Turchia
«Non aggrottare le ciglia, ti imploro, o timida mezzaluna ...»
(inno nazionale turco)
Molti nodi da sciogliere
di
22 luglio
Nelle elezioni parlamentari anticipate, il partito islamico moderato AKP del primo ministro Recep Tayyp Erdogan conquista 340 dei 550 seggi del Parlamento monocamerale. Solo altri due partiti superano la soglia di sbarramento del 10%: i socialdemocratici del CHP e l’estrema destra del MHP. La larga maggioranza dell’AKP consentirà di eleggere presidente della Repubblica Abdullah Gul.
Una lunga serie di problemi irrisolti
La travolgente vittoria di Recep Tayyip Erdogan nelle elezioni legislative del luglio 2007 e il consolidamento della sua formazione (AKP, Partito della giustizia e dello sviluppo) a compagine leader del governo portano la Turchia non solo a misurarsi con altri cinque anni di amministrazione islamico-moderata, ma a dover sostenere una nuova serie di difficili sfide. Un confronto serrato in campo sia interno sia internazionale, che vedrà il paese erede dell’Impero Ottomano chiamato ad affrontare in maniera significativa molti nodi fin qui irrisolti, non sempre per proprio demerito, ma spesso con un certo grado di responsabilità.
Saranno gli eventi in scadenza, come quello che vede intorno al 2015 la necessità di decidere o meno la propria appartenenza europea, a stringere Ankara in un impegno che la porterà definitivamente, almeno da un punto di vista formale, in Occidente o in Oriente. Un problema, questo, destinato ad accendere nuove polemiche, a giudicare sia dalla sostanziale freddezza della maggioranza dei 27 membri dell’Unione nell’accogliere il candidato anatolico, sia dal rigido orgoglio turco, che costringerà prima o poi i governanti a una scelta di campo autonoma, quale che sia l’orientamento comunitario.
L’Europa è uno dei nodi, ma altri si impongono all’attenzione, solo a guardare il quadrante internazionale: la divisione di Cipro, la questione armena, il problema curdo, la guerra con i ribelli del PKK (il Partito dei lavoratori del Kurdistan fondato nel 1984 da Abdullah ‘Apo’ Ocalan), spostatasi oltre confine nel territorio nordiracheno dove i fedelissimi di Apo hanno trovato rifugio. Nodi incancreniti da decenni e il cui mancato scioglimento – come si è detto, non imputabile alla sola parte turca – finirà per costituire, di volta in volta, un ostacolo al raggiungimento di nuovi obiettivi.
Sarà capace il secondo esecutivo guidato da Erdogan, l’unico governo turco a essere mai stato confermato dopo un primo mandato, a risolverli? L’orientamento è pessimista. Non per sfiducia verso l’amministrazione islamico-moderata, che negli anni trascorsi al potere ha anzi dato nuovo impulso, riuscendo a varare le riforme fallite nei decenni precedenti da tutti gli altri governi di centro-destra e di centro-sinistra. Ma per l’impossibilità di vedere un chiaro intendimento, un disegno dedicato, una determinazione precisa nel voler sgombrare il campo dalle tante ombre che ancora offuscano il cammino di un paese dotato altrimenti di capacità e di opportunità straordinarie. Per sé e i suoi interlocutori internazionali.
Troppi appaiono infatti ancora oggi i veti interni, e non di poco peso, piazzati da ambienti dell’opposizione parlamentare, da componenti dell’élite militare e da tutti quei rami morti ancora presenti nel paese e ascrivibili sotto la formula derin devlet («Stato profondo»), composto da spezzoni di servizi, burocrazia amministrativa, ultranazionalismo fanatico, che ostacolano concretamente, o impegnerebbero comunque in una battaglia feroce, chi avesse il coraggio di volersi fare davvero carico di un simile progetto. Ma anche troppo distanti da questo impegno appaiono i piani di un partito – l’AKP appunto – che si è dedicato al sostegno dei ceti medio-bassi (dando pane, casa, scuola, lavoro, e ora profondendosi nello sviluppo di una classe imprenditoriale di forte impronta religiosa) e che intende finalmente riscuotere anche in termini di potere il diffuso consenso.
Il golpe virtuale
Significativo, da questo punto di vista, il braccio di ferro cominciato nell’aprile 2007 sia con la società laica sia con la potente dirigenza militare circa l’uso del velo, che ha portato a un voto anticipato di cinque mesi rispetto alla scadenza regolare. Il blocco imposto dai generali (come si vedrà, con un comunicato diramato via Internet che ha fatto pensare a un intervento militare modernizzato rispetto ai quattro golpe già compiuti nella seconda metà del secolo scorso) al candidato di Erdogan alla presidenza della Repubblica, il suo vice e ministro degli Esteri, Abdullah Gul – la cui moglie, come quella di Erdogan, indossa il velo –, ha trovato il conforto di milioni di persone che nei giorni successivi si sono riversate in piazza per manifestare contro il premier. In ballo, sostenevano i laici ammantati di bandiere con l’immagine di Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, c’è molto di più che una
first lady con il turban (espressamente vietato negli edifici di Stato e nelle università dalla Costituzione, che non ammette il velo, considerato un simbolo politico più che religioso): il pericolo di veder ridotti in maniera drastica quegli spazi di libertà e di occidentalizzazione conquistati 80 anni fa dallo stesso fondatore Mustafa Kemal. «Noi non abbiamo un’agenda segreta come ci accusano – ha risposto Gul ai suoi critici – siamo anzi artefici di una rivoluzione silenziosa e in cinque anni di governo abbiamo portato il paese verso traguardi mancati in precedenza da tutti».
Il luogo di battaglia si è così spostato proprio sul palazzo di Cankaya, sede ad Ankara della presidenza della Repubblica. Il blocco operato su Gul da esercito e opposizione ha fatto scattare in Erdogan l’iniziativa non solo di ripresentarlo come candidato alla presidenza, ma di puntare in futuro sulla scelta diretta del capo dello Stato da parte del popolo, abbandonando la pratica dell’elezione parlamentare. Un’azione tesa secondo alcuni osservatori a ottenere finalmente quella posizione di visibilità cui il premier da tempo aspirava e dirottata sul suo vice solo dopo il sollevamento delle piazze nei centri urbani non anatolici.
La vittoria di Erdogan
Ma alla luce del risultato elettorale, quello che è stato definito un cyber-coup, un golpe virtuale, ha finito per trasformarsi per i generali in un boomerang. Il responso delle urne, hanno ammesso gli stessi alti ufficiali, è stato molto netto. L’AKP di Erdogan ha ottenuto il 46,6% dei favori (con 340 deputati in Parlamento), i socialdemocratici del CHP (Partito repubblicano del popolo, fondato da Ataturk) un modesto – rispetto alle aspettative – 20,8% (con 112 parlamentari), i Lupi grigi del Movimento di azione nazionalista MHP un ottimo 14,3% (71 membri in Parlamento). Gli indipendenti eletti sono risultati 27, di cui ben 23 curdi, le donne hanno raddoppiato la loro presenza nell’Assemblea nazionale conquistando 50 seggi. Ma ha colpito l’opinione pubblica generale soprattutto il balzo in avanti dell’AKP che, contrariamente a tutti i sondaggi, ha intascato oltre il 12% di preferenze in più rispetto al 2002. Merito, a detta di molti esperti, dei notevoli risultati economici conseguiti, segno che i Turchi più che temere lo spauracchio dell’integralismo religioso agitato dall’opposizione di centro-sinistra hanno premiato la stabilità.
È infatti stata subito la stessa opposizione ad attirarsi accuse di inefficacia e di scarsa incisività. Non solo a sinistra. Nel centro-destra moderato l’emblema del fallimento è rappresentato dalla mancata fusione nel costituendo Partito democratico di due vecchie formazioni di notevole richiamo popolare, il Partito della Retta via e il Partito della Madrepatria. La lite sulla composizione dei seggi elettorali due mesi prima del voto ha fatto saltare un progetto che avrebbe portato in Parlamento (dove la soglia di ammissione elettorale è molto alta, il 10%) un gruppo inedito e tutto sommato tradizionalmente premiato dagli elettori (negli oltre 80 anni della Repubblica, il paese è stato governato dalla sinistra solo per due anni). È andata meglio solo agli estremisti dell’MHP, composto per lo più da ultranazionalisti e dalle schegge vecchie e nuove dei Lupi grigi di antica memoria: molti i consensi per Devlet Bahceli, l’uomo che doveva traghettare il partito verso una formazione di respiro più moderato e che invece si è sempre più dimostrato contrario all’avvicinamento della Turchia all’Europa, arrivando a sventolare davanti al primo ministro un cappio per chiedere l’impiccagione di Ocalan, da più di otto anni confinato nella prigione-isola di Imrali, sul Mare di Marmara.
Le critiche maggiori si sono però abbattute sul centro-sinistra, il cui Partito repubblicano del popolo è destinato a rimanere anche questa volta fuori dalla stanze del potere reale. L’accusa bruciante piovuta sul leader socialdemocratico Deniz Baykal è quella di non aver guidato al meglio un partito che di sinistra porterebbe solo il nome, esprimendo in realtà i valori e la volontà politica in cui si riconoscono nell’Assemblea nazionale i militari, così da costituire quello che un autorevole commentatore, Cengiz Candar, ha definito «il dipartimento pubbliche relazioni dell’esercito», con a disposizione un quotidiano di antica tradizione, Cumhuriyet («La repubblica»), incline ad avallare tuttora i vecchi tratti del kemalismo piuttosto che appoggiare istanze economiche e sociali più vicine a una sinistra occidentale ed europea. Le paure di una deriva fondamentalista agitate da Baykal si sono invece ritorte contro il suo gruppo. «La Turchia – ha scritto un altro dei suoi osservatori più lucidi e spietati, il liberale Metin Munir, su Milliyet – è forse l’unico paese al mondo ad avere un problema non con il partito al governo, ma con la sua opposizione».
Il pugno dei militari
L’anomalia più evidente dell’intricato scenario turco resta in ogni caso il fatto di avere alle spalle, come grande tutore poco visibile ma sempre presente, la potente classe militare, che tutto controlla e decide, trincerandosi dietro la missione di dover proteggere i valori fondanti della Repubblica laica.
Una chiara dimostrazione è stata proprio la presa di posizione di fine aprile 2007 sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Il capo di Stato uscente, l’ex magistrato Ahmet Necdet Sezer, che durante il suo mandato di sette anni si era più volte scontrato con Erdogan su questioni istituzionali, doveva ormai lasciare campo libero. Ma l’insipienza dell’opposizione non è stata in grado di presentare un candidato credibile alla sua successione. Il capo del governo da tempo teneva segretamente a quell’incarico, ma le sue ambizioni sono state ripetutamente frenate ed egli si è riservato fino all’ultimo, in qualità di presidente del suo partito, di decidere il nome del candidato conservatore. Quando Erdogan dal palco del Parlamento ha fatto il nome del «mio fratello Abdullah Gul», molti hanno ritenuto che all’AKP il colpo grosso fosse ormai riuscito. La formazione islamico-moderata, nata solo nel 2001, già annoverava, allora con appena il 34% dei voti, la presidenza del Consiglio (e la vicepresidenza), la poltrona di speaker della Camera, il Ministero degli Esteri, la maggioranza assoluta in un governo monocolore. Adesso aspirava anche alla poltrona più alta sulla collina di Cankaya.
I generali, che da sempre si considerano i tutori della laicità – come del resto prevede espressamente la Costituzione redatta dai kemalisti – a quel punto hanno stabilito che la scalata degli islamici moderati dovesse essere fermata. Nella notte del 27 aprile, come in un ‘pronunciamento’ proveniente da un’altra era, hanno messo nella loro pagina Internet l’altolà a Gul: «Nel dibattito sulla laicità in corso per le elezioni presidenziali – si legge nel comunicato diramato dall’esercito poco prima di mezzanotte – non bisogna dimenticare che le Forze armate turche sono una parte del dibattito e sono protettrici decise della laicità. Lo Stato Maggiore segue con preoccupazione gli sviluppi. Le Forze armate esprimeranno apertamente la loro posizione e le loro scelte quando questo diventerà necessario. Nessuno abbia dubbi su questo». Parole insolite e durissime, subito colte da un paese dove gli alti ufficiali non sono soliti esprimersi in ambito pubblico (non è mai accaduto che un capo di Stato Maggiore abbia concesso un’intervista a un grande giornale europeo), ma se appena lasciano filtrare il loro pensiero tutti i cittadini sono rispettosamente abituati a osservarlo in silenzio.
Il cyber-coup, un’evoluzione comunque notevole rispetto ai tre sanguinosi colpi di Stato avvenuti in passato (1960, 1971, 1980) e a quello cosiddetto ‘bianco’ (senza spargimento di sangue) del 1997, sembrava riuscito. Gul non riusciva a trovare i voti necessari in Assemblea per la sua elezione formale
e l’opposizione socialdemocratica vicina agli ufficiali poteva fermare il resto del processo, innescando una crisi istituzionale che ha portato alla decisione di indire elezioni generali anticipate a luglio. Il periodo di vacatio alla presidenza sarebbe stato coperto dallo stesso Sezer, così di nuovo in carica con sollievo di militari e sinistra. Ma nell’aspro confronto si è aperto presto un nuovo capitolo per la pronta ritorsione di Erdogan, il quale ha rilanciato immediatamente il blocco inferto al suo candidato con la proposta di elezione diretta del capo dello Stato da parte del popolo: una carta da giocare prima o poi in un referendum spartiacque, che potrà rivelarsi più che mai un decisivo faccia a faccia fra la società civile e quella islamica espressa dal partito al potere. La larga maggioranza ottenuta dall’AKP ha consentito di risolvere comunque lo scontro il 28 agosto, quando Gul è stato eletto alla massima carica istituzionale, raccogliendo nel terzo scrutinio 339 voti su 550 deputati. Luci e ombre si riflettono dunque sull’operato dei generali. Una forza armata che non è un esercito normale, come in qualsiasi altra parte del mondo, ma che si considera l’elemento costituente del paese, dopo aver combattuto per fondare nel 1923 la Repubblica sorta dalle ceneri dell’Impero Ottomano. Da sempre si ritiene un baluardo contro le potenti masse islamiche e le organizzazioni considerate terroristiche come il PKK, a costo di incorrere anche in clamorosi incidenti, come quello avvenuto nel novembre del 2005 nella città curda di Semdinli, quando si scoprì che un attentato contro una libreria di attivisti era stato portato a termine da militari in borghese, scovati dai cittadini subito dopo l’azione.
Forti di 600.000 uomini, di cui 35.000 ufficiali di altissimo livello e preparazione, in quanto a potenza secondi nella NATO solo all’esercito degli Stati Uniti d’America, i militari turchi sono presenti nelle istituzioni repubblicane all’interno del Consiglio di sicurezza nazionale, una sorta di governo sovraistituzionale in cui davanti ai cinque ministri più importanti siedono i cinque comandanti delle Forze armate (il capo di Stato Maggiore, il suo vice, i comandanti di terra, nave, cielo), concertando le decisioni e indirizzando l’operato del capo dell’esecutivo e dei responsabili di Esteri, Interno, Difesa, Economia. Dotate di una forza finanziaria autonoma, costituita dalla Oyak, il Fondo di solidarietà e di aiuto dei militari, nata nel 1961 (dopo il primo golpe) e trasformatasi in una vera e propria holding (presente nei comparti automobilistico, alimentare, assicurativo e dell’edilizia, solo per citarne alcuni) con un giro d’affari di 6 miliardi di euro nel 2005, le Forze armate godono inoltre di un diffuso consenso nazionale (sono loro molti ospedali e scuole). Tutti i sondaggi, anche dopo il voto di luglio e la sostanziale sconfitta dei militari, continuano a considerare l’esercito come l’istituzione più rispettata nel paese, con addirittura l’85% dei favori.
L’attuale numero uno, il generale Yashar Buyukanit, un ‘falco’ più volte in aspro contrasto con Erdogan, ha spesso minacciato l’intervento nel Nord dell’Iraq, mobilitando le truppe al confine a caccia dei rifugi dei guerriglieri del PKK, nella guerra ormai ventennale che oppone l’armata turca ai fedelissimi di Ocalan non solo nel Sud-Est anatolico, ma anche oltre frontiera. Alcuni intellettuali sostengono che il conflitto sarebbe addirittura mantenuto in vita per permettere agli ufficiali visibilità e potenza. Denuncia per esempio Alper Gormus, direttore del settimanale Nokta chiuso nell’aprile 2007 dopo aver pubblicato le prove di un progetto di golpe contro Erdogan presenti nel diario di un alto ufficiale navale: «Sono sempre loro a dettare le linee-guida: lo fanno nella questione di Cipro, oppure per quanto riguarda il problema curdo. Sono loro il burattinaio dietro l’articolo 301 del codice penale che punisce con il carcere “chi offende l’identità turca”, come accaduto a tanti scrittori, da Orhan Pamuk a Elif Shafak. Per rimanere al potere, costruiscono paure e manipolano la gente. Già, la Turchia basa le sue fondamenta su due pilastri: la paura dell’islamismo e la divisione del paese. E su questi timori poggiano la loro forza. Da bambini a scuola ci dicono: siamo circondati da nemici! E questo funziona».
Secondo altri osservatori, come Zeyno Baran, ricercatrice ed esperta di questioni turche all’Hudson Institute di Washington, la responsabilità però è degli stessi Turchi, troppo accondiscendenti con i generali: «Invece di assicurarsi che il sistema secolare sia preservato dal processo democratico – spiega la studiosa – la gente in passato ha spesso votato in maniera irresponsabile, pensando che, intanto, se qualcosa di sbagliato fosse successo i generali lo avrebbero rimesso a posto». Quella dei militari come vero difensore della democrazia è un’anomalia per certi aspetti storicamente comprensibile, ma difficilmente digeribile a qualsiasi latitudine, tanto più in un paese europeo. Il che in certa misura giustifica le perplessità dell’Unione Europea.
Un nuovo capitalismo islamico
Netto vincitore della battaglia elettorale è stato dunque l’AKP, che negli ultimi anni ha giocato la sua partita con abilità e molta spregiudicatezza, le caratteristiche del suo stesso leader. Bisogna andare a Kayseri, l’antica Cesarea, nel cuore dell’Anatolia più laboriosa, per scoprire il successo delle imprese che forniscono il sostegno economico alla compagine di Erdogan: una città di un milione di abitanti, patria di Abdullah Gul. Principale centro manufatturiero del paese, è stata capace di formare, nel giro di 20 anni, una borghesia di tipo islamico che si riconosce in tutto e per tutto nell’affabile e pio Gul, prototipo e simbolo di una nuova élite conservatrice. Questa classe sociale, a cui fino a pochi decenni fa è mancato un punto di riferimento politico forte, si sta ora imponendo da un punto di vista finanziario, negoziando continuamente per acquisire potere: con la burocrazia, con l’amministrazione giudiziaria, con le università e anche con i militari. Il processo è cominciato da quando il Partito della giustizia e dello sviluppo è assurto da solo al governo e non è ancora terminato. «In realtà la dirigenza dell’AKP – sostiene l’accademico e commentatore Soli Ozel – è più interessata a infiltrare il sistema che a rovesciarlo». Kayseri è la capitale anatolica di un nuovo capitalismo islamico, lontana dagli splendori e dai lussi di Istanbul. Qui le teste velate delle donne sono in maggioranza e i ristoratori non servono alcol. Ma questo vecchio centro commerciale situato proprio in mezzo al paese è stato capace di trasformarsi da cittadina di retroguardia nella città simbolo della riscossa musulmana. Il 98% degli affari sono regolati dai membri delle famiglie, per la maggior parte associati nella congrega religiosa dei Nakshibendi (di cui Gul fa parte), che si sono consorziati in un patto di mutua assistenza. Oggi fra le 500 aziende più importanti del paese, ben 17 sono di Kayseri, città che in particolare produce il 45% di tutti i mobili costruiti in Turchia.
La crescita della società civile
In un contesto generale così polarizzato è estremamente difficile per la società civile, per una classe intellettuale e borghese di livello europeo, riuscire a emergere. Apparso con forza subito dopo il terremoto dell’agosto 1999 (18.000 vittime) grazie al decisivo apporto di alcune radio private che, nell’immobilità iniziale delle istituzioni, riuscirono con successo a incanalare gli aiuti nelle zone più colpite dal sisma, questo embrione di società civile appena concepito ha poi trovato molte difficoltà a crescere ed esprimersi a livello politico. Il risveglio sembrava avvenuto nel maggio 2007, quando di fronte al tentativo da parte del partito islamico di imporre il proprio candidato alla presidenza della Repubblica, la gente è scesa in piazza copiosa, nelle principali città dell’Ovest turco, invocando trasparenza e democrazia. «Né con l’esercito, né con la sharia» è stato lo slogan gridato nei comizi spontanei convocati per molte domeniche di seguito. Ma l’eccessiva vicinanza ai militari di alcune formazioni di ispirazione laica, soprattutto il partito socialdemocratico, ha finito per vanificare la spinta della società civile, indirizzandola addirittura verso una direzione opposta. Molti laici hanno infatti scelto all’ultimo di dare il loro voto a Erdogan. La classe intellettuale per un lungo periodo buio si è trovata sotto il tiro tanto delle autorità quanto degli ultranazionalisti. Il caso più eclatante è stato naturalmente quello del premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, processato per aver accennato in un’intervista alle atrocità commesse su Curdi e Armeni, poi assolto, ma minacciato di morte e costretto a vivere gran parte del suo tempo all’estero. Sono insieme con lui almeno una decina gli scrittori, i giornalisti, gli editori, persino i traduttori, da Elif Shafak a Murat Belge, da Hasan Cemal a Ismet Berkan, incappati nelle spire dell’articolo 301 del codice penale. L’uccisione a Istanbul il 19 gennaio 2007 del giornalista turco di origine armena Hrant Dink, direttore del settimanale Agos molto attento al dialogo fra Turchi e Armeni, ha costretto a girare sotto scorta tutti costoro, accusati da un gruppo di attrezzati avvocati nazionalisti di aver trasgredito un articolo che anche il governo islamico si è finora rifiutato di abrogare.
In crisi con l’Europa
La Turchia non può considerare esaurito il proprio compito di democratizzazione, soprattutto di fronte alla sua importante candidatura in Europa, prima di aver affrontato energicamente e risolto non con operazioni di pura cosmetica altri temi ineludibili: il problema di Cipro, la questione curda, il contenzioso con l’Armenia. E aver spazzato via dubbi e sospetti sulla condizione in cui, particolarmente in alcune zone arretrate, si trovano le donne. La facoltà di indossare il velo nelle università o negli edifici pubblici, diventata l’ultima battaglia di Erdogan (costretto – sostiene – a inviare le proprie figlie a studiare negli Stati Uniti), è solo un aspetto, benché tutt’altro che marginale, della questione. La piaga dei cosiddetti ‘omicidi d’onore’ (pratica talvolta esportata all’estero dagli emigrati), invocati spesso dalla stessa famiglia e portati a compimento dai parenti più vicini (padri, zii, fratelli), deve essere sanata, a detta di tutti gli organismi occidentali incaricati di proteggere i diritti della persona. Soprattutto in un paese che in molte occasioni ha dimostrato, con la sua storia, di tenere da conto la componente femminile: quando si è trattato di darle il voto (ancora prima di molti paesi europei, Italia compresa), quando è venuto il momento di incaricare un primo ministro donna (Tansu Ciller) o di scegliere un magistrato donna a guidare la Corte costituzionale (Tulay Tugcu). Si tratta di temi di politica interna ed estera assieme, che necessitano un piglio coraggioso per uscire dalle secche in cui il paese potrebbe rischiare di arrestarsi, particolarmente nella considerazione internazionale. Le loro soluzioni, beninteso, sono assolutamente imprescindibili dalla buona volontà e dalla collaborazione piena e fattiva da parte delle controparti.
A cominciare, naturalmente, dall’Europa. In maniera molto significativa, il tema dell’ingresso nell’Unione è scomparso del tutto dall’ultimo confronto elettorale, mentre durante il voto del 2002 era stato l’argomento più citato dai partiti
in lizza. Nulla di che stupirsi. Nel giro di due anni il favore dei Turchi all’entrata nel Vecchio Continente è palesemente crollato, passando da oltre il 90% del 2005, momento in cui Ankara divenne ufficialmente paese candidato, a un risicato 27% odierno. Una caduta verticale spiegabile non solamente con le difficoltà del percorso richiesto ai Turchi da qui al 2015 circa, per adempiere ai criteri richiesti da Bruxelles, ma anche con un disamore pari solo al montare dei dubbi da parte europea (che pure ha anime diverse, fra aperturisti e oppositori alla mezzaluna). L’Europa sembra talvolta ignorare le grandi prospettive politico-economiche e le enormi opportunità strategiche che un paese importante come la Turchia rappresenta. Valutarle con mente sgombra, priva soprattutto di pregiudizi religiosi, e coglierle sembra non solo un dovere verso Ankara e la stessa comunità europea, ma in un complessivo contesto internazionale anche un’ineludibile necessità.
Storia della Turchia moderna
La fine dell’Impero Ottomano
L’esito della Prima guerra mondiale fu fatale per il secolare Impero Ottomano che si era schierato nel conflitto a fianco degli imperi centrali. Dopo che tra il 1916 e il 1918 si erano staccati da esso tutti i paesi arabi (Siria, Palestina, Mesopotamia, Arabia), il trattato di Sèvres, firmato nel 1920 tra il governo ottomano e le potenze dell’Intesa, sanzionando questi mutamenti territoriali e progettandone altri, mise in forse l’unità e l’indipendenza stessa della Turchia: Istanbul passava sotto tutela alleata, gli stretti venivano internazionalizzati e vaste zone dell’Anatolia invase. Mentre il sultano accettò le dure condizioni del trattato, settori dell’esercito si ribellarono. Il movimento di riscossa nazionalista, guidato da Mustafa Kemal, un ufficiale di idee riformiste e radicali distintosi durante il conflitto nella difesa dei Dardanelli, riuscì in quattro anni di lotta a respingere le forze occupanti dall’Anatolia e dalla Tracia orientale e a riconquistare Smirne, che era stata invasa dai Greci nel 1919. La reazione armata all’occupazione straniera fu accompagnata dall’esautoramento dei poteri del sultano e dall’avvio, sotto l’impulso e per volontà diretta di Kemal, di grandi riforme costituzionali e rivoluzionarie. Nell’aprile 1920 fu eletta un’Assemblea nazionale che, riunitasi ad Ankara, si proclamò sovrana e costituì un Consiglio dei ministri presieduto da Kemal; nel 1922 fu abolito il sultanato; nell’ottobre 1923 l’assemblea proclamò la Repubblica di Turchia ed elesse Kemal primo presidente; nel marzo del 1924 fu definitivamente abolito il califfato e tutti i membri della dinastia ottomana furono espulsi dal paese; nell’aprile 1924 fu adottata una Costituzione repubblicana, con una clausola che manteneva ancora l’Islam come religione di Stato ma che fu abolita quattro anni dopo. Dotato di ampi poteri dalla Costituzione del 1924, Kemal sottopose la Turchia, la cui capitale nel frattempo era stata trasferita da Istanbul ad Ankara, a un programma di radicali riforme di laicizzazione e modernizzazione. Fu abolito il diritto canonico islamico e secolarizzato il diritto di famiglia, mentre venivano adottati l’alfabeto latino e il calendario gregoriano e la domenica sostituiva il venerdì come giorno festivo. Il processo di secolarizzazione favorì tra l’altro il rapido miglioramento dello status sociale delle donne, cui fu concesso il diritto di votare e di essere elette in Parlamento. Sul piano economico fu avviata una politica di industrializzazione del paese e fu introdotta una cauta riforma agraria, tuttavia sostanzialmente fallita di fronte alla reazione dei grandi proprietari terrieri. Kemal rimase capo dello Stato da lui fondato fino alla morte, avvenuta nel 1938; quattro anni prima, nel 1934, la Grande Assemblea Nazionale gli aveva conferito il nome di Ataturk (letteralmente «padre turco, gran Turco», «padre della Patria»).
Il dopo Ataturk
L’eredità di Kemal Ataturk fu raccolta da Ismet Inonu, che era stato il suo più stretto e fidato collaboratore nella lotta d’indipendenza e poi, in qualità di capo di governo, negli anni delle grandi riforme occidentalizzatrici. Nel 1938 Inonu assunse la carica di presidente della Repubblica e la guida del Partito repubblicano del popolo, il partito fondato e diretto da Ataturk fino alla sua morte e rimasto di fatto il partito unico della Turchia fino al secondo dopoguerra. In politica estera fu proseguito il rafforzamento delle relazioni con la Gran Bretagna avviato da Kemal. Nonostante la firma nel 1941 di un trattato di non aggressione e di un accordo commerciale con Berlino, la Turchia riuscì a mantenersi neutrale durante il Secondo conflitto mondiale, per entrare in guerra a fianco delle potenze alleate solo all’inizio del 1945, quando ormai la sconfitta dell’Asse era diventata inevitabile. Alla fine del conflitto, sotto la pressione dell’espansionismo sovietico, la Turchia si rivolse agli Stati Uniti e durante la guerra fredda si collocò stabilmente nel campo occidentale, ottenendo in contraccambio importanti aiuti economici e militari. Sul piano interno, la politica autoritaria, rafforzatasi durante la guerra mondiale, provocò un crescente malcontento, che indusse Inonu ad avviare una limitata liberalizzazione. A spingere in questa direzione convergevano del resto i primi risultati della campagna per l’educazione promossa da Kemal, che aveva innalzato sensibilmente i livelli di scolarizzazione, e la crescita delle classi medie e professionali, che reclamavano più ampie libertà anche in nome di quel modello di democrazia che la scelta occidentale contribuiva a diffondere nel paese. Il segno più importante del nuovo corso politico fu la fine del sistema monopartitico. Da una scissione del Partito repubblicano del popolo sorse nel 1946 il Partito democratico, che ottenne subito un notevole successo elettorale, al punto da spingere settori del Partito repubblicano del popolo e del governo a chiederne la soppressione. La richiesta fu respinta dal presidente Inonu, fermo nel sostenere le ragioni della scelta pluripartitica. Nel 1948 fu fondato il Partito nazionale, di tendenze conservatrici, mentre si facevano meno severe le misure di controllo sulla stampa, nascevano giornali indipendenti e venivano autorizzate le prime organizzazioni sindacali (anche se il diritto di sciopero fu concesso solo nel 1963 e le attività di gruppi comunisti e socialisti continuarono a essere duramente represse). In un’atmosfera politica più aperta le elezioni del 1950 dettero la maggioranza dei voti e dei seggi al Partito democratico, i cui dirigenti assunsero sia la presidenza della Repubblica sia la guida del governo. Confermato l’orientamento filoccidentale, la Turchia partecipò alla guerra di Corea (1950) e aderì alla NATO (1952). Il governo del Partito democratico abbandonò progressivamente la linea di laicizzazione della vita pubblica, soprattutto nel settore educativo, e perseguì una politica economica di incoraggiamento degli investimenti stranieri e di privatizzazioni. A partire dal 1955, tuttavia, la forte inflazione e gli squilibri della bilancia commerciale crearono crescenti difficoltà. Il declino di popolarità del Partito democratico si manifestò nelle elezioni del 1957; il Partito repubblicano del popolo e gli altri partiti di opposizione tentarono di dare vita a una coalizione, che sarebbe risultata maggioritaria, ma coalizioni del genere furono prontamente messe fuori legge. Gli attacchi dell’opposizione si fecero allora più duri: al Partito democratico si rimproverò non solo l’atteggiamento anticostituzionale, ma anche l’abbandono dei principi del kemalismo e delle politiche che l’avevano caratterizzato. Negli anni 1958-60 la situazione economica si aggravò ulteriormente con il calo degli investimenti e la crescita dell’inflazione, mentre la disoccupazione produceva i suoi effetti soprattutto nelle grandi città, dove la popolazione era cresciuta in maniera massiccia negli ultimi anni. Il governo tentò di soffocare la protesta popolare inasprendo i caratteri autoritari del regime, ma fu rovesciato nel maggio 1960 da un colpo di Stato militare guidato dal generale Cemal Gursel. L’esercito faceva così apertamente il suo ingresso nella scena politica.
L’intervento dei militari
Cresciuto notevolmente durante la Seconda guerra mondiale, e profondamente modernizzato nelle sue strutture grazie all’aiuto degli Stati Uniti, l’esercito era visto dai giovani ufficiali soprattutto come strumento di unità nazionale e di progresso, in sostanziale continuità con la visione dello Stato secolarizzato che aveva ispirato le riforme di Ataturk. Il generale Gursel fu posto a capo di un Comitato di unità nazionale che assunse i pieni poteri e preparò il varo di una nuova Costituzione. Approvata da un referendum nel maggio 1961, la nuova carta prevedeva un parlamento bicamerale, composto di un Senato e di un’Assemblea nazionale, e affidava l’elezione del presidente alle due camere riunite. Le elezioni del 1961 assegnarono la maggioranza relativa al Partito repubblicano del popolo, seguito a poca distanza dal nuovo Partito della Giustizia, fondato su iniziativa dei militari per rimpiazzare il Partito democratico sciolto all’indomani del colpo di Stato. Gursel fu eletto presidente della Repubblica, mentre Inonu, alla guida di successivi governi di coalizione tra il Partito repubblicano del popolo e alcune forze minori, tentò, con il varo di un piano quinquennale (1962) e la firma di un accordo di associazione con la CEE (1963), il rilancio dell’economia del paese. Le elezioni del 1965 segnarono tuttavia una netta vittoria per il Partito della Giustizia, il cui leader Suleyman Demirel formò un governo monocolore.
Alla fine degli anni 1960 la situazione interna, a fronte della presenza di gravi problemi economici, fu caratterizzata dal rafforzarsi delle tensioni sociali, dal diffondersi della violenza politica e dall’emergere di tensioni interetniche e religiose nelle province sud-orientali. Sul piano internazionale, inoltre, l’intervento delle Forze armate turche a sostegno della comunità turcofona a Cipro portò a un grave deterioramento delle relazioni con la Grecia. Ritenuto incapace di fare fronte all’incalzare della crisi politica e sociale, il governo Demirel, dietro esplicito pronunciamento dei vertici delle Forze armate, si dimise nel marzo 1971. Seguì una serie di governi di coalizione, composti da tecnocrati e burocrati, oltre che da politici, con l’appoggio dei militari e il consenso dell’Assemblea nazionale, il cui scopo fu soprattutto quello di ristabilire l’ordine. Fu istituita la legge marziale; venne emendata la Costituzione in senso restrittivo delle libertà personali; scontri con i movimenti di estrema sinistra portarono ad arresti e condanne; fu soppresso il Partito nazionale dell’ordine, di ispirazione islamica, che era stato fondato solo l’anno precedente. Alla guida dei governi in questi anni si alternarono soprattutto Demirel, in coalizione con forze di estrema destra, e Bulent Ecevit, già ministro del Lavoro con Inonu e poi leader dell’opposizione di sinistra interna al PRP, di cui assunse la presidenza nel 1972. La seconda metà degli anni 1970 fu caratterizzata da un ulteriore deterioramento della sicurezza interna, con scontri tra opposte fazioni nelle università e, nelle regioni orientali, tra militari e movimenti di guerriglia. Nel settembre 1980 un colpo di Stato militare portò al potere il generale Kenan Evren. Alla guida di un Consiglio di sicurezza nazionale, Evren impose la legge marziale, sciolse l’Assemblea nazionale e bandì i partiti politici; nel novembre 1982, in seguito all’approvazione di una nuova Costituzione, assunse la carica di presidente della Repubblica. L’anno successivo, in novembre, dopo la legalizzazione di alcuni partiti politici, si svolsero nuove elezioni, che videro la vittoria del Partito della Madrepatria, di orientamento conservatore; il Consiglio di sicurezza nazionale trasferì il potere al nuovo Parlamento eletto e il leader del Partito della Madrepatria Turgut Ozal assunse la guida del governo. Ozal avviò un programma economico liberista, dotò la polizia di estesi poteri, anche dopo il ritiro della legge marziale, e sviluppò una politica fortemente repressiva nei confronti delle forze di sinistra e della minoranza curda, che dai primi anni 1980 si era schierata su posizioni separatiste. Un parziale ripristino delle libertà politiche si verificò a partire dal 1987. Le elezioni del 1991 videro l’affermazione del Partito della Retta via, nuova formazione nata dal disciolto Partito della Giustizia sotto la direzione di Demirel, tornato alla vita politica dopo un decennio di allontanamento forzato. Quando nel 1993 Demirel salì alla presidenza della Repubblica, la guida del partito e del governo venne assunta dalla signora Tansu Ciller.
Islam, Curdi ed Europa
Negli anni 1990 la ridefinizione dell’assetto internazionale conseguente al crollo del blocco sovietico vide la Turchia situata in una posizione cruciale: punto di incontro geografico, politico e culturale tra Est e Ovest, si trovò nella necessità di ripensare sia il suo ruolo all’interno dell’Europa e nei confronti dei paesi islamici sia la propria identità nazionale e lo scenario politico interno. Forze di ispirazione islamica, allontanate dalla vita politica nazionale dal colpo militare del 1980, erano tornate sulla scena all’inizio del decennio successivo dando vita al Partito della Prosperità. Il suo leader Necmettin Erbakan, già presidente del Partito nazionale dell’ordine, giocando sulle divisioni e le rivalità tra i leader dei partiti conservatori, fu l’artefice principale del sorprendente successo della formazione di ispirazione islamica nelle elezioni del 1995, in seguito al quale lo stesso Erbakan assunse la carica di primo ministro in un governo di coalizione con il Partito della Retta via di Tansu Ciller. La coesistenza al potere di formazioni di impostazione laica e religiosa suscitava non poche preoccupazioni nella comunità internazionale per il timore di uno slittamento della Turchia verso una forma di Stato dominata dalla legge islamica. All’interno, dove il governo Erbakan favorì l’avvio di un processo di islamizzazione dei settori dell’educazione e della giustizia, la sua azione fu ostacolata dai vertici militari che avevano mantenuto una forte ingerenza nella vita politica, attribuendosi inoltre il ruolo di garanti della laicità dello Stato. Nei primi mesi del 1997 i partiti di opposizione, appoggiati dal Consiglio di sicurezza nazionale, tentarono a più riprese di mettere in minoranza il governo. Erbakan fu costretto a dimettersi, ma l’avvento di un nuovo governo, presieduto da Mesut Yilmaz, del Partito della Madrepatria, di centro-destra, non servì a calmare le acque; nel gennaio 1998 la Corte Costituzionale decretò lo scioglimento del Partito della prosperità per violazione della Costituzione, accusandolo di aver attentato al fondamento dello Stato laico. I reduci della formazione furono in larga parte accolti dal Partito della Virtù, a sua volta dichiarato incostituzionale nel 1999. Alle dimissioni di Yilmaz, accusato di corruzione, seguì un breve governo provvisorio guidato da Ecevit, che rimase in carica fino alle elezioni dell’aprile 1999. All’indomani della consultazione Ecevit si pose a capo di un’eterogenea coalizione a tre, composta dal Partito democratico di sinistra, da lui diretto, dal Partito della Madrepatria e dal Movimento di azione nazionalista, i cosiddetti Lupi grigi, di estrema destra. Malgrado le divergenze ideologiche, i leader della coalizione avevano in comune il profondo nazionalismo e l’opposizione a ogni compromesso nei confronti dei ribelli curdi. La questione curda si poneva sempre più al centro dei problemi interni della Turchia: la repressione militare nei confronti dei ribelli indipendentisti, che facevano capo al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), aveva assunto negli ultimi anni le proporzioni di una vera e propria guerra con numerose vittime da entrambe le parti. Nel novembre 1998 il leader del PKK Abdullah ‘Apo’ Ocalan fu arrestato in Italia, dove chiese asilo politico. Il governo italiano, non volendo concedere l’estradizione richiesta dalla Turchia, trattandosi di un paese in cui vigeva la pena di morte, né interrompere le relazioni diplomatiche con un importante partner economico che minacciava pesanti ritorsioni sul piano commerciale, nel gennaio 1999 impose a Ocalan di abbandonare l’Italia. Il mese successivo i servizi segreti turchi lo arrestarono presso l’ambasciata greca di Nairobi. La sua cattura ebbe importanti ripercussioni: in ambito interno, si verificò un rafforzamento di quei partiti che avevano mostrato maggiore inflessibilità sulla questione curda; sul piano internazionale, invece, entrarono in crisi i rapporti con i paesi dell’Unione Europea, che esercitavano pressioni affinché il leader curdo fosse sottoposto a un equo processo. Il 29 giugno la Corte per la sicurezza dello Stato condannò Ocalan all’impiccagione. La decisione fu accolta con entusiasmo nel paese, ma l’Unione Europea intervenne in favore del condannato: il governo si trovò così nell’imbarazzante situazione di dover trovare un punto d’equilibrio tra il consenso interno e l’approvazione internazionale. Nel gennaio 2000 la Turchia annunciò la decisione di sospendere l’esecuzione di Ocalan, accogliendo la richiesta della Corte europea per i diritti umani. Il cedimento della Turchia alle richieste dell’Europa giungeva al termine di un travagliato cammino per ottenere l’ammissione all’Unione Europea, in cui la questione generale dei diritti umani era uno dei punti chiave. Le critiche più dure dei paesi europei alla Turchia riguardavano infatti in particolare le condizioni dei detenuti, la mancanza di libertà di espressione e il ricorso alla tortura. Alle ragioni umanitarie si accompagnavano poi motivazioni di ordine economico: il basso livello di industrializzazione e sviluppo, unito all’alto tasso di disoccupazione e alla rapida crescita della popolazione, facevano temere un incontrollato esodo di lavoratori turchi in direzione dei paesi a economia più stabile. A livello politico, preoccupava la profonda ingerenza del potere militare nella realtà turca. Tutti questi fattori, a cui si univa il veto opposto dalla Grecia per la questione di Cipro, avevano contribuito a rendere accidentato il cammino verso l’integrazione europea della Turchia e solo nel dicembre 1999 le fu concesso lo status formale di paese candidato all’adesione.
Tra il 2000 e il 2001, in un contesto internazionale sempre molto critico per il mancato rispetto dei diritti delle minoranze e per l’eccessivo peso dei militari nella vita politica, andarono aggravandosi nel paese i fattori di crisi. Sul fronte economico, l’inflazione galoppante, il fallimento delle grandi imprese pubbliche e del sistema bancario nazionale imponevano drastiche misure di risanamento che nessun partito al governo, ormai dominato da logiche clientelari, sembrava in grado di affrontare. Le associazioni in difesa dei diritti umani richiamavano contemporaneamente l’attenzione della comunità internazionale sulle durissime condizioni carcerarie e sullo sciopero della fame attuato da molti detenuti e familiari, che alla fine del 2001 aveva già provocato la morte di 42 persone. In questo scenario andarono pericolosamente deteriorandosi i rapporti tra il primo ministro Ecevit e il presidente Ahmet Necdet Sezer, già presidente della Corte costituzionale ed eletto alla massima carica dello Stato nel maggio 2000, che rimproverò in più occasioni al capo del governo i suoi ritardi e le sue manchevolezze nella lotta alla corruzione. Alle elezioni del 2002 il Partito democratico di sinistra subì un tracollo e l’anno successivo Ecevit, già gravemente malato, ne lasciò la guida. A vincere le elezioni, riuscendo a farsi portavoce dello scontento popolare, fu il Partito della giustizia e dello sviluppo, erede dei disciolti Partiti della Prosperità e della Virtù. Il successo elettorale dell’organizzazione islamica fu dovuto anche al carattere più moderato rispetto alle precedenti formazioni dato al nuovo partito da Recep Tayyp Erdogan. Figura di spicco del Partito della Prosperità, Erdogan si era conquistato una notevole popolarità dando prova di buone capacità di amministratore come sindaco di Istanbul, carica da lui assunta nel 1994 dopo la vittoria del suo partito nelle elezioni amministrative che avevano visto per la prima volta una formazione islamica diventare il primo partito della Turchia. Processato nel 1998 per incitamento all’odio religioso, Erdogan scontò nel 1999 quattro dei dieci mesi di prigione cui era stato condannato, mentre l’organizzazione politica islamica subiva nuove trasformazioni. La condanna, che gli era valsa la temporanea ineleggibilità, impedì a Erdogan, che nel frattempo aveva fondato il Partito della giustizia e dello sviluppo divenendone il leader indiscusso, di assumere la guida del governo all’indomani della vittoria elettorale del 2002. Primo ministro fu nominato Abdullah Gul, già tra i fondatori del Partito della Virtù e successivamente vicesegretario del Partito della giustizia e dello sviluppo, il quale rassegnò prontamente le dimissioni in favore di Erdogan, non appena l’approvazione di un emendamento costituzionale restituì a questi l’elettorato attivo e passivo e un’elezione suppletiva gli assegnò il seggio parlamentare, permettendo così al presidente Sezer di affidargli l’incarico di primo ministro del 59° governo della Repubblica turca.