristiche.
A livello transfrontaliero, l’altro problema di sicurezza messo in moto dalla crisi siriana riguarda l’ondata di profughi che ha varcato il confine turco dall’inizio delle repressioni del regime siriano contro la popolazione. Secondo dati governativi, i profughi giunti in Turchia dalla primavera del 2011 ammontavano ad inizio 2013 a circa 151.000, ospitati in 14 campi allestiti in sette provincie del paese.
Il ruolo strategico svolto dalla Turchia durante la Guerra fredda – quando costituiva il baluardo contro una possibile spinta espansionistica sovietica verso gli scacchieri del Mediterraneo orientale e del Medio Oriente – ha giustificato la costruzione di un esercito nazionale che, nell’ambito Nato, è secondo per numero di coscritti solo a quello statunitense. Nonostante la modernizzazione dell’apparato militare e la scomparsa della minaccia sovietica, l’esercito turco detiene ancor’oggi questo primato.
Nonostante le divergenze di vedute rispetto alla politica regionale, la relazione con gli Stati Uniti resta di fondamentale importanza per ciò che concerne le politiche di sicurezza di Ankara. La Turchia ospita sul proprio territorio l’importante base aerea statunitense di Incirlik, in una posizione strategica per la proiezione degli Stati Uniti all’interno della regione del Medio Oriente. Mentre le recenti tensioni con Israele hanno congelato un asse trilaterale di cooperazione che negli anni Novanta era stato centrale per le politiche di sicurezza turche, i rivolgimenti mediorientali hanno generato nuovi margini di collaborazione strategica con l’Alleanza atlantica. Nel dicembre 2012, a seguito di ripetuti incidenti di confine con la Siria, la Turchia ha richiesto e ottenuto dalla Nato il dispiegamento nell’area di missili Patriot, giunti nel paese a partire dal gennaio 2013.
La Turchia, d’altra parte, superando le iniziali esitazioni, ha garantito il proprio sostegno alle operazioni della Nato in Libia nel 2011 ed è impegnata in molte missioni di peacekeeping in ambito delle Nazioni Unite e della Nato, come quelle in Libano (Unifil) e in Afghanistan (Isaf), oltre ad avere un contingente di circa 36.000 soldati nella parte settentrionale dell’isola di Cipro, la de facto Repubblica Turca di Cipro Nord (Kktc).
di Carlo Marsili
La politica estera turca prima della caduta del muro di Berlino era rimasta pressoché immobile nei termini che la geografia, la storia e soprattutto le esigenze della Guerra fredda imponevano. Filoamericana, antisovietica, diffidente verso il mondo arabo e l’Iran, in ossequio alla tradizione kemalista all’ombra dei militari, che favorirono invece le relazioni con Israele. Agli inizi degli anni Novanta, Ankara poteva essere considerata uno dei maggiori beneficiari della fine del sistema sovietico. Aveva visto sparire una minaccia ai propri confini e si schiudevano interessanti prospettive di proiezione economica e culturale nelle nuove repubbliche centro-asiatiche e nella regione balcanica. Le prospettive di allargamento della Nato e dell’Unione Europea ai paesi dell’Europa orientale conferivano alla Turchia una nuova finestra di opportunità in vista del suo avvicinamento all’Europa. Sulla frontiera sud-occidentale il maggior problema era rappresentato dalle conseguenze della Prima guerra del Golfo, con le loro ripercussioni sulla questione interna curda. La salda appartenenza della Turchia alla sfera di sicurezza occidentale consentì però di affrontare tali questioni in termini relativamente agevoli. Le conseguenze degli eventi dell’11 settembre 2001 hanno alterato il quadro, obbligando Ankara a confrontarsi con un contesto regionale più complesso, caratterizzato dall’intervento americano in Iraq. Ciò ha costretto la politica estera turca ad adattarsi a una situazione in cui l’alleato americano perseguiva la modifica degli equilibri nel Medio Oriente allargato. L’avvento al governo dell’Akp (il Partito per la giustizia e lo sviluppo) a fine 2002 coincise con una risposta immediata al nuovo quadro geopolitico, consistente nell’obiettivo dell’ingresso nell’Unione Europea. L’attuale riduzione della forza di attrazione europea, dovuta ai ripensamenti franco-tedeschi e allo stallo negoziale su Cipro più che a responsabilità interne, ha dato maggiore spazio alle correnti di politica estera inclini a rafforzare il rapporto con il mondo mediorientale, facendo leva sugli interessi economici e le affinità religiose e culturali. Si tratta di un fenomeno sviluppatosi lentamente, tanto che lo spartiacque può farsi risalire al maggio 2009, quando la titolarità del ministero degli esteri è passata al professor Ahmet Davutog˘lu. Il nuovo scenario, definito di ‘profondità strategica’ all’insegna del principio ‘nessun problema con i vicini’, si amplia quindi a dismisura verso le aree di crisi, favorito da una assertività turca basata sul successo economico di questi anni. Si assiste quindi a un rinnovato attivismo nei Balcani, articolato su una combinazione di elementi tradizionali quali la difesa delle minoranze musulmane, l’integrità territoriale della Bosnia, l’appoggio alle aspirazioni di Kosovo, Montenegro, Macedonia e Albania, e scelte innovative, quali l’intensificazione dei legami con Croazia e Slovenia, ma anche il riconoscimento del ruolo chiave della Serbia. Nel 2007 viene lanciata la trilaterale turco-afghano-pakistana sulla cui linea si pone la disponibilità a partecipare all’operazione di pace in Libano e il tentativo di mediazione tra Siria e Israele. Ankara assumeva quindi l’iniziativa per la stabilità del Caucaso, all’indomani del conflitto russo-georgiano in Ossezia del Sud, in cui essa stessa, Russia, Georgia, Armenia e Azerbaigian dovevano essere coinvolte. Ha cercato di ricucire i rapporti con l’Armenia nel settembre 2008 con la ‘diplomazia delle partite di calcio’ fino a giungere un anno dopo alle intese di Zurigo, rimaste congelate per la mancata ratifica di entrambi i parlamenti a causa soprattutto del nodo irrisolto del Nagorno Karabach. I rapporti con la Siria sono nettamente migliorati, tanto da prospettare un meccanismo di libera circolazione delle merci e delle persone esteso a Giordania e Libano. Il rafforzamento delle relazioni con l’Iran, fino ad opporsi alle sanzioni, è legato soprattutto ai forti interessi economici e commerciali tra i due paesi, anche se al vertice Nato di Lisbona del novembre 2010 la Turchia ha aderito al nuovo concetto strategico, mettendosi a disposizione per il progetto di difesa missilistica a condizione che Teheran non venisse menzionata. Le relazioni con Israele sono peggiorate sia in relazione alla questione palestinese, sia per l’attacco alla flottiglia turca diretta a Gaza. Con la Russia si è addivenuti a un partenariato strategico, concretizzando progetti congiunti in campo energetico. I rapporti con gli Stati Uniti, e in certa misura con i paesi europei, hanno risentito di tutto ciò, ma chiedersi se l’Occidente abbia perduto la Turchia appare fuorviante. Il contesto globale è cambiato e ciò ha indotto Ankara ad adottare una strategia regionale più dinamica che in passato, ma non necessariamente conflittuale con le posizioni occidentali. Essa potrebbe anzi rappresentare una valenza in più per l’influenza stabilizzatrice nell’area mediorientale.
I legami tra Turchia e Unione Europea risalgono agli anni Sessanta, poco dopo la creazione della Comunità Economica Europea (Cee). Già nel 1963, infatti, la Turchia firmò un accordo di associazione con la Cee per l’istituzione graduale di un’unione doganale, poi stabilita nel 1995. Tuttavia, durante gli anni Ottanta le relazioni si raffreddarono a causa del colpo di stato del settembre del 1980 e del perdurare del contenzioso territoriale con la Repubblica di Cipro.
In seguito, nel 1987 la Turchia fece domanda di adesione alla Cee, ma il processo di adesione si è rivelato piuttosto lento. Solo dal 1999 il paese ha lo status di candidato e, tra il 1999 e il 2004, la Turchia ha portato avanti riforme di rilievo per il raggiungimento dei criteri di Copenaghen (i requisiti necessari per l’ammissione), mirando in particolare ad assicurare la stabilità delle istituzioni, lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e delle minoranze.
Nel 2005 sono stati avviati i negoziati per l’adesione che vertono sugli aspetti della legislazione comunitaria cui la Turchia deve allinearsi. Essi tuttavia rimangono in parte bloccati per la mancata attuazione da parte della Turchia del Protocollo di Ankara, in base al quale essa dovrebbe garantire l’accesso ai prodotti provenienti dalla Repubblica di Cipro. Inoltre, essi sono in parte bloccati anche da Francia, Austria, Germania e Cipro. In effetti, Germania e Francia sono contrarie all’adesione di un paese che dovrebbe nel tempo diventare il più popoloso d’Europa, e quindi potrebbe avere più peso politico delle medesime. Tradizionali e principali sostenitori dell’allargamento alla Turchia restano invece Italia, Spagna, Regno Unito e Svezia. Le diffuse ritrosie che l’ingresso della Turchia nell’Eu ancora incontra tra i suoi membri risultano tuttavia evidenti dalla circostanza che, dei 35 capitoli di cui si compone il negoziato d’adesione, solo 13 sono stati effettivamente aperti e uno soltanto (relativo a scienza e ricerca) già chiuso.
In generale, il percorso di avvicinamento della Turchia all’Unione sembra dunque scontare un ‘doppio affaticamento’ frutto, da un lato, delle difficoltà interne all’Eu nell’affrontare un nuovo allargamento dopo quelli del 2004 e 2009 (che hanno accolto dodici nuovi membri) e, dall’altro, di un processo di riforme interno alla Turchia, che rallenta proporzionalmente alle difficoltà del dialogo con Bruxelles. Che gli ostacoli posti da alcuni membri dell’Unione all’ingresso della Turchia in Europa vengano percepiti, nel paese, come pregiudiziali e che, di conseguenza, stiano avendo un effetto negativo sul sostegno dell’opinione pubblica turca all’ingresso nell’Eu è ampiamente dimostrato dalle percentuali di sostegno al processo di integrazione europea della popolazione, calato vistosamente negli ultimi anni (dal 65% del 2002 al 38% del 2010).
I tentativi di proporre alla Turchia una partnership privilegiata in luogo della piena membership – provenienti principalmente dall’asse franco-tedesco – sono stati fermamente rigettati da Ankara, che non contempla altra alternativa rispetto alla piena partecipazione all’Unione.
La Repubblica di Turchia, così come è stata fondata da Mustafà Kema¯l negli anni Venti del secolo scorso, ha un impianto istituzionale basato su un rigoroso laicismo. Atatürk ha compiuto tutta una serie di riforme con lo scopo di occidentalizzare il paese, rendendolo quanto più possibile libero dalla presenza dell’elemento religioso nella vita pubblica. In tale ottica, ha posto sotto il controllo statale le istituzioni religiose, eliminato i caratteri arabi dall’alfabeto – sostituendo loro quelli latini – e imposto usi e costumi di carattere occidentale. Nella vita politica turca, soprattutto da parte dell’ambiente militare e nazionalista, erede diretto dell’ideologia kemalista, l’islam è tradizionalmente visto come una potenziale fonte di minaccia alla stabilità interna e, per questo motivo, le istituzioni statali hanno sempre tentato di estrometterlo dal panorama politico, nonostante la società turca si identificasse ancora notevolmente con i valori della religione musulmana.
Con il cammino di riforme e di aperture alla società civile, inaugurato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta dall’ex primo ministro Turgut Özal, anche i movimenti legati all’islam politico hanno potuto fare il loro ingresso nella vita pubblica della Turchia. Nel 1996 il leader del movimento politico legato ai valori dell’islam, Necmettin Erbakan, ottenne la maggioranza alle elezioni politiche e il suo Partito del benessere (Refah Partisi, Rp) divenne il primo movimento di ispirazione dichiaratamente islamica a guidare un governo turco. Nonostante il Rp, per quanto fosse un partito conservatore, non avesse manifestato inclinazioni verso il radicalismo islamico, l’esercito, storicamente garante dell’impianto secolare del paese, si sentì comunque autorizzato a fare pressioni affinché il governo si dimettesse. Nel 1997, dunque, a seguito di quello che sarebbe stato definito un ‘colpo di stato post-moderno’, Erbakan fu costretto sotto la minaccia di un intervento militare a lasciare il potere e il Rp venne sciolto. Nel 2001 alcuni politici precedentemente vicini a Erbakan, tra cui l’attuale presidente della repubblica Abdullah Gül e il primo ministro Erdogˇan, ex sindaco di Istanbul, formarono una nuova formazione politica, l’Akp, che si pone l’obiettivo allo stesso tempo di raccogliere l’eredità e rinnovare l’ideologia di Erbakan.
L’Akp, sebbene dichiaratamente legato ai valori della religione islamica, ha saputo coniugare tali ideali con il nuovo contesto internazionale, assumendo una posizione filoeuropeista, favorendo una libera economia di mercato e contrapponendo al nazionalismo secolare tipico del kemalismo un nazionalismo in grado di conciliare appartenenza alla nazione turca e valori musulmani. La peculiarità di questo ‘islam turco’ consiste proprio nella convivenza di diverse anime all’interno dell’Akp, il quale è stato in grado di raccogliere intorno a sé i favori di gran parte della popolazione turca e di portare avanti il processo di democratizzazione del paese, resistendo alle pressioni provenienti dagli ambienti militari.
La politica estera improntata da Ahmet Davutog˘lu, ministro degli esteri turco e precedentemente consigliere del primo ministro Erdogˇan per le relazioni con l’estero, si fonda sulla cosiddetta dottrina della ‘profondità strategica’. Tale strategia prevede una politica attiva in tutti i teatri confinanti e vicini, con l’obiettivo di estendere gli interessi del paese oltre i propri confini territoriali e tessere buone relazioni con gli attori delle regioni caucasica, mediorientale, balcanica, dell’Asia Centrale e, ultimamente, dell’Africa. Nel perseguire tale politica, che continua ad andare di pari passo con i rapporti economici, politici e diplomatici con il mondo occidentale, un ruolo importante è assegnato alla promozione dell’interdipendenza economica. Ankara, che fa parte del G20, punta infatti a istituire relazioni con le realtà delle aree menzionate, contando sulla sua forza economica propulsiva, potenzialmente in grado di trainare tali partner, grazie alla politica di investimenti e all’aumento degli scambi commerciali. L’elemento economico risulta dunque prioritario nelle relazioni con i paesi vicini e, più in particolare, si propone come veicolo di crescita economica per i confinanti paesi arabi – non a caso, i governi dell’Akp hanno risolutamente investito nell’approfondimento dell’interscambio con quest’ultimi. Devono interpretarsi in quest’ottica i provvedimenti legislativi finalizzati alla libera circolazione di merci, persone e capitali con gli interlocutori meridionali – Giordania, Siria e Libano in primis –, inseriti coerentemente in un più ampio progetto di progressiva integrazione economica che si è tuttavia parzialmente interrotto in conseguenza della crisi siriana.
Il 10 agosto del 1920, nella cittadina francese di Sèvres, l’Impero ottomano firmava il trattato di pace che definiva i termini dell’accordo tra questo e le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale – Francia, Italia e Regno Unito (alla firma prese parte anche il Giappone). Con il Trattato di Sèvres venivano dunque definiti quelli che sarebbero dovuti essere i nuovi confini della Turchia dopo la caduta dell’Impero ottomano.
Le decisioni prese in questo ambito furono molto sfavorevoli al paese, che si vedeva privato di tutti i territori orientali e del controllo sugli Stretti. In particolar modo, i territori a maggioranza armena dell’Anatolia orientale venivano assegnati all’Armenia e, inoltre, si prevedeva la creazione di un Kurdistan indipendente, che includesse anche l’attuale regione sud-orientale della Turchia. L’Italia, la Grecia e la Francia avrebbero inoltre beneficiato di zone di influenza sia sulle coste sud-occidentali del paese sia a sud, ai confini con la Siria. Il territorio della Turchia veniva così ridotto alla sola penisola anatolica.
Le decisioni prese a Sèvres – che sarebbero state superate solo grazie alla guerra d’indipendenza guidata da Mustafà Kema¯l – avrebbero lasciato nella nuova classe dirigente turca il ricordo del tentativo di smembramento del paese, perpetrato dalle potenze europee con il sostegno delle nazionalità ad esse affini presenti sul territorio nazionale. Si parla dunque comunemente di ‘sindrome di Sèvres’ per riferirsi a una latente sindrome da accerchiamento che caratterizza la concezione turca della sicurezza nazionale, passibile di essere messa in discussione contemporaneamente dall’esterno e dall’interno del paese.