Turismo e regioni: la scena turistica tra fruizione e cultura territorializzata
Prendere in esame il rapporto che oggi intercorre fra turismo e regioni significa prima di tutto superare un’accezione fissista della dimensione dei confini e affrontare gli esiti delle grandi trasformazioni in corso, in cui il viaggio e la mobilità sono divenute l’espressione di un diritto di cittadinanza, che lega irreversibilmente economia e cultura.
Entro queste coordinate il turismo delinea scene che oggettivano un fitto quadro di cornici istituzionali e territoriali, dove appare in primo piano la trasformazione di luoghi e persone. Il turismo attiva dunque processi reinterpretativi dei confini culturali dei territori, corroborati in particolare da un complessivo passaggio dal turismo delle città al turismo delle località. Gran parte del destino attuale del territorio attraversato dal turismo si gioca sul concetto di località, come neospazialità radicata sul locale e insieme, in maniera multiforme, aperta al globale.
In questo saggio si cercherà di individuare tale dinamica per poi passare ad analizzare alcuni aspetti propri della scena turistica ‘creativa’ più recente. Si prenderà in esame come la produzione culturale dei nuovi spazi si attivi per miti antropologici, che riconnettono differenti epoche storiche e propongono forme di riaggregazione di spazi, quali i parchi, i megaeventi e gli ecomusei, oppure prospettive di seriazione territoriale tramite percorsi quali le cultural routes o gli oulet villages. Si indicherà, infine, come tali novità si aprano a processi immaginativi da ‘terzo spazio’ e a tendenze turistiche translocali.
Il turismo culturale tocca in profondità assetti importanti della geografia e dell’economia nazionale. L’Italia è la quinta destinazione del turismo mondiale, e nel 2011 più di 11 milioni di persone hanno scelto di trascorrere le vacanze nelle città d’arte italiane; il settore è ben rappresentato, costituendo il 2,6% del PIL nazionale e dando occupazione a più di 500.000 persone. Secondo solo al turismo balneare, il turismo culturale domestico ammonta a più del 60%, mentre il restante 40% è riferito al turismo estero. Gli italiani che scelgono in particolare le città d’arte superano il 22%; Venezia registra più di 2 milioni di presenze, Roma 1,5 milioni, Firenze 733.000, con una media di permanenza di poco meno di tre giorni e con effetti di trascinamento areale e regionale. I musei, i monumenti e le aree archeologiche sono le maggiori attrazioni, primi fra tutti i Musei vaticani, gli scavi di Pompei, gli Uffizi, il Palazzo ducale a Venezia, l’Acquario di Genova, la Galleria dell’Accademia e il complesso di Santa Croce a Firenze (Ministero per i Beni e le Attività culturali, Minicifre della cultura 2011, 2011; Rapporto sul turismo Italiano 2011-2012, a cura di E. Becheri, G. Maggiore, 2013). Tale turismo sta tuttavia conoscendo una significativa trasformazione, come dimostra la continua emergenza di saloni, festival, eventi culturali dedicati alla musica, al libro, alla letteratura, alla filosofia, alla scienza, all’alimentazione o alla cultura popolare.
Il percorso fra cattedrali e musei, tipico del grand tour dei secoli passati, rimane un riferimento centrale del turismo culturale: un viaggio di formazione personale che con il tempo è diventato un pacchetto turistico quale unità minima di viaggio, che correla quantità di reddito disponibile a forme di esperienza.
Si tratta dei ‘turisti culturali generali’, giovani mossi da interesse verso la dimensione culturale del viaggio, e spesso contrapposti a quei ‘turisti culturali specifici’ che invece risultano maggiormente scolarizzati e attratti da siti di heritage: negli anni Novanta il mercato turistico europeo registrava un segmento di circa 3,5 milioni di unità di questi ultimi, cioè circa un decimo rispetto ai 31 milioni e più dei primi (Cultural tourism in Europe, ed. G. Richards, 1996; B. McKercher, H. du Cros, Cultural tourism. The partnership between tourism and cultural heritage management, 2002).
La notazione è importante, perché oggi la differenza fra ‘generale’ e ‘specifico’ è divenuta molto più sfumata, in ragione dell’attuale crollo della distinzione fra tempo libero e tempo di lavoro, che fa del turismo una forma di esperienza culturale tout court, caratterizzata da una vivace dinamica competitiva fra domanda e offerta da parte di diverse arene locali. Il turismo culturale è prima di tutto una questione di consumo culturale, e il marchio di distinzione estetica si è con il tempo trasformato in un inalienabile capitale culturale reale del luogo, economicamente attivo.
La generalizzazione del consumo odierno consolida la tesi che il turismo culturale possa includere in sé tutte le attività umane, dal privilegiare un’atmosfera a scegliere un paesaggio, a gustare un cibo. Gli esiti non sono univoci. Tale tendenza può condurre alla possibile perdita di autenticità locale (‘macdonaldizzazione’ e altri fenomeni analoghi), ma anche a forme di resistenza locale che promuovono un nuovo ‘tradizionale’ o si appropriano di elementi di culture ‘alte’ a favore di un ‘vernacolare’. I dati odierni suggeriscono in ogni caso di pensare a una figura di turista culturale di tipo trasversale, in ragione dei mutamenti introdotti dall’heritage e dal turismo delle località, in particolare negli spazi rurali.
Le aree rurali sono divenute negli anni sempre più significative dal punto di vista economico e turistico, per l’aumento di mobilità della popolazione, l’erosione dell’autonomia delle comunità locali, la delocalizzazione produttiva e l’eterogeneità delle zone economiche di appartenenza. In questa complessa dinamica la novità risiede nella crescita di nuove reti di relazioni fra utenti non rurali (visitatori o neoresidenti) e popolazioni locali, che trasformano in profondità le campagne. Tali performance possono essere interpretate in termini di creatività, in quanto risignificano lo spazio vissuto rurale, aprendo a un turismo che segna una svolta nelle preferenze a favore di attività più raffinate di consumo, con feedback su identità culturali e soggettività sociali.
La tesi di fondo è che i primi anni del 21° sec. hanno visto gli artisti e gli intellettuali concentrarsi in città connotate da vivacità e mobilità culturale, creando una ‘classe creativa‘ (i talenti) in grado di attrarre risorse finanziarie grazie al vantaggio competitivo derivato da un uso ottimale di tecnologie e sollecitazioni innovative. Tale luogo è la città multiculturale, che esalta e protegge la diversità degli individui entro un sistema imprenditoriale di ‘qualità totale’, modellato su venture capital e outsourcing, capace di spostare il baricentro geografico dalle grandi regioni industriali ai luoghi connotati da ‘diversità’ e stili di vita stimolanti (Florida 2002).
Le tesi rivestono indubbio interesse per il nuovo turismo (Tourism, creativity and development, 2007) che esalta la tematica dei ‘luoghi talentati’ promotori di sviluppo: cruciale è la tendenza delle imprese ad alta tecnologia a concentrarsi territorialmente; e, infine, assai significativa è l’idea, già di Robert David Putnam, che il ‘capitale sociale’ possa cumulare localmente capitale umano, imprenditorialità e sviluppo economico.
Le tesi enunciate dall’economia creativa, in verità, rivelano spesso un impianto pesantemente ideologico, con un’accezione tutta statunitense di ‘laurea’, ‘tolleranza’ e ‛capitale sociale’, esemplata dal circolo vizioso fra luogo e talento. Non sono tuttavia prive di ricche intuizioni, giacché, superando nozioni di generico globalismo, quali ‘società della conoscenza’ o ‘città diffusa’, recuperano la dimensione importante della ‘territorialità’, anche se i più recenti studi che hanno tentato di calcolare la ‘densità di industria creativa’ delle varie unità territoriali considerate (provincia, regione e così via) non risultano affatto esaltanti. Si mostrano invece decisamente più utili e interessanti per la dimensione non urbana (o rurale) soprattutto in ambito italiano (Rapporto sul turismo italiano 2008-2009, a cura di E. Becheri, 2009, pp. 609 e segg.; X Rapporto Ecotour, 2013).
La ‘nuova ruralità’ richiama rinnovate relazioni natura-società, dove gli spazi dell’accoglienza esaltano la multifunzionalità tradizionale del paese, più che la specializzazione metropolitana; e le esperienze maturano nella dimensione innovativa delle ‘buone pratiche’ del sé che si riappropriano della triplice dimensione dello spazio («rappresentato», «vissuto» e «praticato»), già individuata dal filosofo Henri Lefebvre (1901-1991). Più in particolare, i nuovi spazi inaugurano pratiche locali di esperienza sensoriale diretta (vedere gli artefatti, gustare cibo locale), localizzazione delle opere artistiche (parchi letterari, installazioni d’arte), messa in scena di abilità (cucina agreste, pescare, sparare, cavalcare, ma anche tennis, musica), narrativa di viaggio (racconti e scritture, prima, durante e dopo il viaggio).
La svolta nel turismo rurale richiede un nuovo rapporto dei turisti con l’ambiente (‘geografie ibride’), in cui umani, non-umani, discorsi e tecnologie costituiscono una complessa catena di agency, ritmata su nuovi percorsi sensoriali. L’ipotesi forte pertanto è che l’heritage sia una ‘proprietà collettiva creativa’ necessaria al turismo per determinare i destini delle località secondo linee nazionali o areali (per es. ‛la scena rurale’ italiana) più che per incerti trend europei.
Costruire in maniera rigorosa il destino di una località significa definire lo spazio, la storia interna e anche la determinazione delle risorse in termini di ‘narrazione’. La scena turistica è infatti la narrazione di una storia che cambia al variare dei contesti e della modellistica di impianto.
In questo paragrafo sono presentati tre casi di studio: il primo sviluppa una possibile idea di heritage per l’Arcipelago toscano; il secondo riguarda la funzione sociale del Piano di sviluppo socioeconomico del Parco della Maremma toscana (Ente Parco regionale della Maremma 2001); il terzo, infine, affronta il tema di una gestione autosostenibile nel caso delle aree protette della Provincia di Siena, come si avrà modo di spiegare più avanti.
Si pongono a questo punto alcuni problemi teorici: che cosa è un arcipelago e che cosa lo distingue da un’isola? Definire un’isola non è compito semplice, salvo un generico rimando ad alcune caratteristiche quali la scala ridotta, l’isolamento e la presenza di un’economia debole. Soprattutto un qualche carattere di separatezza e differenza può connotarla: fisicamente dislocata o politicamente separata dalla terraferma o dalla madrepatria, fa nascere aspettative particolari di leisure, clima differente, ambiente fisico e cultura. Ne consegue che l’impatto culturale in un’isola è più forte che altrove, e risulta più sentito il rapporto oppositivo isolano/forestiero.
Come scrive suggestivamente Predrag Matvejević, la nozione di ‘isola’ varia per contrasti: «È, da un lato, luogo di pace e di raccoglimento, d’amore, di felicità e di beatitudine; dall’altro, è invece un luogo di esilio o di reclusione, di castigo, di espiazione e perfino di penitenza» (Mediterraneo. Un nuovo breviario, 1997, p. 17).
La maggiore parte delle isole vive nell’attesa di un evento, il ricongiungimento con la terraferma; ma ciò che più conta è che ogni isola rischia di perdere la propria identità, a meno che non raggiunga una sua ‘universalità’: l’arcipelago può aiutarla in tale intento. Per il termine arcipelago aumentano i problemi definitori, se non altro per la complicazione dei rapporti fra le varie isole e per la storia trascorsa, rispetto alla quale le singole comunità dovrebbero essere adeguatamente rappresentate nelle rispettive diversità e peculiarità. Basti pensare ai diversi ritmi dell’antropomorfizzazione di alcune isole dell’Arcipelago toscano: Pianosa, Capraia e Gorgona, legate all’esperienza delle carceri e quindi a popolazioni variabili e a destini diversi; il Giglio, isola di pescatori in larga parte storicamente immigrati; oppure l’Elba, microcosmo di tradizioni miste, tra impegno industriale e attaccamento terragno. Una moltitudine di isole, però, anche se ravvicinate, non basta a formare un arcipelago; ne va individuata la forma precipua; per tale motivo gli arcipelaghi sono classificati per ordine di somiglianza, oppure (e più spesso) per relazioni reciproche, come avviene nel prototipico contrasto fra i due modelli antichi delle Cicladi e delle Sporadi, un insieme coerente, per le prime, disperso, invece, per le seconde.
Tratto fondamentale della prospettiva è quindi la rappresentazione di mondi compartecipanti, eppure differenti per natura e storia, tramite le diverse coniugazioni che legano e insieme oppongono le innovazioni, introdotte da una modernizzazione tutt’altro che lineare, alle antiche risorse isolane. Si tratta di ricostruire un’identità plurale di persone e luoghi, tramite immagini e azioni che colgano i residenti quali protagonisti. L’idea rappresenta il segno di una nuova appartenenza, radicata nell’antico, eppure capace di collegare mondi locali disgiunti in una sintesi rinnovata di ‘alleanze’: la proposta di un piano di sviluppo svolge la sua parte nella costruzione di uno spazio di network efficaci a livello di comunicazione e significazione dei patrimoni locali, nonché incisivi e sistematici per collegare siti, attrattive, risorse e occupazioni lavorative.
La caleidoscopica natura dell’arcipelago obbliga a immaginare un nuovo insieme di circuiti che rivelino le tracce umane stratificate sul territorio e la loro integrazione entro un continuum natura-cultura, garante di una nuova percorribilità e valorizzazione delle forme di vita e dei contesti ecologici. Il nucleo del progetto è pertanto nello sviluppo di una nuova immaginazione spaziale a favore dei soggetti residenti, ricostruendo l’identità locale delle isole dell’arcipelago stesso.
Le risorse. Per quanto riguarda l’individuazione dei tratti maggiormente unitari delle isole, vanno sottolineati i seguenti percorsi: la metallurgia, la tradizione della spiritualità medievale, la storia medicea, la presenza spagnola, l’architettura delle fortificazioni e le ville napoleoniche.
Dal punto di vista demoantropologico, invece, emergono tre ambiti peculiari: l’agricoltura, il mare, le miniere. L’agricoltura rimanda a una pratica tradizionale di uso della terra, nel passato spesso mista alla pesca, di piccola scala, a conduzione familiare, sulle zone collinari, da inserire nel più vasto contesto olio-viticolo toscano-meridionale e agrosilvopastorale delle regioni più interne. Il mare riguarda la risorsa della pesca, che, seppure mai risorsa primaria isolana, ha concorso alla formazione del reddito locale. L’attività più antica è l’avvistamento dei tonni; esiste una flottiglia di pescatori meridionali e motopescherecci operanti sull’Alto Tirreno, che si disloca tra Portoferraio e Cavo, fra scali commerciali e industriali, porti minerari e piccoli porti turistici. La cultura più nota del recente passato riguarda però il mondo minerario. Collocate in un repertorio su cartografia, le miniere vanno poste in sezione e collegate in un sistema interattivo, in cui inserire la storia dei transiti degli operai dai paesi in cui vivevano ai luoghi di lavoro, nonché i tracciati delle vie interne ai siti minerari, visto che solo a fine secolo i cavatori percorrevano giornalmente dai quattro agli otto chilometri per raggiungere le miniere. In genere si trattava di cave a cielo aperto su bacini di minerale disposto su gradinate. Il materiale, escavato e trasportato ai piazzali a mare tramite carrette a due ruote, era caricato su vagoncini sui ponti a mare e quindi su grandi barche tramite ceste issate a braccia sui bastimenti.
In questa prospettiva le miniere costituiscono un sistema integrato di luoghi di storia umana, e quindi di possibili attrattive distintive. Tale valorizzazione passa attraverso un’esposizione di tipo wire frame, che rende comunicabili le strutture circuitali del complesso miniera-cava-milieu.
Collegate alle miniere sono le strade. Le strade ferrate minerarie, in particolare, sono un complesso insieme di reti private a scartamento ridotto, che collegano i siti minerari alla Maremma e all’Arcipelago. Cifre di intensa veicolazione di merci e di uomini, esse restituiscono tratti di storia sociale profonda (‘la storia segreta dei minatori’) che accomuna il destino dell’entroterra all’Arcipelago. Sono tracce di appartenenza a una vita e a una storia condivisa, da riproporre quale risorsa comunicativa.
La necessità del mito. Per cogliere con visione sinottica i complessi problemi ecologici attuali è utile ricorrere alle principali narrazioni mitologiche che attraversano l’Arcipelago, giacché anche i miti di un tempo aiutano a cogliere le nervature di una ‘regione’ che si rinnova nella sua autorappresentazione (B. Lincoln, Discourse and the construction of society. Comparative studies of myth, ritual, and classification, 1989).
Il primo mito di fondazione è la Venere tirrenica. Narra un’antica affabulazione esiodea che, quando la Vergine tirrenica, consanguinea all’ellena Afrodite, emerse dal grembo profondo delle acque spumose, dal suo collo si staccò un ricco monile le cui gemme, precipitando in mare, si trasformarono in altrettante isole. Il mito aiuta a comprendere l’identità delle isole dell’Arcipelago, quale insieme compatto di unità paesaggistiche, unite e insieme divise dal mare.
Il secondo mito è il ferro. Si narra che gli Argonauti, antichi cercatori dell’antichità, per riparare le navi, sbarcassero sulla Spiaggia delle ghiaie di Portoferraio, luogo famoso per un minerale, il ferro, ben noto a Plinio il Vecchio e a Diodoro Siculo, che permise ai Romani di sconfiggere il ferro dolce delle spade barbare, ma ancora prima, secondo più ardite leggende, di forgiare le armi degli Achei assedianti Troia. Così, il ferro rappresenta la sostanza salvifica e quasi divina che attraversa la vocazione dell’isola. In un’altra antica affabulazione si narra che era così agevole estrarre il ferro affiorante dal suolo isolano, che si credeva a una riproduzione spontanea del minerale dallo stesso vuoto operato dai cavatori («l’isola prodiga degli inesauribili metalli dei Calibi», cantava Virgilio, dell’Ilva-Elba, «isola dei mille fuochi», Eneide X, 268). La metallurgia è un motivo centrale che attraversa l’Elba, perla maggiore del monile di Venere e metonimia dell’intera regione. Il ferro coincide, inoltre, con uno dei tratti meglio comunicanti con la terraferma, nella sequenza scavo/fusione, sino alla costituzione di trasporti, linee marittime e linee ferrate, nel continuum ancora visibile dei resti delle infrastrutture che accomunano l’Elba ai bacini estrattivi delle Colline metallifere.
Il terzo mito, infine, è costituito dai minerali. Asseriva Bernardino Lotti:
Questa splendida terra del Tirreno […] è un museo naturale nel quale si trova adunato e come preordinato da una mente superiore a vantaggio dei cultori delle scienze geologiche e mineralogiche, tutto il materiale necessario ai loro studi, non raccolto o disposto in sistemi artificiali, ma in quelle precise sue condizioni naturali in cui se ne può leggere la storia e risalirne le origini (Descrizione geologica dell’Isola d’Elba, 1886, p. XI).
Ancora una volta l’Elba assume il ruolo originale di museo naturale geologico: Al ruolo svolto dall’industria e dal lavoro umano subentra il discorso della scienza e della conoscenza.
I tre miti ricorrenti esaltano la dimensione della terra e la conoscenza umana; non pongono però in adeguato risalto la primaria sostanza che circola nella relazione fra le varie parti dell’Arcipelago, ovvero la sua natura di ponte fra diverse terreferme.
Tale natura rappresenta il quarto mito, il parco. È il nostro mito moderno, con cui si intende non solo e non tanto l’evocazione di un idillico passato, quanto il modo, conoscitivamente rigoroso, di immaginare un diverso mondo, ricongiungendo le sparse membra di un intero perduto.
L’attuale normativa del parco comprende la zona protetta marina e terrestre più estesa d’Europa con una serie di vincoli per la maggior parte delle superfici isolane e marine, a esclusione di quasi tutte le aree urbane e agricole. Tale forte assetto normativo incontra inesorabili problemi di connessione fra ecosistemi complessi e fragili, gruppi di residenza distinti, attività economiche differenziate, tradizioni particolari, sistemi di trasporto e di transito. In ogni caso, il problema maggiore della gestione è nella capacità di delimitare l’azione umana, senza compromettere il milieu, la vita associata e il passato storico dei territori. Il parco marino con la nuova progettazione può attualmente recuperare però un tratto antico della storia dell’Arcipelago, e divenire il nuovo collante storico e naturalistico fra isole e penisola. Il Parco trae linfa dalla sua originale funzione di ponte tra il sistema sardo-corso e la penisola italiana, uno dei più importanti corridoi faunistici dell’intero bacino del Mediterraneo, ove sostano e nidificano innumerevoli specie di uccelli in migrazione tra il continente e l’Africa. Al centro dell’opera è dunque un’idea complessa di habitat, nel duplice senso di ambiente naturale e di ambiente storico-culturale. In ciò sta la forza di una nuova ‘alleanza’, che sappia riconoscere senza ideologismi che ogni territorio è stato in qualche modo attraversato dall’uomo, e tuttavia detiene un diritto proprio a conservare le nervature fondamentali del suo assetto.
Cultura e natura. L’idea modernista di parco nasce dalla convinzione che il senso della storia si possa cogliere solo a partire da quei luoghi e quegli eventi centrali che costituiscono un modello per le periferie. In realtà, oggi, sono le periferie a proporre le sfide più risolute a un centro sempre più in affanno: affrontare la questione della esauribilità delle risorse, ripensare il passato in maniera non pregiudiziale, decostruire l’ideologia del soggetto puramente razionale. Il ‘consumo’ è senz’altro il campo che registra i maggiori mutamenti: e il suo significato è cambiato da momento di distruzione di risorse ad azione autodiretta e di crescita personale.
Uno degli aspetti cruciali di un parco dal punto di vista antropologico è lo spazio dei luoghi che i gruppi sociali e i singoli hanno attraversato, lasciando dietro di sé orme e tracce; e attraversarlo, a sua volta, significa innestare modalità comunicative con chi riceve l’altro nell’incontro, e quindi indurre un ‘sistema di ospitalità’.
Il parco è una comunità che dispone di specifiche relazionalità di accoglienza, partecipazione e valorizzazione, che si misurano in base all’individuazione dei bisogni degli utenti/compartecipanti e all’armonico bilanciamento del diritto di tutte le specie a potere vivere (codice etico). La questione più acuta si pone nelle zone cuscinetto fra quelle a vincolo assoluto e quelle a vincolo parziale, e fra queste ultime e le infrastrutture limitrofe. Queste zone costituiscono gli ‘spazi pionieri’ che congiungono regioni ‘fragili’ e regioni ‘formalizzate’. Un ritmo lento di mobilità, un sistema ricettivo di dimensione su piccola scala, l’utilizzo dei patrimoni attuali facilitano la conservazione dei territori di confine. In particolare, è utile creare modi di contiguità fra piccole città e campagna (urbsturismo), condividere antiche pratiche di vita (turismo rurale), impegnare tempo libero non massificato (agriturismo), soddisfare motivazioni a conoscere (turismo a interessi speciali).
Sono prospettive in cui il turismo diviene risorsa controllata che concorre a mediare diverse temporalità, le quali hanno per posta complessiva un patrimonio diversificato da tramandare al futuro. L’arcipelago è quindi un microcosmo che domanda democrazia di rappresentatività da parte di tutto un patrimonio biologico e umano; e, in questo senso, il monile di Venere continua a trasmettere il senso di una rinnovata identità plurale.
Tipologie dei contesti e delle attrattive minerarie. I siti minerari si differenziano per livelli di superficie e profondità. I primi comprendono tre soluzioni di scavo (a terrazza, a cielo aperto e a fianco di montagna), i secondi riguardano invece le gallerie o i pozzi. Le miniere elbane sono in genere escavazioni a cielo aperto e danno luogo a quattro possibili attrattive. La prima riguarda le condizioni produttive; la seconda concerne i processi lavorativi, tramite la dimostrazione degli stessi in loco; la terza punta sui sistemi di trasporto costituiti dai mezzi lavorativi (discesa nei pozzi, trenini interni e così via) e dai trasporti di superficie effettuati per via d’acqua, rotaia e strada. La quarta è propria delle attrazioni socioculturali, e più in particolare, degli artefatti (relativi ai modi del vivere e alle tecnologie in uso), dei sociofatti (che concernono gli aspetti sociali, quali la parentela, la famiglia, l’organizzazione sociale), degli ideofatti (che riguardano le caratteristiche cerebrali, psicologiche o attitudinali, inclusi la religione, il linguaggio e i sistemi di valori fondamentali).
Lo sguardo sulle miniere elbane come patrimonio. Le miniere e le strade ferrate rientrano nell’odierno settore del turismo a vocazione archeologico-industriale e, più in generale, dedito alla riscoperta della storia e delle tradizioni del passato (heritage tourism). Tale linea di azione non è indolore: può divenire un progetto puramente conservativo, oppure uno strumento economico per ricostruire il passato alla luce del presente. Traendo origine da una forte lettura interpretativa del passato, questo tipo di turismo, infatti, attiva i circuiti propri della ‘estetica della deindustrializzazione’, strettamente connessa all’interesse turistico per le vite storiche del passato, più che a una accezione classicista di ‘bello’. La forza e insieme i problemi di tale nuova significazione del passato risiedono proprio nella selezione delle attrattive, dato che ogni scelta implica criteri di valore e appropriatezza a favore dell’una o dell’altra tradizione, creando frequenti ‘dissonanze’ fra interessi e identità sociali contrastanti.
In ogni caso, la ‘ricostruzione’ si commisura alla necessità che una ‘rete espositivo-comunicativa’ attivi un’estetica della ricezione con feedback fruitivo da parte del pubblico. Si tratta, per es., di rappresentare un legame ‒ una volta storicamente efficace, ma che si è poi scisso dalla vita quotidiana, pur rimanendo denso di evocazione ‒ giocando in modo simbolico con la rappresentazione del sistema minerario, mediata da nuovi ‘eventi’ minerari, in una progressiva riconnessione fra archeologia, miniere e ferrovie, che riqualifichi e valorizzi il patrimonio elbano in un Ecomuseo delle miniere.
Tra le tipologie legate a tale curvatura, il turismo legato alla natura (il turismo costiero, il turismo dei fondali marini, il turismo trekking, il turismo naturalistico e didattico, il birdwatching) e il turismo storico-culturale (dell’archeologia medievale, degli Etruschi, degli eventi storici come, per es., la figura di Napoleone, dell’archeologia mineraria).
Fare sistema. L’ecomuseo consiste in uno spazio che espone oggetti, circuita comunicazione, attiva senso estetico, mobilita banche di dati e informazioni, veicola identità locali, offre possibilità di formazione, stimola travel, con punti nevralgici di accesso e di transito interno, secondo strategie sufficientemente consolidate per il nesso fra isole, miniere e heritage (Simonicca 2004, pp. 57 e segg.; Simonicca 2006, pp. 88 e segg.; Mining heritage and tourism. A global synthesis, 2011).
L’ipotesi museale insiste su un percorso unidirezionale, ove ogni singolo punto minerario rappresenti la ricostruzione di un particolare brano di vita degli antichi cavatori, secondo vari percorsi (pedestri, ciclistici, ferroviari) a transito finalizzato. All’entrata e all’uscita postazioni elettroniche forniscono mappatura, esposizione di percorsi, con vari punti di servizio (per esposizione, deposito, ristorazione, alloggiamento, biblioteche) e possibilità di simulazione di percorsi a stampa personalizzata.
All’ingresso è raffigurato il contesto complessivo della zona, con mappe del luogo, storia della microregione, immagini di vita di miniera, documenti d’epoca, schede e foto di strumenti, macchine, veicoli di trasporto, grafi di pratiche lavorative, resoconti mineralogici, biologici, botanici e faunistici, in una ricostruzione del ‘sistema elbano-maremmano’ dei trasporti minerari, tramite oggetti multimediali e ipertesti di navigazione.
L’hardware museale e le pratiche comunicative convivono con i ruderi industriali, destinati a fungere da ‘scultura mineraria’. La funzionalizzazione delle previe strutture in termini comunicativi ed espositivi permette l’allestimento con assetti di tecnologie informatiche adeguate.
La partenza avviene per un itinerario, a numero predeterminato, con una serie di passi che permettono di visitare i ‘contenitori’ del museo stesso. Il primo contenitore è l’adattamento di una cava profonda a museo interattivo industriale per bambini (children minesmuseum o ‘museo dei sette nani’). Il secondo è costituito da depositi di oggetti di cultura materiale e vita vissuta, grazie all’immagazzinamento delle donazioni della popolazione protagonista. Il terzo coincide con il centro di raccolta documentaria, a fini formativi o di specializzazione, aperto alle iniziative archeologico-minerarie. Il quarto presenta la ricostruzione integrale della vita delle cave, con possibilità di fare l’esperienza di ‘un giorno da minatore’. Nel quinto si esce per partecipare alla dimostrazione in loco, da parte dei locali, di pratiche di lavoro antico o artigianale.
I gatekeepers, i guardiani che vigilano e sorvegliano le frontiere esterne e interne del museo, sono i locali, gli esperti e le guide specializzate, grazie alla creazione di una vasta associazione di Amici delle miniere. Lungo il percorso i punti sono supportati da offerte di oggettistica, ristoro e risorse di alloggio. Si privilegiano piste ciclabili sulle vecchie strade ferrate, con stazioni di sosta, oppure eco-etno-trenini storici per i visitatori, con l’invenzione di feste della miniera. E tra i possibili soggetti/visitatori con finalità e motivazione si ricordano i locali, gli utenti del web, gli esploratori, gli specialisti, i bambini.
Se il primo caso addita nel ‘mito consapevole’ il motore tecnologizzato connessivo dei frammenti che la modernità ha sparso in maniera irrelata sul terreno, il Parco della Maremma offre l’opportunità di identificare un sistema di offerta ambientale tramite un parco naturale già costituito, che necessita tuttavia di aggiornamenti (Ente Parco regionale della Maremma 2001).
Con la crisi del 2° sec. e il progressivo abbandono delle vie consolari entrò in agonia la cultura oleovinicola mediterranea, che fece posto all’impaludamento. Gli interventi medicei della fine del 16° sec., che aprirono a pratiche forestali migratorie di grande fortuna sino al secondo dopoguerra, e le bonifiche lorenesi del 18° sec. con il tempo generarono compiutamente il tipico paesaggio maremmano, dominato da macchia, pineta e pascolo.
Il nucleo storico del mutamento territoriale ruotò attorno alla diffusione della pineta a spese del pascolo, in ragione delle opere di bonifica e del dicioccamento, a partire, in particolare, dagli anni Trenta dell’Ottocento sino al Novecento. Quando nel 1924 all’Opera nazionale combattenti (ONC) venne destinata l’amministrazione della Fattoria di Alberese e nel 1926 iniziò la gestione diretta dell’antica Fattoria granducale, la Maremma interiorizzò il suo destino: le opere forestali e l’utilizzazione del bosco a fini economici; la stabilizzazione della cultura basata su pascolo e coltivazione. L’effetto di conservazione delle pratiche storiche lavorative si fissò definitivamente nel 1953, allorquando la metà della proprietà venne assegnata ai coloni dei poderi bonificati, e l’altra rimase di proprietà regionale.
Solo agli inizi degli anni Sessanta emersero radicali novità per uno sviluppo non solo agricolo del territorio, e si trattò dell’inizio inarrestabile di un’economia costiera e semicollinare basata sui servizi. Nacque così la ‘quarta Toscana’, legata al turismo balneare e alle vacanze marine.
La mezzadria. Quando il granduca di Toscana Ferdinando IV di Lorena scelse la mezzadria quale forma idonea di lavoro nei campi nelle tenute personali di Badiola e Alberese, nacquero i presupposti di un profondo e duraturo cambiamento. La scelta mezzadrile rispondeva alla necessità di contare su un adeguato stock di forza lavoro per l’ammodernamento rurale, e si rivelò, peraltro, vitale anche con la nuova gestione del 1926. La logica dell’appoderamento di fatto andò di pari passo con l’incremento della popolazione residente: dai 20 poderi a conduzione familiare e dai 148 componenti complessivi del 1926 si arrivò, nel 1953, con la trasformazione del rapporto di mezzadria in proprietà privata, a 132 poderi. In questo stesso anno la zona di Alberese registrò la presenza di 1859 abitanti, riuniti in 331 famiglie, per la maggior parte nuclei colonici; di questi abitanti 630 erano veneti emigrati dalle zone di Padova e Treviso, con ben 125 famiglie coloniche. La forma agricola complessiva del Parco, pertanto, arrivò a constare di due comunità stabili, la locale e l’immigrata, che con il tempo hanno trovato modo di integrarsi.
L’immagine della ‘Maremma amara’. Nell’età moderna, nel passaggio dal regno sabaudo allo Stato italiano, è rimasta in vigore la continuità di tratti che connotava la Maremma: da un lato, territorio privo di industria e strade ferrate (il capoluogo, Grosseto, nel 1861 contava appena 6000 abitanti); dall’altro, luogo di ‘leggende paurose’ di sangue e nobiltà, dai pirati cinquecenteschi ai frati in processione con la testa mozza, ai briganti ottocenteschi e ai banditi novecenteschi. E anche quando le bonifiche raggiunsero gli effetti attesi, si consolidò, anzi si rafforzò l’immaginario letterario e pittorico della ‘Maremma amara’, terra maledetta e insieme florida, da Renato Fucini (1843-1921), ai macchiaioli, alle canzoni popolari, sino a oggi. La Maremma, luogo cupo e impenetrabile, ha trovato piena mitizzazione in una vera e propria ‘invenzione della tradizione’ (L’invenzione della Maremma, a cura di P. Zotti,V. Fusi, 2001).
Il Parco della sostenibilità. Gli anni Cinquanta e Settanta videro mutarsi fortemente l’immagine del Sud della Toscana e del Parco. Alla rappresentazionene fissista del passato si aggiungeva l’immagine della salvaguardia della biodiversità, messa a rischio dallo sviluppo incontrollato del turismo balneare. Gli inizi degli anni Sessanta registrarono gli interventi della Società maremmana, l’appoggio di Italia nostra, l’impegno di politici locali e nazionali, sino al 1976, quando ebbe origine il Consorzio per l’istituzione del Parco della Maremma. Il nuovo Parco era un ‘terzo’ parco, cioè un territorio attento alle biodiversità, eppure aperto a strategie di crescita sociale e culturale che non escludevano lo sviluppo economico.
Rimanendo sul piano della cultura ‘narrativa’ tradizionale, non si può dare torto a Roberto Ferretti che, in un ricchissimo fondo di racconti orali tragicamente interrotto, non attribuiva al Parco alcuna identità culturale in quanto lo considerava un luogo di mero transito (Fiabe e storie della Maremma nel fondo narrativo di tradizione orale “Roberto Ferretti”, a cura di G. Pizzetti, 1997, rist. anast. 2010). Non è più tempo di perseverare in questa idea, quanto di cogliere la configurazione complessiva che rende il Parco quello che è, un complesso e stratificato territorio antropizzato, che richiede un’attenta disamina dei cicli di vita, della formazione, del lavoro e della socialità dei gruppi residenti.
La mobilità umana. Il turismo rappresenta la grande novità della Maremma e del Parco in particolare, a partire dagli anni Sessanta e dagli inizi del turismo di massa, con immediati effetti economici e trasformazione dei nuovi visitatori. Il Parco si distingue per diverse tipologie di fruitori: i visitatori singoli, non locali, con transito apicale nei mesi di aprile e di agosto; quelli in comitive, con picco nei mesi di aprile-maggio; i visitatori locali, in numero non calcolabile, che attraversano il territorio per vari motivi, durante il tempo libero o per lavoro. Nel 2000 la popolazione turistica annua ammontava a più di 36.000 turisti singoli e a più di 32.000 turisti in comitiva.
Le comitive sono i gruppi che attraversano e studiano il Parco per motivi scolastici o formativi; i singoli si distribuiscono lungo un calendario più schiettamente balneare. Complessivamente i due flussi tendono a equivalersi, anche se la distribuzione è difforme: le comitive sono per due terzi comprese nei mesi di aprile-maggio, i singoli si distribuiscono maggiormente lungo l’anno; il periodo che va da novembre a febbraio registra quasi un’assenza di flussi. È difficile calcolare la presenza dei locali, da alcuni stimata intorno a 300.000 unità annuali, sulla base del numero dei ticket dei posteggi custoditi per i vacanzieri.
Bisogni sociali emergenti nei diversi comuni. Il Parco raccoglie una popolazione che si aggira approssimativamente attorno alle 500 unità di residenti. È tuttavia composto da zone diverse per ambiente naturale, coltivazione, storia, insediamento, e si costituisce per una serie di ambiti limitrofi che superano le unità discrete dei confini amministrativi e rimandano alla continuità di uno specifico sistema di azioni umane. È pertanto un sistema sociale locale complesso, segnato da diversità territoriali e umane, che necessitano di analisi specifiche per individuare i bisogni sociali da soddisfare. Una generale ricognizione socioantropologica ha individuato diversi temi cui far corrispondere progetti e piani di valenza sociale.
Riguardo alle dinamiche di popolazione, il Parco registra i seguenti trend demografici: la forte presenza delle classi infantili e la decisa crisi delle generazioni nate fra il 1972 e il 1985, appartenenti attualmente alla coorte ‘giovanile’ delle comunità più interne al Parco; la maggiore tendenza delle donne a permanere sul territorio rispetto agli uomini; la tendenza generale all’aumento (pure se inferiore a quello maschile) dell’inserimento femminile nei percorsi formativi e lavorativi; la forte tendenza all’invecchiamento, anche con cadenze meno consistenti rispetto agli ambiti urbani; il definitivo insediamento di una grande componente migratoria in termini di residenza e attività lavorativa.
Per quanto concerne le dinamiche comunitarie, si registra la presenza di diverse comunità di residenti, oramai consolidate, nonché l’esistenza di una nutrita comunità di studiosi.
Riguardo all’immagine della regione, si rafforza la presenza di un forte centro a vocazione naturalistica, con un’attività agricola tipicamente ‘maremmana’ e un nuovo bacino di fruizione naturalistica e turistica.
Circa la presenza di problematiche sociali, si registrano difficoltà di inserimento di immigrati, una relativa carenza di servizi per l’infanzia, l’attestarsi di fenomeni di tossicodipendenza.
Complessivamente l’idea di un nuovo Parco e del suo scenario turistico implica una peculiare mediazione fra ambiente naturale e storico, e soprattutto impone di prendere in considerazione le problematiche sociali e culturali che segnano un’identità locale decisamente composita.
Il Piano pluriennale di sviluppo economico sociale per le aree protette della Provincia di Siena era stato elaborato nel 2002, a partire da vari presupposti derivanti dai lasciti legislativi della fine degli anni Novanta (l. 6 dic. 1991 nr. 394 e deliberazione della Giunta regionale toscana 18 ott. 1999 nr. 1156), al fine di individuare gli elementi comuni in una serie di aree disperse nel vasto territorio della Provincia di Siena e cercare di valorizzarle. Attualmente ancora in fase di completamento, il Piano rappresenta un ulteriore caso di ripensamento territoriale sensibile al complesso rapporto fra natura, socialità e cultura.
Pur insistendo su quattro distinti sistemi storici provinciali (Chianti, Maremma, Monte Amiata e Val di Chiana), le aree sono prive di univoca appartenenza e tendono a costituirsi quali singole unità discrete rispetto alla stessa macroarea di riferimento. La loro reciproca irrelatezza è il principale dilemma, giacché ogni unità rappresenta il risultato residuale di decisioni che hanno storicamente mutilato il territorio, privilegiando alcune componenti su altre, per ogni punto cardinale.
L’idea-guida è riconnettere le aree come parti di un insieme continuo e pianificabile, procedendo per reperimento di vicinanze e temi, entro e oltre le singole partizioni territoriali, in base a omeoformismi naturalistico-ambientali e storici, che permettano di identificare le ‘isole’ di un sistema (fig. 1).
Il sistema. A differenza delle strutture semplici, un sistema di aree naturalistiche implica l’interna percorribilità e rimanda alla capacità di autoriprodurre e specializzare le proprie caratteristiche. Più precisamente, per non subire la deriva territoriale e per non implodere, la vita di un sistema autoriproduttivo discende da due condizioni: è necessaria la presenza attiva di un sostrato attrattore e di un circuito connettivo. Per quanto riguarda la prima condizione, un sostrato è saldo quando esiste un insieme di diversi fattori, tra cui spiccano la biodiversità, il paesaggio agrario, la storia, la cultura locale e la risorsa umana. La seconda condizione richiede la presenza di un ‘anello’ che colleghi le varie parti costitutive dell’insieme. Nel caso in questione, soddisfatta la prima condizione, ogni riserva, oltre a essere valorizzata per le sue caratteristiche, deve poter essere circuitata, ossia rimandare anche ai tratti delle altre unità. Attualmente l’unica specie di circuito è il viaggio, nella sua tipica ciclicità dell’andare per ritornare, allontanarsi per ritrovarsi, tornare per ripartire. È l’elemento antropico che fa trascorrere dalla geografia fisica alla geografia umana e alla cultura locale.
Il viaggio. L’esperienza del viaggio è materia di storia comune per le terre di Toscana. Anche per Siena il viaggio non è mai stato una novità, dal periodo medievale (le strade verso le Maremme, l’acqua potabile, i mulini) sino alla fine dell’Ottocento, con le transumanze dall’Amiata alla Maremma, e all’eterna querelle sulla viabilità ferroviaria o autostradale, verso il Nord e verso il Sud.
Dopo la medievale esaltazione mercantile, Siena non ha però mai avuto fortuna con le strade: la mobilità sul territorio fu quanto mai mortificata nell’Ottocento, quando i viaggiatori stimavano la Val d’Orcia una zona disumana, la Val di Merse una zona emarginata, e le Crete e il Chianti unicamente un duro suolo da lavorare a mezzadria. Senz’altro la conduzione mezzadrile e un sistema viario improbo hanno contribuito a conservare nei secoli un paesaggio, oggi divenuto heritage UNESCO, sopravvivendo a chi in fondo lo aveva costruito. Ma la difficoltà ‘comunicativa’ non è mai scomparsa. Probabilmente l’impegno maggiore della Siena storica è stato l’improbo collegamento con il mare, a partire dallo sbocco tardomedievale a Talamone, e l’ultimo esempio è offerto dal collegamento stradale, mai completato, fra il capoluogo e la costa, una istruttiva storia che fissa le attese, i problemi e i contrattempi di una città tendenzialmente statica (Maggi 2013).
Riproporre il viaggio non è un retorico rimando a un capitolo di storia delle idee, quanto piuttosto la proposta di attivare una mobilità che colleghi e valorizzi territori dispersi.
Due sono i vettori da conformare e porre in movimento: un anello che colleghi tutte le aree e un nastro di memoria che parli di esse. L’anello, nel suo senso più stretto, va individuato su mappa e costituisce la traccia del sistema: attraversa tutte le aree e collega risorse e tecnologie. Da questo anello poi si diramano le altre piste. Per dare identità alla proposta di interconnessione occorre creare una grande banca di memoria del viaggio nella Provincia di Siena. Si tratta di istituire una rete di collegamenti con i club, i gruppi sociali, le associazioni che con le strade hanno avuto o continuano ad avere un nesso relativamente a viaggi, traffico, spostamenti o mobilità territoriale; operare con campagne di interviste e storie di vita, e costituire un centro capace di rappresentare al massimo le diversità di tutte le zone senesi, dove far parlare il territorio tramite i suoi viaggiatori. I più diretti interessati sono coloro che nel viaggio hanno operato: ferrovieri, tranvieri, autisti, personale di macchina, di custodia e di servizi, di stazione e quanto altro, ma anche protagonisti del viaggio familiare o domenicale, senza discriminazioni sociali o tecnologiche.
Visibilità e Sistema museale. La vita del sistema dipende dalla forza vitale immessa e dalla sua forma fenomenica. Si tratta di fare uscire i territori dalla percezione di un loro opaco senso comune, ponendo fra parentesi talune caratteristiche e rendendo distintive altre. Un modo ulteriore per valorizzare l’anello della memoria è quello di porlo in collegamento con il Sistema museale senese (SMS), ai fini di piani integrati di azione che colleghino ricerca, comunicazione, sviluppo economico-sociale e turismo.
Attualmente la crisi economica ha eroso l’autonomia del Sistema museale, anche se la stessa dinamica accomuna le altre regioni italiane che hanno investito in questa direzione. Riguardo ai quattro settori di appartenenza (archeologico, demoetnoantropologico, scientifico-naturale, storico-artistico), ogni museo ha una sua pertinenza areale; parallelamente e in intersezione con il sistema si dovrebbe sviluppare un’analoga rete di centri ambientali capaci ogni volta di collegarsi alle risorse dell’intero circuito, istituendo ‘stazioni di posta’.
La risorsa ‘antropologica’ e quella ‘archeologica’ non sono beni di grande diffusione, perché spesso prevale un habitus di capitale simbolico incorporato, che spinge i visitatori a interessarsi solo delle opere dei grandi artisti, ritenute irripetibili e uniche. L’arte povera, o più semplicemente la produzione artigianale o di serie, corre sempre il rischio del discredito dell’arte ‘minore’ rispetto all’arte ‘alta’. Un nuovo modo di fare vacanza con la disponibilità di beni ambientali potrebbe incidere in maniera meno consumistica o passiva.
Una Toscana particolare: un arcipelago di isole verdi. Si ripropone la domanda iniziale: quale spazio e, soprattutto, lo spazio di chi? Lo spazio più generale in cui le aree si collocano è naturalmente quello regionale, ma di una Toscana particolare, che deve ancora fare i conti con le classiche definizioni territoriali. Emanuele Repetti scriveva:
La Toscana è regione dell’Italia centrale chiamata Etruria in età classica, Tuscia a partire dal III secolo, Toscana dal X secolo. Essa ha forma triangolare e, pur non avendo unità geografica, detiene una particolare fisionomia, dovuta anche all’eterogeneità e alla complementarità delle sue parti costitutive. I suoi confini sono naturali solo nel settore nord-occidentale; a Nord Est travalicano in vari punti lo spartiacque dell’Appennino; ad Est si estendono sulle valli superiori della Marecchia e del Foglia e sull’alta valle del Tevere; mentre a Sud Est e a Sud sono del tutto convenzionali (E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, 1843, 5° vol., p. 426).
La peculiarità della regione è nel possedere una «particolare fisionomia» e una «eterogeneità e complementarità delle sue parti», non una compiuta unità geografica: una regione, in breve, fra l’informe e il solidale. Escluso il baluardo settentrionale costituito dall’Appennino, è arduo definirne i confini, ma al Sud avviene il disastro. I confini del Sud-Est e del Sud sono infatti del tutto convenzionali, in quanto demarcano una linea frontaliera politico-amministrativa figlia di storie culturali e politiche diverse, sino alla genesi dell’attuale ‘quarta Toscana’, una sorta di riunificazione naturalistica postamministrativa a carattere balneare.
Le aree si inseriscono a metà strada fra la Toscana delle tradizioni civiche e la Toscana delle tradizioni agricole e forestali, partecipando di entrambe: un insieme di terre pianeggianti, separate da interni sproni montuosi, alla stregua di un insieme di isole, che formano un arcipelago di macchie d’erba, divise da rocce. Sono ‘isole’ inserite in un arcipelago tellurico, che, raggruppate per tema o per topica, costituiscono arcipelaghi minori, dando vita a una sorta di sistema che si potrebbe definire Altra Toscana. Questa ‘lisca di pesce’ di pianori intrattiene una vita condivisa. Intendere le terre come isole significa riconoscere un’appropriatezza culturale, che le rende simili alle isole autentiche: insieme di luoghi e punti di vista molteplici ed eteronomi.
L’Etruria del Sud – o Altra Toscana – è il risultato di un fitto incrocio di prospettive concorrenti per potenza mitografica o poetica, da quelle storicamente negative (zona antica, di conquista, arretrata, selvaggia, palustre, bonificata, orribile), ad altre positive (regione mineraria, verde, agricola), ad altre ancora trasversali (terra di santi e briganti o di immaginazioni letterarie e pittoriche) e, infine, alle più recenti, legate al ‘patrimonio’ (zona di parchi, musei, turismo, marina).
Nelle variegate figurazioni che si svolgono nel tempo si intrecciano temi di modernizzazione e di tradizione. Si tratta di comprendere la vicinanza delle diverse faglie e la relazione tra gli opposti frammenti, non contrapponendo il presente al passato, al fine di creare luoghi privilegiati di nuove tradizioni.
Occorre individuare le catene che si instaurano circolarmente tra produttori, mediatori e consumatori. L’insieme dei circoli o dei circuiti sociali sono i luoghi (locali/località), la cui connessione reciproca attiva energia e senso, istituendo una nuova tradizione, nuova perché si rapprende in forma di rete e permette ai fruitori di circumnavigare gli arcipelaghi con il minimo sforzo possibile. La differenza fra le vecchie e le nuove tradizioni è in una nuova idea di spazio: con le prime lo spazio è presupposto alle attività umane generatrici di significato culturale; con le seconde, sono gli stessi circuiti a ‘curvare’ l’azione del visitatore, che alterna la posizione del fruitore a quella del produttore. Quanto più uno spazio è costruito da un insieme di circuiti, tanto più un territorio locale diviene glocale, cioè un luogo ‘provinciale’, ma ‘ecumenico’.
La rete che ne discende non necessita di volani esterni o metareti. L’insieme dei luoghi locali diviene la rete delle connessioni, i cui nodi sono i nuovi prodotti delle attività che donano identità particolari e si caratterizzano perché il loro legame non rende più necessario il centro. Il luogo che punta sulla perifericità per esaltare le proprie caratteristiche diviene un ‘centro a se stesso’, ondeggiante fra un narcisismo ‘agglutinato’ e l’esibizione comunicativa. La capacità di divenire centro a sé non deriva dalla mimesi di un centro storico, quanto dall’apertura all’irruzione dell’altro, foriero di nuova interpretazione, rendendo – per così dire – capitale la periferia.
Chiunque si accosti alla rete ne diviene un nodo e quindi un ulteriore continuo interprete: la forza delle nuove tradizioni è nella sfida di tenere ben viva questa tensione fra un insieme organizzato di segni e la loro continua articolazione.
La rete glocale è un modello paradossale: è uno schema mentale per comprendere il presente, che al tempo stesso conferisce identità. Il corifeo del nuovo che avanza con una rinnovata tradizione è radicato nel vivo del contesto, e diviene la nuova immagine della messa in rete delle risorse della natura fruibili dall’uomo.
Un ‘arcipelago di Isole verdi’ è un’Altra Toscana, che dialoga con l’idea dei ‘sistemi culturali’ della regione, quale potenziamento dell’heritage e ‘valore aggiunto’ capace di spostare l’asse degli interventi «da una logica orientata agli istituti e al patrimonio, a una logica orientata al servizio e alla fruizione in condizioni di pari opportunità» (l. reg. 14 apr. 1995 nr. 64).
Fenomenologicamente è una ‘regione dell’animo’ che addebita al tempo della memoria il suo sorgere in contrasto all’oggi, e alla prospezione verso il futuro la comprensione del presente, ove il regime di appartenenza va attribuito e riconosciuto a chi vi risiede, a chi a vario titolo vi opera, a chi vi è interessato.
Il sistema delle aree protette: fruitori potenziali e gestione. Alle caratteristiche dei soggetti/utenti corrisponde un’idea di comunicazione fra un’unità e l’altra. La caratteristica dei circuiti va intesa nel senso dell’accesso al transito e/o del passaggio, non del centro/radice. La rispettiva diversità rende i vari sistemi simili alle mediterranee Sporadi, che agglomerano un’informe discontinuità, e a cui solo l’interesse per la natura e la tensione per i viaggi di scoperta possono donare forma compiuta.
La garanzia del sistema di collegamento fra le varie zone si avvale di quei mezzi non inquinanti (passeggiate, trekking, cycling, navette) che restituiscono la conoscenza e l’uso della viabilità storica.
La gestione dell’intero sistema avviene a un duplice livello. Il primo rimanda a un centro multimediale, informatizzato e interattivo, per costruire un’estensiva documentazione riguardante l’intero circuito, con pacchetti bionaturalistici, geoareali e storico-culturali. Il secondo è relazionale, in quanto è destinato a individuare il più ampio coinvolgimento delle singole comunità locali, dalla formazione di gruppi di lavoro, alle iniziative di impresa, per arrivare fino alla donazione di memoria.
L’intero circuito vede fortemente differenziarsi le zone interne (tutelate e/o inaccessibili) dalle zone limitrofe aperte ai visitatori, offrendo insieme una serie di punti sosta, ristoro e alloggiamento. L’ospitalità più sintonica rimanda al turismo rurale, in quanto forma di accoglienza che si basa su unità di piccola scala, strutture preesistenti, fruizione di risorse locali e condivisione di attività svolte in campagna.
La perimetrazione del circuito corre lungo una serie di nodi, quali i centri visita del sistema, le zone di sosta, i sentieri percorribili, concludendosi in un polo di chiusura a sud del Parco; i nodi fanno capo a un portale d’accesso, destinato a svolgere il ruolo di centro per la memoria locale.
La dinamica che il turismo innesta sui territori costringe quindi a pensare alle località non in termini di autosufficienza, quanto di nodi, punti, segmenti e postazioni, che solo diverse varianti narrative riescono a stringere in trame di senso, lontane da meccaniche applicazioni o enunciati predittivi. Al centro della questione sta il superamento dell’idea di fondare la sussistenza culturale e sociale su spazi unitari o autosufficienti, pena la crisi della stessa località, per dare avvio all’istituzione di strade, percorsi e nuove forme comunitarie, a livello di teoria e di pratica sociale.
Negli anni Ottanta, all’interno del dibattito fra i sostenitori e i detrattori del turismo si sviluppò una terza corrente, ermeneutica, che individuò nel turismo un serious leisure interessato alla crescita del sé in esperienze formative (escursionismo, viaggio religioso o culturale, incontro etnologico, tempo libero, green e così via). Il tasso di posizionamento sul mercato internazionale di tale domanda turistica fu calcolato intorno al 10%, percentuale che si attribuisce ugualmente all’odierno ‘turismo creativo’, pur con la differenza che allora si poneva l’attenzione sulla comprensione interculturale, mentre oggi predominano high-tech e talento.
Un ulteriore aspetto riguarda la semiotica delle destinazioni turistiche, secondo la quale la motivazione al viaggio e al turismo dipende dal potere che possiede lo sguardo nel muovere il viaggiatore e nel connotare uno spazio: ne è un esempio precipuo l’evento speciale (hallmark event), che si identifica con una località sino a divenirne metonimia, slogan e marchio.
Tale individuazione costituisce un indubbio avanzamento rispetto agli studi ancora fermi al modello della ‘torre Eiffel di Parigi’ e introduce mobilità nella stessa definizione delle destinazioni; ma non è esente da critica o da rischio di unilateralità. Essa, infatti, tende a trasformare tali eventi in un’ulteriore icona statica dello sguardo, disinteressandosi della insopprimibile dinamica storico-sociale.
Il contenzioso, in particolare, concerne la natura attrattiva della località, come essa si organizzi e in che modo le soggettività territoriali vivano uno spazio e un tempo straordinario. Lo studio antropologico ed etnografico dei fatti sociali aiuta a comprendere le difficoltà che un territorio incontra per trasformarsi, individuando alternative o possibilità reali, senza cadere in determinismi iconici o tellurici.
In questo paragrafo affronteremo due casi, il Salento e Chianciano Terme, esemplificativi del fatto che la surdeterminazione di uno spazio umano a un’unica attrattiva deve aprirsi a una gamma scalare di chances, che vanno dalla pura ‘finzione’ al nuovo ‘radicamento’, in un tendenziale processo di ibridazione che ostacoli l’affermarsi della morte di un luogo.
Dagli anni Novanta in poi il litorale meridionale salentino si è caratterizzato per la veloce affermazione di aggregazioni giovanili alternative che vantavano discendenze musicali giamaicane. I fattori costituenti di tale pratica musicale sono noti: un sistema composto da sound system, ‘ritmo a levare’, potenti impianti musicali viaggianti e una narrazione in musica di brani di critica sociale che danno vita al rap, cultura afroamericana di pratica di resistenza urbana e di creatività collettiva.
In Italia il rap si inserisce nella complessa storia dei gruppi musicali posse, dei movimenti antagonisti del periodo successivo agli anni Ottanta e dei centri sociali, noti per diffuse pratiche di occupazione di aree industriali dismesse e per forme musicali di autocoscienza collettiva. In quegli stessi anni si sviluppò il reggae salentino, alla marina di Melendugno, in particolare grazie ai gruppi musicali raggamuffin, che mescolavano stile giamaicano, technotrance e dialetto locale. Lo stile nasceva dalla stretta connessione fra musica e mare, e si rafforzò grazie all’intenso flusso di turisti che partecipavano direttamente alle performance locali. Così, in un ambito caratterizzato da rave, dancehall estiva, birra e spinelli, nasceva il ‘ragga-turista’ (Muti, in Turismo critico, 2009).
Nel 1998, poi, vide luce la Notte della taranta, che abbandonava la stagione più dura del rap per diventare festival della musica popolare salentina, con riserve per ragga-turisti, inviti a star internazionali, vocazione trasgressiva e, soprattutto, forti impegni istituzionali: il luogo è diventato un vero e proprio distretto culturale, che attrae turisti a cadenze annuali di massa (Il ritmo meridiano. La pizzica salentina e le identità danzanti, 2002).
Il linguaggio praticato è un’originale sintesi di radici territoriali, motivi tradizionali, uso del dialetto e ritmi ragga, in un mix che ha attirato l’attenzione di uno dei maggiori studiosi internazionali della trance, Georges Lapassade (1924-2008), il quale ha persino ipotizzato (pur se ha poi ritrattato) una continuità di trance fra il reggae e la tradizione della pizzica, collegando il ritmo musicale meridionale allo spirito autentico del tarantismo, studiato dall’etnologo italiano Ernesto de Martino (1908-1965) e poi ribattezzato tarantamuffin.
La pubblicazione fondamentale cui gli ideatori della Notte della taranta si riferiscono è senz’altro La terra del rimorso (1961), in cui de Martino fornisce il resoconto degli studi compiuti negli anni Cinquanta, in terra salentina, sul morbo di san Paolo e sul ballo delle tarantate. La monografia etnografica demartiniana nasceva in realtà per la ricostruzione di una realtà socioculturale in via di estinzione, ma negli anni Novanta diventò una risorsa simbolica territoriale di rara potenza; e quella stessa terra, quarant’anni dopo, ha esaltato un incredibile incrocio di musiche e coreutiche, trasformando un luogo abbandonato dalla storia in un centro di musica popolare glocale ad amplissima destinazione turistica. Il supposto atavismo si è trasformato nel suo opposto ed è diventato il genius loci di un Sud nobile e creativo, ove le stesse opere degli antropologi italiani si trasformano in totem locale e veicolo di diversità culturale.
Il distretto culturale salentino nel frattempo si è aperto a una robusta rete di accordi fra istituzioni e associazioni culturali, dando vita a una fondazione territoriale che ha collegato le realtà comunali alla web-community (http://www.pizzicata.it.). La Notte della taranta si è trasformata nell’evento centrale dell’area pugliese, rafforzando l’immagine identitaria dell’intero territorio e garantendo in ultima analisi la continuità degli stessi flussi turistici.
Il circuito fra musica, terra e fruizione ha quindi trovato una specifica saldatura politica con la l. reg. 22 ott. 2012 nr. 30, che fissa i criteri in materia di conservazione, produzione e fruizione della ‘memoria sonora’ della Puglia, a partire dal grande patrimonio delle ‘registrazioni sul campo’ di importanti etnomusicologi italiani e stranieri o dagli stessi ‛esecutori tradizionali’, secondo lo spirito della Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, approvata il 17 ottobre 2003 e ratificata dal Parlamento italiano con la l. 27 sett. 2007 nr. 167, relativa all’area definita isola sonante e, oramai, patria elettiva della musica tradizionale.
La l. reg. 30 del 2012, dedicata appunto agli «interventi regionali di tutela e valorizzazione delle musiche e delle danze popolari di tradizione orale», così recita:
La Regione Puglia, in attuazione della convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, tutela e valorizza la memoria culturale delle musiche e delle danze popolari di tradizione orale storicamente originatesi o attestatesi nei suoi territori, e contribuisce allo sviluppo della pratica musicale promuovendo iniziative e facilitandone l’esercizio al fine di garantire la più ampia diffusione nell’ambito delle comunità locali (art. 1) [...] con particolare attenzione alle opere multimediali che consentono l’ascolto diretto di registrazioni di interesse storico e risultato di ricerche di carattere antropologico, etnomusicologico ed etnocoreologico (art. 6).
La Notte della taranta rappresenta l’evento centrale del movimento che sostiene il revival salentino della pizzica, e inaugura un capitolo significativo per le politiche pubbliche di cultura popolare, tese a valorizzare turisticamente i patrimoni etnografici locali, rinnovellando la mai sopita questione dell’identità culturale del Mezzogiorno italiano, considerata ora espressione di ‘subalternanza politica’ a un Nord egemonico, ora originale emergenza postindividualistica di ‘diversità culturale’ (F. Cassano, Il pensiero meridiano, 1996, nuova ed. 2005).
Il cosiddetto turismo termale è un settore assai variegato del turismo, che evidenzia i limiti delle vecchie esperienze termali e consente di focalizzare l’attenzione sulle novità odierne.
Il segmento di mercato è da lungo tempo in crisi, come mostra l’inarrestabile contrazione dell’offerta alberghiera della stazione termale di Chianciano Terme. Dagli oltre 2 milioni di presenze annue del periodo d’oro, infatti, si è passati a meno della metà alla fine del primo decennio del Duemila, con una media di permanenze sotto le quattro unità giornaliere, di contro ai dieci giorni dell’usuale cliente termale. Alla fine degli anni Ottanta le presenze italiane annue avevano raggiunto la cifra di 1.600.000; nel 1995 si era scesi a 1.225.880, nel 2011 a 597.021 (rispettivamente, con i turisti stranieri a quota 1.406.010 e 874.003). Anche se a Chianciano Terme gli alberghi hanno consevato una presenza importante (139 sul totale di 178 strutture ricettive), le chiusure sono divenute diffuse e pesanti. Lo stesso numero dei posti letto ha registrato una forte flessione, anche se l’aumento di consistenza media degli alberghi ha in parte compensato la tendenza.
Chianciano è un luogo noto agli antropologi italiani, perché vi sono state svolte ricerche mirate, fra il 1996 e il 1999, quando la metà degli alberghi stava chiudendo ed emergeva l’esigenza di diversificare l’offerta turistica, includendovi quella di beni ambientali (Chianciano Terme. Storie persone immagini, 1999). Chianciano, nata ai primi del Novecento come centro termale aristocratico, divenne velocemente una città della ‘acqua santa’ per le cure termali di massa. Poi, i cambiamenti nel regime sanitario nazionale, la crisi dello stato sociale, l’invecchiamento del ‘curista’ classico, nonché il mutamento nelle preferenze soggettive per la fruizione delle attività dedicate al benessere, hanno creato una fortissima crisi agli inizi degli anni Novanta, cui è seguita da parte delle forze politiche ed economiche locali un mutamento di rotta a favore di una Chianciano attenta ai gusti dei consumatori, con un passaggio di investimenti dalle ‘acque per il fegato’ ai ‘percorsi sensoriali’. Grazie al nuovo assetto proprietario delle terme, Chianciano ha inaugurato nel settembre 2006 la cosiddetta linea benessere e le terme sensoriali presso lo stabilimento Acquasanta, con speciali occasioni per i weekend e pacchetti short breaks (per es., degustazione e arte) che hanno congiunto i prodotti di eccellenza del territorio senese; all’interno dei Parchi termali di Fucoli e di Acquasanta è sorto inoltre il Villaggio termale che anima eventi e incontri.
Anche i nuovi centri benessere sono però destinati a subire l’attuale crisi economica che colpisce le famiglie, e le terme sensoriali non sono capaci da sole di invertire il declino della ricettività. Nel 2009 la situazione non è risultata quindi molto cambiata, se non per l’aggravamento della crisi e per l’ulteriore contrazione dell’offerta alberghiera. Si è lanciato allora un piano provinciale di ricostruzione di immagine del paese, in grado di valorizzare altre componenti storiche con la creazione di un Parco letterario (dedicato a Orazio e Pirandello, ospiti illustri della stessa cittadina) e con il rilancio delle risorse archeologiche, ambientali, storico-culturali, più legate al territorio. Chianciano Terme, da città-Stato termale, è destinata a essere di nuovo una delle molte e diverse terre senesi, ricalibrando il proprio target di riferimento.
I casi del Salento e di Chianciano Terme rendono consapevoli dell’attuale difficoltà a ipotizzare una direzione accentrata di sviluppo economico-sociale dei territori, in particolare in ambito turistico. La dinamica dei megaeventi, evidenziando l’impossibilità che uno spazio monoculturale possa garantirsi consolidamento e durata, sottolinea invece la tendenza dei nuovi spazi di turismo-heritage a esigere un diverso radicamento sul territorio, legato alla sfera sensoriale e a una fruizione attiva, ove la cultura si trasforma sempre di più in un processo di ‘strade’, in cui i visitatori reclamano un diritto di cittadinanza legato alla libertà di narrare le proprie preferenze territoriali.
L’implosione degli hallmark events corre parallela alla progressiva crisi che la cultura-organismo consuma a favore della cultura-processo. L’accostamento alla semantica della strada è significativo, in quanto individua un percorso generale di vita che rilancia la metafora anche in ambito turistico (J. Clifford, Routes. Travel and translation in the late twentieth century, 1997, trad. it. 1999; Touring cultures, ed. C. Rojek, J. Urry, 1995), come si vedrà affrontando gli esempi delle wine routes e degli outlet villages.
La strade culturali rappresentano una felice strategia che coniuga tradizioni storiche, mobilità umana e senso di appartenenza, riprendendo le rotte che un tempo congiungevano città, territori, domini dell’Europa.
Emule delle grandi strade consolari romane che unificavano le varie parti dell’Impero, esse rappresentano una vasta gamma di percorsi tematici, religiosi (Santiago di Compostela), nobiliari (carolingia, dei re e degli imperatori, dei castelli, ecc.), artistico-letterari (arte romana, di Goethe, del barocco, delle fiabe e così via), senza tralasciare aspetti legati all’oggettualità della vita quotidiana, come l’artigianato e la produzione alimentare (le strade del legno, del formaggio, dei tessitori e così via).
Le ‘strade del vino’ costituiscono interessanti percorsi che permettono di esplorare un paesaggio particolare, saldando sfera spaziale e dimensione reddituale in un’aggregazione di rete che fornisce un valore aggiunto al suolo stesso. I primi esempi rimandano alle protonovecentesche Deutsche Weinstrassen tra Reno e Mosella, ma sono stati i francesi negli anni Settanta a organizzare i territori utilizzando il vino come prodotto ambasciatore per attrarre i turisti e valorizzare interi territori, come la Champagne, il Bordolese, la Borgogna, l’Alsazia e il Beaujolais (J.E. Wilson, Terroir: terroir (tair-wahr) a French term meaning total elements of the vineyard, 1998). Senza dimenticare altre promozioni famose, quali il tartufo per il Perigord, il distillato di miele per il Calvados, il brandy per il Cognac e l’Armagnac, le ostriche per la Bretagna, il pollo per il Bresse, i salumi per l’Alsazia, i formaggi per la Provenza (A. Monterumisi, Turismo e strade del vino: progettare, organizzare e promuovere i distretti turistici integrati, 2005, pp. 7 e segg.).
Dal punto di vista definitorio, la ‘strada del vino’ è un itinerario-a-sistema o, forse impropriamente, un distretto turistico integrato, che presenta il vantaggio di rendere appetibile il territorio, attraendo gli amanti dell’ambiente, della storia e della tradizione, secondo la vocazione di un turismo che valorizza i prodotti del suolo, la loro qualità, l’ospitalità di una cultura localizzata, grazie a una ‘città locomotiva’ che induce i turisti a visitare l’ambiente circostante, come dimostrano i casi classici della città di San Gimignano, con il primo DOC bianco Vernaccia del 1966, e di Sant’Arcangelo di Romagna con la sua sede museale.
Gli stessi attori economici hanno piena consapevolezza delle finalità e chiarezza sugli esiti attesi: la strada contribuisce a ‘musealizzare’ il territorio, puntando sull’associazionismo industriale ed evidenziando la tracciabilità del prodotto. L’integrazione verte soprattutto sulla diade vino/cibo e apre a una tipica atmosfera di loisir rurale che esalta in chiave antiurbana la mimesi della vita agreste e l’attività en plein air, il fitness, lo sport, la caccia, il maneggio o il paesaggismo.
Il turismo legato alle attività agricole è una meta trasversale che rafforza l’export di prodotti artigianali e cibi locali, dove l’enogastronomia diventa una specifica preferenza di un turismo culturale capace di valorizzare e preservare i territori agricoli, unificando un sistema di offerta di beni materiali e immateriali: la strada culturale rappresenta il filo comune che integra i prodotti, l’ambiente e le risorse culturali, all’interno della rete degli attori sociali implicati nella produzione e nel consumo del prodotto locale. Le strade sono segni complessi che interpretano sostrati sociali e luoghi di interesse legati alla storia e al paesaggio, tramite prodotti tangibili ed esperienze soggettive dei visitatori, che inaugurano una mappa che correla regione e markers di risorse, secondo una linea continua di crescente complessità (Antonioli Corigliano, in Tourism and gastronomy, 2002).
Dal punto di vista giuridico le ‘strade del vino’ sono disciplinate in Italia, dalla l. 27 luglio 1999 nr. 268 quali soggetti giuridici di tipo associativo, privati e pubblici, riconosciuti in un apposito elenco regionale. Storicamente, dopo un primo avvio nel Veneto dei primi anni Sessanta, la Toscana è stata la prima regione ad anticipare la normativa nazionale con la l. reg. 13 ag. 1996 nr. 69, e sulla sua scia hanno proseguito il Piemonte con la l. reg. 9 ag. 1999 nr. 20, dedicata alla «disciplina dei distretti del vino e delle strade del vino», e l’Emilia-Romagna con la l. reg. 7 apr. 2000 nr. 23, disciplinante gli itinerari turistici enogastronomici delle neonate «strade dei vini e dei sapori».
La Toscana è l’esempio di un’area che sul mercato enogastronomico promuove eventi molto importanti a partire da un marker universalmente riconosciuto (per es., il Chianti Gallo Nero), secondo itinerari che attraversano le zone agricole protette dalle denominazioni di origine controllata, controllata e garantita e geografica tipica, cui di recente, in maniera consortile, si è aggiunta la federazione delle 21 «strade del vino, dell’olio, dei sapori» (fig. 2).
Il Piemonte ha rinnovato la normativa precedente con la l. reg. 9 ott. 2008 nr. 29, sui «distretti rurali e distretti agroalimentari di qualità», che regola anche le strade del vino. L’esempio di eccellenza sono le strade delle Langhe, che associano in maniera esemplare il Cuneese alle manifestazioni delle strade dei grandi rossi, come il Barolo e il Barbaresco (Denominazione di origine controllata e garantita, DOCG, 1981). Grazie alla nascita di associazioni non profit e di uno sviluppato sistema di comunicazione e organizzazione di eventi, le strade sono destinate ad attraversare aree assai rinomate per vino di eccellenza, quali vere e proprie calamite per lo sviluppo turistico (fig. 3). ’Emilia-Romagna è un altro interessante caso regionale italiano, il cui assetto complessivo è esemplarmente descritto dal Touring club italiano (TCI):
Non è un confine segnato sulle carte quello che divide l’Emilia dei suoi piatti suadenti e dello gnocco fritto dalla Romagna dei sapori accesi e della piadina, ma la linea di incontro delle due anime della stessa terra. Il trapezio disegnato fra Po, Adriatico e Appennino è senza dubbio il giacimento gastronomico più ricco d’Italia. I suoi abitanti hanno fama d’essere forti mangiatori e amanti di una cucina rigorosa. Il culto della mensa ben guarnita è dovunque vivo, ma sotto il grande velo unificatore della sfoglia due sono le anime che lo alimentano. Da Piacenza a Bologna si stende l’Emilia, da Ravenna a Rimini è la Romagna, separate alla caduta di Roma da un confine geografico e culturale: da una parte i longobardi, dall’altra i Bizantini; con i primi la cucina del maiale, della mucca e della padella di ferro; con gli altri quella del frumento, della pecora, della piastra di terracotta; qui, salumi, formaggi e gnocco fritto; di là castrato e piadina (Guida Touring. Turismo gastronomico in Italia, 2001, p. 320).
L’articolazione discorsiva e l’evocazione iconica rimandano alla branca conoscitiva degli studi gastronomici e celebrano lo scontro cruciale dei consumi alimentari attuali nell’opposizione fra due approcci antitetici, slow food e fast food, ove il passaggio dal body food al soul food istituisce una filiera solidale fra territorio, alimenti e consumo. Esemplarmente la Romagna, dove il sistema turistico alla francese si trasformò verso la fine degli anni Settanta nella soluzione del Club di prodotto, ha associato 55 aziende private che ruotano attorno al progetto della Strada del Sangiovese e dei vini Colli di Rimini, poi Strada dei vini e dei sapori dei Colli di Rimini, e attorno al borgo medievale di Santarcangelo di Romagna. Il decollo della giunzione interprovinciale fra le Strade del vino di Rimini e quelle di Forlì-Cesena punta sulla diade vino-cibo per valorizzare anche economicamente le zone viciniori ai rinomati siti turistici della costa (fig. 4).
Alla costruzione di un percorso di cultura materiale corrisponde la formazione di una ‘catena del valore’. La Strada è inserita in un insieme di beni e servizi locali, la cui comunicazione avviene tramite un regime quasi immateriale di marchi e nomi regionali. La visibilità a livello urbano e rurale dei beni di relax rafforza la qualità del prodotto, distribuito e integrato con altri cibi, sino a fissarlo a livello regionale. Le associazioni o i centri culturali così sorti producono eventi e percorsi formativi, ove il cibo assume la facies del bene trasversale che promette un’esperienza piena del territorio. Nella letteratura critica è da tempo aperto un dibattito su modalità, opportunità e durata delle aggregazioni per prodotto industriale (o dei distretti industriali), quali insiemi territoriali di imprese connotati da culture comuni. Il passaggio dal distretto industriale a quello turistico è stato variamente proposto negli ultimi decenni, sino alla l. 29 marzo 2001 nr. 135 che ha optato per la definitiva dizione «sistema turistico locale». Il nodo però continua a essere, in Italia, politico, come dimostra il dibattito successivo attorno alla gestione del territorio, e in particolare attorno al ruolo della decisione politica nella creazione e nella gestione di un cluster.
Il cluster è un gruppo omogeneo di dati che in geografia economica designa ‘un agglomerato geografico’ di imprese e associazioni caratterizzate da vantaggio competitivo e insieme cooperativo. In tal senso, il distretto turistico rappresenterebbe uno specifico contesto interattivo che mostra un’identità definita da forti confini culturali. L’azione della comunità residente e il potere politico locale, sia pure a diversi gradi di decisionalità o densità economica, sono capaci di attirare attori extraterritoriali entro il processo di produzione turistica. E, nonostante i possibili conflitti tra neoarrivati e residenti, l’assetto della ‘rete’ messa in campo ha il merito di far ruotare attorno alla qualità del prodotto modelli originali di esperienza di vita e creazione di partnership.
Il passaggio da distretto a sistema turistico locale denota prima di tutto la limitatezza della destinazione turistica, fondata sulle sole preferenze del consumatore; e, in secondo luogo, esercita la convinzione che al territorio giovi pensare allo sviluppo in termini di ‘reti’ attoriali, reciproco riconoscimento sociale e strategie decisionali locali (G. Becattini, Distretti industriali e made in Italy. Le basi socioculturali del nostro sviluppo economico, 1998). Nella prospettiva del cluster le esternalità positive producono vantaggio, giacché si attivano spinte coesive interne e quindi cooperazione rafforzativa del territorio, impedendo le note patologie turistiche. In tal senso, le finalità espresse dalla nozione struttural-funzionale di sistema turistico locale risultano maggiormente idonee a sviluppare una dinamica bottom/up, anche se vi sono regioni (per es., il Friuli Venezia Giulia, il Piemonte, la Toscana e la Sicilia) che non hanno ancora dato seguito alle indicazioni nazionali. Al centro della contesa è ovviamene la conduzione territoriale in un’epoca postnazional-statuale: lo dimostra l’implementazione a macchia di leopardo della legge 135 del 2001, che ha visto in alcuni casi trasformare tutto il territorio in una filiera di sistemi turistici locali, eguagliando risorsa economica e risorsa turistica, in altri affidarsi alle precedenti organizzazioni cooperativistiche (Romagna), alla politica bilanciata della regione (Piemonte), o alle gestione compensatrice delle spinte campanilistiche (Toscana).
La lotta per la definizione dei termini non è mai innocua, come dimostra la l. 12 luglio 2011 nr. 106 che, pur in un momento di piena crisi, prevede (art. 5) la possibilità di finanziare i «distretti turistici». Ciò spiega la difficoltà di distinguere fra struttura concettuale normativa e schema operazionale. Più analiticamente Walter Santagata (2006, pp. 1110 e segg.) distingue fra distretti culturali industriali e distretti istituzionali culturali. Per i primi vale la tesi di un’economia esterna di agglomerato imprenditoriale; per i secondi, si tratta di un cluster che basa la sua forza sui diritti di proprietà intellettuale dei marchi territoriali.
Questi ultimi sono i marchi collettivi, le indicazioni geografiche, i diritti esclusivi che, oltre a difendere l’autentico dalle falsificazioni, divengono un bene comune locale, espressivo di un livello medio di appartenenza sociale dei prodotti rispetto alla loro funzione di offerta. Lo dimostra l’assegnazione di un marchio collettivo o di un diritto di proprietà, che si misura in genere sulla riduzione delle esternalità negative e sulla valorizzazione delle eccellenze territoriali, che producono a loro volta ulteriori regole e standard per aumentare la competizione.
I distretti istituzionali culturali sembrano pertanto più adatti ai Paesi in via di sviluppo; e, nonostante alcune controindicazioni, quali l’aumento di comportamenti da free rider o la necessità di controlli continui, la proprietà collettiva di un marchio porta un vantaggio complessivo e aumenta l’atmosfera imprenditoriale, divenendo veicolo impositivo di standard di qualità.
Le strade del vino sono quindi veicolo di rafforzamento culturale territoriale (sino alla musealizzazione della vita quotidiana), a forza e direzione centripeta verso un ‛senso del luogo’, che si oppone ad altre formule del viaggio, orientate invece a cercare oltre il radicamento del sé.
Esistono ‘strade del gusto’ connotate da parecchi markers che attraversano territori multipli. Alcune sono attinenti alla fruizione della moda e convergono a soddisfare in maniera crescente una forma diffusa di consumo culturale: si tratta del sistema outlet.
Il viaggio finalizzato all’acquisto di merci rappresenta un carattere costante della società dei consumi e lo shopping tour induce i soggetti a rivolgersi distintivamente verso luoghi attrattivi che coniughino motivazione al consumo di merci pregiate e ricerca di esperienze.
Non manca, in verità, una robusta tendenza di studi che individua in tali performance vere e proprie forme di ‘vita falsa’, esposte a offrire spazi fittizi, effimeri o di mera vetrina (La città vetrina. I luoghi del commercio e le nuove forme del consumo, a cura di G. Amendola, 2006). Ed esiste anche una diffusa pubblicistica che vede negli outlet la forma più compiuta della colonizzazione del ‘finto’ e dell’ ‘artificiale’ sulla vita sociale e politica (si veda anche A. Cazzullo, Outlet Italia. Viaggio nel paese in svendita, 2007). Tale forma di shopping genera comunque per lo meno due esternalità positive: una spinta antidelocalizzante e una tendenza alla rivitalizzazione, in quanto dà vita a parchi commerciali che, sorgendo in ex aree industriali o in zone dismesse, riqualificano il paesaggio urbano, abilitando persone (e gruppi) a impegnarsi per un nuovo territorio; in Europa tale processo ha portato anche alla creazione di vere e proprie città-outlet, come mostra, in Germania, il caso emblematico della sveva Metzingen (Johler 2006).
Gli outlet esprimono un livello urbano di built heritage entro un bacino (per lo più rurale) di utenza che collega, entro un raggio di 90 minuti di percorrenza, diverse unità urbane, a partire da un centro maggiore che ‘addensa’ una mobilità commerciale di media distanza, non di rado sovraregionale, più raramente sovranazionale. Storicamente essi devono genesi e fortuna agli spacci di fabbrica, che realizzano, a prezzi ridotti, residui di magazzino o merce di seconda scelta, sino a divenire i grandi centri statunitensi al coperto di beni di marca venduti sottocosto (shopping malls). La caratteristica peculiare risiede nella presa in prestito dai parchi a tema della forma del villaggio, modulato secondo elementi architettonici locali, che offrono un setting ricercato di loisir differenziato rispetto ai più comuni centri commerciali.
Verso la fine degli anni Novanta sorgono in Italia i factory outlet villages, assemblati da un’impresa inglese specializzata nella costruzione di spazi neourbani, con offerte di affitto di stand a imprese dotate di brand. Il primo ad apparire è il village di Serravalle Scrivia, ispirato all’architettura del Settecento piemontese. Il prototipo del MacArthur Glen Designer riscuote successo e si riproduce per lo più nel Nord con un’offerta di ‘toyotismo turistico’ di firme di alta moda o marchi di qualità. Il passaggio al grande brand a prezzi ridotti induce a un largo consenso e tende a moltiplicare di funzionalità l’outlet stesso. La fruizione delle merci di lusso a basso costo moltiplica il flusso dei visitatori e dà vita a specifiche offerte di mete turistiche sui siti outlet. La peculiare natura geografico-commerciale dei villaggi si innesta su momenti di rigenerazione territoriale, stimolando nuovi distretti commerciali capaci di soddisfare la domanda dei frequentatori, fra cui, fondamentalmente, gli escursionisti, i businessmen, i viaggiatori stranieri, le famiglie, i residenti italiani con buona propensione a spendere; più in generale, i city users (Rabbiosi 2013).
Lo spazio degli outlet attiva un ‘senso del luogo’ grazie al doppio livello dello shopping di lusso e dell’arredamento metacomunicativo, che interloquisce con l’ambiente storico circostante, sia esso la forma del borgo medievale, l’architettura settecentesca, l’art déco, la cascina o la reggia. Il risultato è la messa in scena di un setting ‘ipercostruito’, secondo un’estetica di villaggio che produce lo stupore generalizzato di un tempo quasi sospeso. L’emergere dell’attrattività turistica degli outlet è particolarmente significativa nella catena Designer, ove l’outlet village si trasforma in oggetto turistico, che calamita nuovi consumatori e redistribuisce reddito per tutto il territorio, esponendo le tracce glocali di un’ibridazione fra distribuzione internazionale delle merci e radicamento vernacolare. L’outlet village di Barberino del Mugello, ben in vista sul medio Appenino dell’Autostrada del sole, si caratterizza per essere un borgo rinascimentale sede di premi istituzionali, con un sito ricco di consigli per destinazioni turistiche fra Mugello, Firenze e Bologna; Castel Romano raccomanda gite turistiche a Roma, ai Castelli romani e alle Terme; a Serravalle, di architettura settecentesca, le mete si estendono a Portofino, ai castelli, alla degustazione del vino, a Milano, a Genova, alle Cinque terre, all’archeologia; Noventa del Piave presenta i palazzi veneti e i ricordi palladiani nella piazza del villaggio, con le indicazioni turistiche verso Venezia, Jesolo, Treviso, Padova e shopping al Lago di Garda e lungo la bassa Padana; la Reggia di Caserta invita a visitare la zona compresa fra Caserta, Napoli e la Penisola sorrentina.
Gli outlet si distinguono per uno specifico marchio, che condensa proprietà industriale di rete e senso del luogo, e testimoniano lo status di complessi di strade culturali pluridirette, fornite di un’ampia varietà di marche e di loghi, e aperte a percorsi tematici a rete (fig. 5). Il circuito degli outlet si caratterizza anche perché rafforza le nervature provinciali e regionali degli ambienti viciniori, come avviene tipicamente nel Veneto, con la rete stradale che collega Venezia a Legnago e contrassegna la larga area del tessile (fig. 6). Se si osserva però la distribuzione complessiva regionale, la loro diffusione è molto più lampia, in specie se gli outlet non sono subordinati strettamente alla forma di village. Gli outlet rappresentano, pertanto, una forma di consumo che combina le caratteristiche del turismo culturale e di quello creativo, con tendenza a collegare gli spazi intercittadini in ambito rurale.
Diversamente dalle connessioni stradali, esistono altre modalità in cui il turismo può riaggregare gli spazi dispersi della modernità, senza cadere nell’uniformismo dello hallmark. Si tratta degli ecomusei, organizzazioni a disposizione comunitaria, che esaltano la forza coesiva di valori territoriali e del capitale sociale, tipiche del turismo culturale e creativo.
«L’ecomuseo è un processo dinamico con il quale le comunità conservano, interpretano e valorizzano il proprio patrimonio in funzione dello sviluppo sostenibile. L’ecomuseo è basato su un patto con la comunità». Con tali parole si inaugura il sito dedicato agli ecomusei trentini (Provincia autonoma di Trento 2004, 1° vol., p. 11), fissando i limiti della missione museale, che rimanda alla grande lezione di Henri De Varine.
L’ecomuseo salvaguarda e valorizza le tradizioni locali, perché tutela e riscopre la memoria collettiva dello storico patrimonio immateriale di una popolazione, grazie alla conoscenza integrale del suo habitat e alla promozione di uno specifico sviluppo locale. La formula, originata da un patto, impegna una comunità a prendersi cura di un territorio, secondo strategie di vita condivise dagli attori istituzionali e dagli agenti del territorio (stakeholders), in un coinvolgimento di partecipazione diffusa, capace di coniugare la tradizione e l’innovazione. L’ecomuseo ha il compito di valorizzare assetti soprattutto immateriali, (tradizioni, memoria, studi scientifici, relazioni, azioni, processi, modelli sociali e di governance) e pone il suo patrimonio come momento centrale della valorizzazione del territorio. In questa cornice, la sensibilità per l’ambiente e l’interesse per la crescita culturale della popolazione residente sono le due chiavi che mirano a rafforzare identità e sviluppo.
L’assenza di indicazioni normative nazionali non ha disincentivato la crescita di esperienze ecomuseali, sorte generalmente a opera di partenariati fra enti locali e istituzioni culturali; spesso gli ecomusei devono però la loro esistenza all’azione politica e culturale di gruppi impegnati a contrastare situazioni critiche o invertire processi di abbandono e degrado territoriale, come nei casi della Regione Piemonte e della Provincia autonoma di Trento, che meritano di essere ricordati nel panorama nazionale.
Gli ecomusei piemontesi sono promossi da enti locali, associazioni culturali e ambientalistiche, istituti universitari e istituti specializzati; riconosciuti con delibera regionale, la gestione è affidata a enti di gestione delle aree protette, province, comuni, comunità montane, associazioni. In Trentino (l. prov. 9 nov. 2000 nr. 13) hanno invece diritto a promuoverne la candidatura solo gli enti comunali; il riconoscimento è deliberato dalla Giunta provinciale, la responsabilità rimane ai comuni che di solito ricorrono ad associazioni varie per la gestione. Gli ecomusei trentini non hanno una qualificazione giuridica autonoma, ma fanno parte integrante dell’ente comunale che li ha promossi o dei comuni che hanno dato vita alla gestione associata.
La Regione Piemonte è stata la prima in Italia ad avviare una propria politica di valorizzazione del patrimonio territoriale con la l. reg. 14 marzo 1995 nr. 31 sull’istituzione di ecomusei in Piemonte, ove questi luoghi sono destinati a sostenere iniziative legate a un determinato territorio e al suo patrimonio culturale, in maniera tale da
ricostruire testimonianze e promuovere la memoria storica, la vita, la cultura materiale, le relazioni tra ambiente naturale e antropizzato, le tradizioni, le attività e il modo in cui l’insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio.
Le leggi della Provincia autonoma di Trento e della Regione Friuli Venezia Giulia hanno tratto dalla normativa piemontese le principali finalità ecomuseali. La prima infatti, nel 2000, ha istituito gli ecomusei allo scopo di:
recuperare, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, la cultura materiale e immateriale, le relazioni fra ambiente naturale ed ambiente antropizzato, le tradizioni, le attività e il modo in cui l’insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio (l. prov. 9 nov. 2000 nr. 13, art. 1).
La seconda, nel 2006, ha recepito alcuni aspetti significativi dell’evoluzione del concetto di ecomuseo, spingendosi a esprimerne una definizione sostantiva piena:
recuperare, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, le figure e i fatti, la cultura materiale e immateriale, le relazioni fra ambiente naturale e ambiente antropizzato, le tradizioni, le attività e il modo in cui l’insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio e del territorio regionale, nella prospettiva di orientare lo sviluppo futuro del territorio in una logica di sostenibilità ambientale, economica e sociale, di responsabilità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati e dell’intera comunità locale (l. reg. 20 giugno 2006 nr. 10, art. 1).
Di grande rilievo è l’inserimento, negli obiettivi ecomuseali, del concetto di sostenibilità ambientale e di partecipazione della comunità locale, oltre al valore dichiarato delle lingue minoritarie, come già in Piemonte.
L’ultima in ordine di tempo è la Regione Lombardia che definisce l’ecomuseo come un’istituzione culturale capace di assicurare
[...] su un determinato territorio e con la partecipazione della popolazione, le funzioni di ricerca, conservazione, valorizzazione di un insieme di beni culturali, rappresentativi di un ambiente e dei modi di vita che lì si sono succeduti e ne accompagnano lo sviluppo» (l. reg. 2 luglio 2007 nr. 13, art. 1).
Il testo introduce la novità della Consulta regionale degli ecomusei «quale organismo che esprime pareri e formula proposte in tema di ecomusei, al fine di favorire la costituzione e lo sviluppo della rete culturale degli ecomusei» (art. 3), e la statuizione dei contributi regionali per la gestione e il finanziamento degli istituti sino al 50% della spesa sostenuta dall’ente.
In Veneto è stato istituito il Sistema regionale dei musei etnografici (l. reg. 18 apr.1995, nr. 26) che ha dato avvio agli Itinerari etnografici del Veneto, un sistema di percorsi che raggruppa le diverse realtà ecomuseali. Nelle regioni meridionali, infine, si segnala la proposta della Regione Sardegna sull’istituzione degli ecomusei per la valorizzazione della cultura e delle tradizioni locali (l. reg. 7 maggio 2003 n. 436), che prende spunto dal modello trentino.
Non mancano le norme e i regolamenti per quanto concerne il coordinamento dei musei locali, spesso a forma di sistema o di rete. Non esistono formule uniche. Il sistema museale locale può essere di tipo territoriale-amministrativo, coinvolgendo istituzioni museali contigue geograficamente e accomunate dall’appartenenza a un’area storico-culturale omogenea. Oppure può realizzare un impianto tematico, quando connette singole strutture omogenee per materia, non necessariamente insistenti sullo stesso territorio, che si organizzano in forma cooperativa per la valorizzazione, la divulgazione, lo studio e la ricerca su un aspetto o un tema di propria pertinenza (Maggi, Falletti 2000).
In ogni caso, nei documenti di programmazione economica la gestione viene di norma svolta con accordi fra soggetti pubblici e privati, nell’ambito dei quali si definiscono i compiti dei partecipanti, nonché le risorse materiali e finanziarie di spettanza, anche se, in verità, l’apporto finanziario maggiore proviene dall’ente regionale. La circostanza pone forti interrogativi, e in particolare il Piemonte ha già monitorato il grave problema:
L’elevato numero di ecomusei istituiti, o in corso di istituzione, e quindi la inevitabile frammentazione delle risorse finanziarie che si determinerà pongono rilevanti interrogativi su come procedere nell’immediato futuro, [così che] in merito al numero degli ecomusei, le modalità di finanziamento previste dall’attuale legge pongono limiti intrinseci alla crescita delle istituzioni possibili [per cui] è difficilmente ipotizzabile un numero di ecomusei superiore alle 30-40 unità nell’insieme della Regione (M. Maggi, Gli ecomusei del Piemonte. Situazione e prospettive, 2004, IRES, p. 77).
La disciplina degli ecomusei va complessivamente inquadrata nell’ambito giuridico dei beni e delle attività culturali, a cui si riconduce anche la regolamentazione delle biblioteche, dei musei, delle scuole musicali. Qui l’ecomuseo diventa un punto di riferimento a livello locale, ove si riferiscono attività di ricerca scientifica e didattico-educativa, attività di interesse economico, sociale, storico e ambientale, con forte coinvolgimento delle comunità locali, degli enti e delle associazioni presenti.
Diversamente l’Emilia-Romagna, pur essendo una delle prime regioni a essersi occupata di ecomusei, non ha mai definito a livello normativo l’istituzione degli ecomusei; così pure la Toscana e la Liguria, laddove sono gli enti locali a portare avanti le realtà ecomuseali. Negli ordinamenti regionali che non disciplinano gli ecomusei, le norme di riferimento sono in generale quelle previste per i musei locali e i musei etnografici.
Giova approfondire il capitolo delle risorse, giacché spesso gli statuti ecomuseali puntano sulla valorizzazione coordinata in chiave turistica delle risorse locali, sia pur attraverso la promozione di sistemi di gestione economica sostenibile.
Lo sviluppo economico è un punto centrale della missione ecomuseale, di cui la leva turistica è parte fondamentale in un rapporto equilibrato rispetto agli obiettivi prioritari di tipo patrimonialistico e comunitario, promuovendo le culture locali con un centro capace di progettare idee innovative per il territorio.
Lo studio delle realtà ecomuseali trentine e di altre esperienze nazionali dimostra che molte attività promosse dagli ecomusei sono dirette alla valorizzazione economica, e addirittura in alcuni casi le proposte degli ecomusei rappresentano una delle principali offerte turistico-culturali che il territorio è in grado di esprimere.
Questo aspetto è assai importante, se solo si pensa agli accordi che alcuni ecomusei portano avanti con gli operatori turistici (aziende di promozione turistica, pro loco, consorzi locali), come nel caso trentino che con la l. prov. 8 dell’11 giugno 2002 ha previsto la privatizzazione delle Aziende di promozione turistica (APT) d’Ambito con l’inclusione della intermediazione del prodotto turistico, ai fini di una efficace commercializzazione di beni e servizi.
La recente storia degli ecomusei vede una continua contrapposizione fra esperienze di redistribuzione centralistica di risorse e casi di organizzazione di filiera originati dal basso. L’Italia è una nazione che ha storicamente pensato e gestito il territorio in maniera fondamentalmente centripeta, al di là dei tentativi di innovare la Costituzione o di istituire federalismi e autonomie locali; non è mai mancata in ogni caso una forte presenza di forze politiche. La stessa storia delle istituzioni che hanno guidato il turismo nazionale ne è una chiara dimostrazione (Berrino 2011). Gli ecomusei sono strumentazioni istituzionali e ideative che necessitano di una politica community based (Tourism and sustainable community, 2000), capace di valorizzare le diverse identità locali e stimolare il potenziale creativo per linee decisionali orizzontali, tramite due significativi strumenti sociali di partecipazione, il patrimonio e le mappe di comunità.
Nel caso trentino, l’esperienza gestionale consolida il ruolo che gli ecomusei svolgono a favore delle comunità locali al fine di conoscere, conservare e valorizzare il territorio come sistema di valori e di relazioni. Le realtà locali, interpreti della propria storia, si pongono il compito di saldare l’idea odierna di sviluppo sostenibile alle esperienze consolidate dell’antica gestione comunitaria del suolo, al fine di garantire la conservazione e l’equa redistribuzione delle risorse stesse. Da qui nasce la centralità della nozione di patrimonio di comunità, in cui l’assetto definitorio apre la porta anche alla cooperazione internazionale:
ecosistema naturale o modificato, che include una biodiversità significativa, fornisce servizi di natura ecologica e/o possiede valori culturali propri, conservato in modo volontario da una o più comunità interessate secondo costumi tradizionali o tramite altri mezzi efficaci (Ecomusei, Governance e partecipazione nel Sistema delle aree protette in Italia, Seminario su governance e gestione partecipativa delle risorse naturali, Parco Nazionale dell’Aspromonte, 9-12 sett. 2004).
Un ulteriore strumento è rappresentato dalle storie delle località, narrate in forma di mappe di comunità, quali dispositivi iconico-scritturali, custodi della memoria di storie umane legate ai luoghi. Tali mappe (anche note come parish maps) sono strumenti attraverso cui i residenti possono raccontare ad altri i punti fondamentali della loro storia, riconnettendo i nodi cruciali della propria appartenenza. Esse rappresentano un percorso fondamentalmente collettivo che coinvolge e rinsalda il legame tra le persone e le cose, il visibile e l’invisibile dell’esperienza comune. L’idea dell’utilizzo delle parish maps ha il fine di incentivare la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio locale attraverso il coinvolgimento attivo delle comunità locali (la più piccola arena in cui la vita è vissuta). A diventare luogo deputato di precise attenzioni è il territorio, che ha un significato particolare per chi mantiene nei suoi riguardi un sentimento di fedeltà, o esercita un atteggiamento di attenzione e protezione, e da cui in qualche modo trae stimoli di vita (fig. 7).
Il cuore della mappa raccoglie le planimetrie dei paesi e dei borghi, con nomi e toponimi che documentano discorsi, storia, famiglie, mestieri, attività e pratiche locali, quale interpretazione di un territorio da parte di coloro che lo vivono o lo abitano. La nozione di interpretazione è qui centrale e attraversa tutta la prospettiva contemporanea per vedere i luoghi come relazione intersoggettiva di senso e di pratiche, a partire dalla pioneristica opera di Freeman Tilden (Interpreting our heritage, 1957) e della successiva heritage interpretation.
Per gli ecomusei non esistono modelli fondamentali. Secondo la museologia cinese, «non esiste alcuna Bibbia degli ecomusei. Essi saranno sempre dissimili fra loro, sulla base delle specificità culturali e della situazione sociale locale» (Provincia autonoma di Trento, 2004, 10° vol., pp. 5 e segg.), salvo forse uno statuto autoriflessivo e il principio di sviluppo economico locale sostenibile.
Georges Henri Rivière sosteneva che l’ecomuseo è un potente strumento di autoriflessione pubblica ed è quindi uno specchio nel quale la popolazione locale «si osserva per scoprire la propria immagine», cercando le ragioni d’essere del proprio territorio, ma al contempo anche «uno specchio che la popolazione locale offre ai suoi visitatori» (The ecomuseum: an evolutive definition, «Museum international», 1985, 37, 4, pp. 182-83).
Lo specchio, quindi, non serve solo a rifrangere un passato, caso mai coltivando una crepuscolare nostalgia, ma anche per aprire una finestra sul mondo per molteplici fini, uno dei quali è senz’altro l’accoglienza di visitatori alla ricerca di apprendimento culturale. Un inestimabile potenziale per lo sviluppo sono quindi le attività legate al turismo, anche se il rischio è che si privilegi la figura del cliente e non la persona dell’ospite, lo scambio monetario e non il dialogo, la vetrina e non la finestra. Valorizzare la vetrina senza distruggere lo specchio è un arduo compito, che ben connota la natura ibrida del costrutto ecomuseale, fra finalità espositive verso l’esterno e momenti di autodeterminazione locale, nei riguardi di un suolo spesso abbandonato o residuato dalla modernità.
Passiamo pertanto a trattare di tale residualità per concludere con il ruolo che svolge il turismo sulla trasformazione territoriale, a metà strada fra senso dei luoghi e forme di heritage.
Il turismo tende a piegare la natura universalmente umana del viaggio alla trasformazione dei confini culturali, sul crocicchio mobile dell’incontro fra culture e dentro la trasformazione dei territori. Vacillante la comoda distinzione fra turismo internazionale e turismo domestico, la sua dinamica maggiore sta nella progressiva generalizzazione e insieme particolarizzazione degli ambiti che incontra. Il turismo disperde e insieme riaggrega: negli effetti locali delle dinamiche globali, il turismo opera in maniera inversa all’inurbamento, ma anche alla città diffusa e globale; non decentra, ma neppure delocalizza; la sua tendenza è piuttosto nel fissare nuovamente sul territorio forme sociali e vita pubblica.
Il movimento verso la città e quello verso la campagna sono forse le due direzioni maggiormente censibili, compartecipi, per complementarità più che per antagonismo, dell’odierno turismo culturale. Tale biforcazione si estende, ne semplifica la sostanza, anche se tuttavia complica il destino dei siti, non essendo possibile immaginare neppure alla lontana futuri sviluppi.
L’interesse qui verte soprattutto sul turismo rurale, perché è una forma di vita che alla modernità restituisce un passato rinnovato, inverando la tesi che il turismo, figlio di quella modernità industriale che a suo tempo ha sconquassato la ruralità, torna ora a ricomporre quest’ultima, generando variegati esiti aggregativi di scena rurale.
L’avvenuto sorpasso della dimensione urbana sulla rurale è inoppugnabile, meno chiaro appare cosa accade ai residui di tale processo, per nulla affatto nobilitati dal loro inserimento in un qualche continuum rurale urbano.
Si dà anche per scontato che ruralità e urbanità siano categorie fluide; ciò che rimane nondimeno urgente è comprendere quali siano le dinamiche delle aree e delle zone sottoposte a processi di inurbamento, spopolamento, deriva postproduttiva, se non a desolazione. Si è già accennato a una possibile crepuscolare nostalgia di alcuni esiti ecomuseali. È il momento di identificare meglio i prodotti residuali della modernità e della postmodernità, che di recente sogliono denominarsi terzi spazi.
Con tale termine s’intende lo studio degli spazi abbandonati all’evoluzione naturale del paesaggio (residui urbani o rurali, spazi di transito, parchi e riserve naturali, aree disabitate, aree industriali in abbandono), in quanto deprivati della cura, eppure fondamentali per la biodiversità. Tali interstizi affiorano nelle città o ai bordi di esse, privi di quel lavoro umano che solo permette la conservazione della forma, inerti eppure ricchi di memoria e di patrimonio incorporato. Gilles Clément sostiene che «ogni organizzazione razionale del territorio produce un residuo», e pertanto quest’ultimo non va mai eliminato (Manifeste du tiers paysage, 2004; trad. it. 2005, p. 13). L’assunto tocca la memoria oggettivata nelle cose, considerandole prodotti naturali di secondo grado, eppure sempre ricchi di senso.
Recenti sviluppi antropologici stanno intensificando l’interesse verso questi frammenti, proponendo una sorta di urgent anthropology degli oggetti morenti, siano essi le ferrovie secondarie o i territori minerari, i vecchi sentieri, le aree di risorgiva (palù), le zone umide, in un’elencazione senza fine, causticamente criticata di recente da Dominique Poulot come ‘paradigma patrimonialistico’, che tende a essenzializzare natura e storia.
Il residuo che rinasce è anche il leitmotiv della ‛paesologia’ di Franco Arminio, che rimane attanagliato dai paesi della desolazione del ‘Sud dello spirito’ (Calabria o Trentino che sia):
i paesi dalla bandiera bianca […] e non blu o arancione […] quelli più sperduti e affranti, in cui si sente l’assenza di chi se n’è andato e quella di chi non è mai venuto, dove la malattia maggiore è la desolazione, perché nel paese restano solo malati o anziani, dove è doloroso vivervi, perché «non riescono a inventarsi niente […] e la vita è vita scaduta ovunque […] (Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia, 2008, pp. IX-XIII).
Si tratta però anche dei paesi abbandonati, che ancora vivono e comunicano un forte senso di sé, se solo li si guarda con espressione compartecipe, come illustra Vito Teti:
Guardiamo i tanti paesi abbandonati della Calabria […] luoghi incompiuti, non finiti, informi, tutti uguali lungo le coste della regione, vengono segnati da nuove vie di canti, da processioni a mare, da riti di fondazione. Proprio […] centri senz’anima e senza piazze, senza posti di ritrovo, desolati, a volte mortificati, devastati […] aspirano […] ad affermarsi come nuovi luoghi (Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, 2004, p. 19).
Sono i paesi dell’ «osso» e non della «polpa» – avrebbe detto Manlio Rossi Doria (Dieci anni di politica agraria, 1958) – per differenziare le zone della pianura da quelle interne e collinari del Mezzogiorno: aree interne spopolate e terre abbandonate queste ultime, dove ogni anno, con le prime piogge, le colline e le montagne franano, scendendo verso il mare, e lasciano il deserto dietro di sé.
La ruralità heritage e il turismo creativo
L’alternativa al turismo culturale del ‘senso dei luoghi’ riguarda invece la costruzione turistica del patrimonio creativo, passando dalla filiera delle industrie culturali ai settori delle industrie creative, ritmate dalle tre componenti del capitale culturale (creatività, contenuto simbolico, proprietà intellettuale) o del capitale creativo (talento, tolleranza, tecnologia).
L’analisi di una ‘strada culturale’ rimanda subito alla cruciale identificazione di un territorio e all’estensione sociale dei suoi sostenitori nelle forme associative industriali o commerciali. Ciò appare nell’ampia casistica nazionale dei prodotti tutelati: dalle 137 strade del vino, dell’olio e dei sapori, alle 560 città del vino, alle 300 città dell’olio, ai 787 piatti tipici regionali tutelati, ai 483 marchi DOP, DOCG, IGT, che aprono il complesso capitolo della patrimonializzazione dei prodotti del suolo grazie a un processo di ‘costruzione dell’autentico’. Un pilastro decisivo della tutela e della difesa territoriale è il trade mark, quale segno inteso a distinguere beni e servizi nel corso dello scambio commerciale fra contraenti. Con tale associazione, che designa un prodotto come «proprietà industriale» (d. legisl. 10 febbr. 2005 nr. 30), si indica l’origine delle merci, in termini di tracciabilità e connessione fra prodotti e produttori, secondo una rilettura delle norme della proprietà intellettuale del World intellectual property organization (WIPO).
La catena del valore identifica la fonte primaria generatrice di arti espressive (talento o creatività), che poi a sua volta pone in moto le industrie culturali propriamente dette (film, musei, biblioteche) e infine il vasto comparto dei servizi connessi al patrimonio (editoria, televisione, videogiochi, computer game). È arduo definire l’esatta consistenza di tale centro, se di arti espressive e performative, o anche cultura popolare e/o tecnologia avanzata. Tale nucleo infatti determina la specifica territorializzazione del valore, e le modalità della sua ibridazione culturale. Dal punto di vista comparativo, l’industria culturale e creativa è un mix fra creatività tecnologica (più intensa nei paesi del Nord) e creatività del capitale sociale (più diffusa nei paesi del Sud), secondo due modelli epidemiologici di patrimonio, l’uno che procede per cerchi concentrici e l’altro per settori (L. Zagato, M. Vecco, Le culture dell’Europa, l’Europa delle culture, 2011), ove l’Italia occupa una via di mezzo fra produzione high-tech e formazione di capitale sociale (Libro bianco sulla creatività. Per un modello italiano di sviluppo 2009).
Rispetto alle articolazioni dell’economia creativa degli altri Paesi sviluppati, quest’ultimo testo prevede una specifica configurazione italiana delle attività economiche creatrici: il patrimonio storico e artistico (quello culturale, la musica, lo spettacolo e l’arte contemporanea); le industrie del contenuto (editoria, televisione e radio, cinema, computeristica, software, pubblicità); la cultura materiale (moda, design industriale, artigianato, industria del gusto).
Di grande importanza è il ruolo che svolgono il patrimonio culturale, da un lato, e la cultura materiale, dall’altro, nelle specifiche caratteristiche nazionali. La modulazione territoriale del capitale culturale e dell’industria creativa trova nel distretto del gusto un’innovativa dimensione trasversale squisitamente italiana, accanto ad altri più noti settori della cultura materiale.
Il patrimonio culturale e la cultura materiale sono, pertanto, aree di applicazione del talento che generano un milieu morale, ove la creatività riaggrega contesti grazie alla diffusione di idee e tecnologie, assemblaggio di mano d’opera specializzata e piccole imprese di confine, a partire da quel motore propulsore che è la proprietà intellettuale della certificazione ambientale (versione italiana della proprietà intellettuale).
Il radicamento e la diffusione del capitale creativo non riguardano in maniera omogenea il Paese, anzi tendono a differenziare varie zone patrimoniali, che rafforzano le pregresse storiche diversità macroregionali, come si vede nella storica distribuzione del patrimonio culturale al Centro e degli ecoturismi al Nord (figg. 8 e 9); o, se si vuole, la configurazione differenziata fra regioni postmoderne e regioni postmezzadrili, con una larga area centrale di turismo rurale in trasformazione (Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Quarto rapporto sul turismo italiano, 1991; J. van der Borg, P. Costa, Cultural tourism in Italy, 1995; R. King, A. Montanari, Italy: diversified tourism, in Tourism and economic development. European experiences, ed. A.M. Williams, G. Shaw, 1998, pp. 75-100).
La mappa delle strade e degli outlet sembra in qualche modo collegare le varie zone intra e interegionali.
Le stesse tesi dell’antropologo Arjun Appadurai sulla costruzione a ideoscapes (ideorami) delle località, o quelle dell’antropologo Ulf Hannerz sulla selezione dei flussi dell’ecumene globale, non riescono a rendere specifico conto del radicarsi della cultura globale nel locale, e utilizzano megacategorie, atte più a registrare i fenomeni a ridosso, che a coglierli in corso d’opera.
Rimane una questione aperta: quanto del nucleo dei nuovi ‘sostrati materiali’ postdurkheimiani sia leggibile in termini di produzione di beni culturali, e quanto in termini di creatività. Le locations filmiche, per es., non sempre riescono a impregnare di sé a lungo l’immagine del suolo utilizzato, le strade del vino cominciano a prendere piede anche nell’Italia del Sud, e non sempre le strade enogastronomiche producono reddito e ricchezza, se gli specialisti del settore continuamente invitano a evitare trionfalismi e a condannare l’instancabile italiana subordinazione delle azioni economiche territoriali al braccio politico.
Le nuove forme del riconoscimento delle diversità che il turismo apporta sono indubbiamente momenti rilevanti del consumo culturale e/o creativo odierno, ove il turismo diviene narratore scenico territorializzato, che lega figura e sfondo, incontro e spazio culturale. Maggiormente problematico appare, invece, l’assetto teorico delle questioni qui trattate.
Il turismo inteso come mobilità apre, in verità, a schiette problematiche filosofiche ed epistemologiche circa i mutamenti culturali del presente (Philosophical issues in tourism, 2009); si è constatato come la riattivazione delle categorie spaziali aiuti a superare un’accezione neutrale di territorio, permettendo di individuare, e pur entro i vincoli delle forme storiche, le caratteristiche che possono trasformare le località in ‘spazi agenti’ o autotrasformativi (Simonicca 2006, pp. 18 e segg.).
Dal punto di vista terminologico le nozioni presentate rischiano di fluttuare più del consentito. Vi sono zone di maggiore e minore consistenza concettuale e oggettuale; ma, se si esce al di fuori dalle determinazioni economiche delle risorse (peraltro non sempre univoche), è onesto riconoscere che i termini rurale o turismo sembrano rimandare spesso a realtà o nozioni definibili per residualità negativa (per es., non urbano, non lavorativo, e così via), con la conseguenza che in tali contenitori può entrare di tutto, dalla storia, alla politica, alla cultura, al gusto; aspetti tutti da connettere e rendere coerenti.
Non c’è da stupirsi che la presenza di concetti residuali costituisca non raro motivo di perplessità epistemologica per chi si occupa di turismo. Stato d’animo che si mitiga solo quando si entra nel concreto dell’analisi locale, dove la conoscenza contestuale può aspirare a vivere anche una vita trasversale.
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