Vedi Turkmenistan dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il Turkmenistan, paese centroasiatico assoggettato all’Impero russo prima e all’Unione Sovietica poi, ha proclamato l’indipendenza nell’ottobre del 1991. L’ingresso come attore sovrano nella comunità internazionale non ha tuttavia coinciso con la rottura del decennale isolamento politico ed economico del paese, proseguito dopo il 1991 con la guida assolutistica del presidente Saparmurat Niyazov, che ha retto le sorti del Turkmenistan sino alla sua scomparsa, nel dicembre 2006. Niyazov, autoproclamatosi ‘Turkmenbashi’ (capo dei Turkmeni), ha conferito alla politica estera del suo paese una connotazione spiccatamente isolazionista, neutrale e non allineata rispetto ai blocchi politici regionali, manifestando un’assoluta ritrosia al coinvolgimento nei meccanismi di cooperazione che non avessero un’agenda puramente economica. Ciò ha tagliato il Turkmenistan fuori dai principali forum di dialogo e cooperazione regionali, limitando notevolmente le potenzialità offerte al paese dalla strategica collocazione geografica e, soprattutto, dal possesso di ingenti e in gran parte inesplorate risorse energetiche.
Pur mantenendo ferma la ‘neutralità permanente’ del Turkmenistan, la successione di Gurbanguly Berdimuhammedov a Niyazov, nel febbraio 2007, ha segnato l’apertura di una nuova fase nella politica estera che, più risolutamente finalizzata a capitalizzare gli elementi di forza strutturali del paese, ha aperto una pragmatica linea di dialogo e cooperazione con i principali attori della comunità internazionale, statali e sovranazionali. Obiettivo centrale di Berdimuhammedov è stato affiancare ai tradizionalmente solidi rapporti con la Federazione russa un nuovo ventaglio di reti diplomatiche regionali e internazionali, fondate anzitutto sull’attrattiva delle risorse energetiche del paese. Per ampiezza dei mercati energetici di riferimento e capacità di investimento nei settori dell’esplorazione, sfruttamento e trasporto delle risorse energetiche, la Repubblica popolare cinese e l’Unione Europea (Eu) hanno costituito gli interlocutori privilegiati del nuovo corso di politica estera turkmena. Parallelamente, la scomparsa di Niyazov ha permesso a Turkmenistan e Stati Uniti di voltare pagina nelle relazioni bilaterali, rilanciate, a partire dal febbraio 2007, attraverso l’avvio della cooperazione nei settori dei diritti umani (tradizionale punto di frizione nei rapporti bilaterali), dell’economia e delle riforme dell’istruzione e del sistema sanitario nazionale. Più timidi segnali di cooperazione si sono inoltre avuti sul piano della cooperazione alla sicurezza nell’ambito della lotta alle reti regionali del crimine e dell’antiterrorismo.
Sul piano regionale, il Turkmenistan ha inoltre scongelato le relazioni con le ex repubbliche sovietiche del Caucaso e dell’Asia centrale, tanto su un piano bilaterale che multilaterale. Oltre a rilanciare la partecipazione turkmena all’Economic Cooperation Organization (Eco) – che, a fianco del Turkmenistan, vede la partecipazione di Turchia, Iran, Pakistan, Afghanistan, Azerbaigian e delle repubbliche centroasiatiche – Aşgabat ha approfondito la cooperazione con quegli interlocutori regionali che risultano centrali per la strategia energetica turkmena. Di particolare rilevanza, i tentativi di apertura al dialogo con Azerbaigian e Uzbekistan, sintomatici della volontà di risolvere i tradizionali contenziosi bilaterali. Mentre il trattamento delle rispettive minoranze e le dispute sull’utilizzo delle scarse risorse idriche regionali hanno costituito una fonte di tensioni nelle relazioni turkmeno-uzbeke, le relazioni con l’Azerbaigian – snodo potenzialmente vitale per le esportazioni energetiche turkmene verso Occidente – ruotano principalmente attorno alla vertenza, ancora irrisolta, sullo status legale del Mar Caspio e sulla connessa titolarità di alcuni suoi giacimenti di idrocarburi.
All’inversione di tendenza impressa da Berdimuhammedov alle relazioni internazionali turkmene non ha corrisposto un’apertura sul fronte istituzionale interno. Il Turkmenistan, formalmente una repubblica presidenziale, rimane di fatto uno stato a partito unico – il Partito democratico del Turkmenistan (Türkmenistanyň Demokratik Partiýasy), successore del Partito comunista di epoca sovietica – nel quale il potere legislativo è svuotato di ogni reale prerogativa istituzionale. La costituzione, nell’agosto 2012 e in previsione delle elezioni parlamentari del dicembre 2013, di un secondo partito nazionale – l’Unione degli industriali e degli imprenditori – non è stata sufficiente a modificare l’assetto politico-istituzionale turkmeno, tanto per l’assenza di dibattito politico, quanto per la dichiarata fedeltà al presidente da parte del nuovo partito. Le elezioni del 15 dicembre 2013 hanno assegnato 47 seggi su 125 al Partito democratico; all’Unione degli industriali e degli imprenditori ne sono andati 17 contro i 33 dell’Organizzazione dei sindacati. C’è da aspettarsi che, nonostante l’introduzione del multipartitismo, l’esecutivo, nominato dal presidente al pari delle principali cariche amministrative e giudiziarie, governerà principalmente per decreto, come da tradizione.
Del tutto inefficace si è dunque dimostrata la riforma costituzionale voluta da Berdimuhammedov nel 2008, in base alla quale veniva disciolto il consiglio del popolo – principale strumento di governo dell’era Niyazov – e contemporaneamente rafforzato il ruolo del parlamento unicamerale, i cui membri venivano inoltre portati da 65 a 125. Il governo, d’altra parte, controlla strettamente il processo di nomina dei candidati alle elezioni, tradizionalmente giudicate dalle principali organizzazioni internazionali di monitoraggio non libere né corrette. A questa regola non avevano fatto eccezione le elezioni presidenziali del febbraio 2012, che si erano concluse con un plebiscitario 97% a favore di Berdimuhammedov, eletto al suo secondo mandato quinquennale.
In attesa della pubblicazione del censimento della popolazione effettuato alla fine del 2012, le stime sulla popolazione del Turkmenistan mostrano una notevole crescita nella fase successiva al 1991. Nello stesso periodo è inoltre notevolmente cambiata la composizione etnica della popolazione, con un netto incremento della percentuale di Turkmeni (dal 72% del 1989 all’85% del 2003), a scapito delle minoranze. Tale fenomeno è stato principalmente il frutto del trattamento discriminatorio attuato ai danni delle minoranze – nell’istruzione e nell’accesso al mercato del lavoro – a partire dalla ridefinizione dell’identità nazionale turkmena sulla base del nazionalismo etno-linguistico.
La popolazione turkmena è prevalentemente musulmano-sunnita (89%), ma il ruolo svolto dall’islam nel paese è del tutto marginale, in parte come eredità del settantennio sovietico e in parte per lo stretto controllo esercitato dalle autorità sulle organizzazioni religiose. La principale minoranza confessionale è quella russo-ortodossa (9%).
Nonostante l’enfasi posta da Berdimuhammedov sulla necessità di riforme, l’attuale presidenza ha attuato solo interventi marginali, che non hanno intaccato la totale mancanza di democrazia. Definito da Freedom House uno ‘stato di polizia’, il Turkmenistan registra non a caso il più basso punteggio di democratizzazione su scala regionale. Il governo ha ereditato dall’Unione Sovietica, e mantiene a tutt’oggi, un sistema di controllo sull’organizzazione sindacale ed esercita un controllo altrettanto profondo sulle attività della società civile, non tollerando alcuna forma di dissenso. Il governo conserva d’altra parte il controllo assoluto sui media. Non esistono canali di informazione privati o indipendenti e circola nel paese un solo quotidiano privato. Del tutto inutile si è dunque dimostrata l’apertura di un canale di cooperazione con l’Osce in materia di libertà di espressione.
L’elevato livello di entrate statali, frutto delle esportazioni di idrocarburi, consente al governo di mantenere un consistente sistema di sussidi pubblici, che pongono un freno al malcontento popolare e rendono il paese apparentemente impermeabile alle rivolte popolari che si sono svolte nell’area mediorientale dopo il 2010. Secondo la più classica impostazione da rentier state, le entrate del settore energetico consentono inoltre al governo di mantenere le reti di patronato, secondo logiche clientelari. Tali pratiche, oltre a ostacolare il coerente sviluppo socio-economico del paese, sono alla
base della notevole diffusione della corruzione a tutti i livelli dell’amministrazione.
La principale risorsa economica del Turkmenistan è costituita dalle vaste riserve di idrocarburi. Il paese possiede, in particolare, riserve provate di gas, seconde solo a quelle russe, iraniane e qatariane (24,3 trilioni di metri cubi, pari all’11,7% delle riserve provate mondiali), che hanno consentito tassi di crescita elevati, non interrotti neanche dalla crisi economica internazionale, grazie soprattutto alla bassa esposizione del Turkmenistan sui mercati internazionali e alle prudenti politiche macroeconomiche.
Nel primo quindicennio successivo all’indipendenza, l’isolazionismo di Niyazov e la scarsa affidabilità dimostrata nei confronti degli interlocutori esteri hanno sostanzialmente tagliato fuori il paese dall’accesa competizione internazionale per l’accesso alle risorse energetiche caspiche e centro-asiatiche, più nota con l’etichetta di ‘Nuovo grande gioco’.
L’ascesa alla presidenza di Berdimuhammedov ha tuttavia coinciso con il tentativo di sciogliere i due nodi che ostacolavano il pieno sviluppo del potenziale energetico nazionale: scarsezza di infrastrutture di trasporto per gli idrocarburi e mancanza di investimenti esteri, bloccati da un clima assolutamente sfavorevole. Sullo sfondo della crescente attenzione rivolta ai produttori centro-asiatici dai principali mercati energetici euro-asiatici – Eu e Cina in testa – il presidente turkmeno ha siglato contratti di esplorazione e sfruttamento dei maggiori giacimenti del paese con compagnie
occidentali, mediorientali, coreane e cinesi. Nello stesso tempo ha intensificato i negoziati in vista della costruzione di gasdotti che spezzassero il sostanziale monopolio russo sull’acquisto del gas turkmeno. Sino al 2009, la quasi totalità del gas veniva esportata verso la Russia, con una più limitata quantità diretta verso l’Iran. Ciò ha permesso a Gazprom, la maggiore impresa russa dell’energia, di pagare per le forniture turkmene un prezzo di gran lunga inferiore di quello imposto ai clienti europei. I rischi connessi alla dipendenza dalla vendita di gas alla Russia sono emersi con chiarezza nel corso del 2009, quando la sospensione per nove mesi delle esportazioni verso nord, causata da un’esplosione lungo il gasdotto turkmeno- russo Central Asia-Centre, ha costretto il Turkmenistan a bloccare di fatto la produzione, facendo crollare l’output su base annua del 45%.
Interlocutore più rilevante nella strategia di diversificazione degli acquirenti e delle rotte di esportazione è stata la Cina. L’inaugurazione, nel dicembre 2009, del gasdotto Central Asia-China Gas Pipeline (della portata di 40 miliardi di metri cubi annui di gas, di cui si prevede un ampliamento sino a 60 miliardi di metri cubi) tra Turkmenistan e Xinjiang, attraverso Uzbekistan e Kazakistan, ha rappresentato il principale risultato della strategia energetica di Aşgabat. Allo studio è inoltre la possibilità di costruire una nuova tratta del gasdotto, che raggiungerebbe la Cina attraverso Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan. I crescenti investimenti cinesi – che potrebbero assicurare al paese tassi di crescita del pil superiori all’8% annuo nel prossimo biennio – hanno fatto sì che la Cina sia diventata, a partire dal 2010, il principale partner economico turkmeno in termini di interscambio commerciale e in linea con una dinamica che accomuna diverse repubbliche centroasiatiche.
Il governo turkmeno è inoltre impegnato, oltre che nel rafforzamento della partnership energetica con l’Iran, anche in due ulteriori progetti infrastrutturali. Il primo consiste nella costruzione di un’infrastruttura trans caspica (Trans-Caspian Gas Pipeline, Tcgp) in grado di collegare il Turkmenistan con le coste azere e, di qui, con i mercati europei. Il Tcgp, frutto di una proposta statunitense che risale alla seconda metà degli anni Novanta, rappresenta uno degli obiettivi prioritari della strategia di diversificazione dei canali di approvvigionamento energetico dell’Eu. Non a caso l’Unione Europea ha recentemente intensificato il dialogo con Aşgabat in vista del possibile coinvolgimento del Turkmenistan nella fornitura di gas del Corridoio meridionale dell’Unione, che dovrebbe correre lungo una direttrice tra la sponda occidentale del Caspio e l’Italia. L’irrisolta questione dello status legale del Mar Caspio e la tradizionale opposizione russa costituiscono tuttavia i maggiori ostacoli alla costruzione del Tcgp. Altro tradizionale obiettivo della strategia turkmena di diversificazione degli acquirenti di gas è la costruzione di un gasdotto verso l’India, attraverso Afghanistan e Pakistan (Tapi). Progetto congelato per oltre un decennio per le difficoltà del transito in territorio afghano e per le tensioni indo-pakistane, il Tapi torna a catalizzare l’attenzione dei paesi coinvolti, forti del sostegno garantito dagli Stati Uniti e dalla Banca di sviluppo asiatica (Adb) nell’ottica della stabilizzazione del teatro afghano.
Le tendenze isolazioniste del presidente Niyazov e la stretta adesione al principio di neutralità permanente – riconosciuto dalle Nazioni Unite nel dicembre 1995 – hanno tenuto il Turkmenistan fuori dai principali accordi e meccanismi di sicurezza collettiva dell’area centroasiatica all’indomani della dissoluzione sovietica. Il Turkmenistan non ha dunque aderito al trattato di sicurezza collettiva della comunità degli stati indipendenti (Cis) e parallelamente, pur aderendo nominalmente alla Partnership for Peace della Nato sin dal 1994 ha sostanzialmente congelato la cooperazione con l’Alleanza atlantica sino alla scomparsa del Turkmenbashi. Il summit di Bucarest della Nato dell’aprile 2008 è stato quindi il primo al quale abbia partecipato un presidente turkmeno. Da allora, seppur tenendo ferma la neutralità del paese, Berdimuhammedov ha approfondito la misura del dialogo e della collaborazione con l’Alleanza. In particolare, il Turkmenistan ha aperto il proprio spazio aereo e i propri aeroporti per le operazioni non militari di rifornimento lungo il corridoio tra l’Europa e il confinante Afghanistan. Turkmenistan e Nato cooperano inoltre – oltre che nei settori scientifico e della gestione delle emergenze civili e umanitarie – nella sicurezza transfrontaliera in chiave antiterroristica e per contrastare le reti transnazionali dei traffici illeciti.
Nonostante la politica di neutralità perseguita dal paese, le tensioni legate alla mancata definizione dello status legale del Mar Caspio e al riarmo navale iraniano hanno spinto il Turkmenistan a un’analoga politica di rafforzamento della marina militare, il cui potenziale sfiderebbe oggi per tecnologia e armamenti quello di Teheran, tradizionalmente secondo, nel bacino caspico, alla sola Russia.
Già a capo della Repubblica socialista sovietica del Turkmenistan a partire dal 1985, Saparmurat Niyazov venne eletto primo presidente della nuova repubblica nel giugno 1992, con il 99,9% delle preferenze. Grazie a un analogo consenso plebiscitario (99,9%), nel gennaio 1994 il suo mandato presidenziale quinquennale venne esteso fino al 2002, per poi essere liberato da ogni scadenza nel dicembre 1999, quando il parlamento gli affidò la presidenza a vita. Di fronte alla necessità di rifondare l’assetto istituzionale e l’identità nazionale turkmena dopo il crollo, in parte inatteso e certamente non auspicato, dell’Unione Sovietica, Niyazov ha cancellato le pur marginali riforme introdotte nell’era Gorbacˇëv, imponendo un sistema di stampo neostalinista basato su un profondo culto della personalità e caratterizzato da un elevato grado di autoritarismo e arbitrarietà. La forte centralizzazione del potere nella carica presidenziale si è così accompagnata a provvedimenti tipici delle dittature, come il cambio della toponomastica, della denominazione dei mesi dell’anno – al fine di richiamare costantemente il presidente e la nuova mitologia nazionale – e l’introduzione di un libro di testo (‘Ruhnama’) in tutti i gradi di istruzione che – scritto dal Turkmenbashi e riguardante storia, mitologia e filosofia – rappresenta una guida spirituale per il popolo turkmeno. La rodata macchina del consenso lasciata da Niyazov in eredità a Gurbanguly Berdimuhammedov non è stata, nella sostanza, smantellata. Marginalizzati i circoli di potere e i funzionari più vicini al Turkmenbashi, Berdimuhammedov ha progressivamente rifondato il culto della personalità del leader della nazione, costituendo una propria, e apparentemente solida, rete di relazioni clientelari e claniche.
A un ventennio di distanza dalla dissoluzione sovietica, i paesi rivieraschi del Mar Caspio (Turkmenistan, Azerbaigian, Russia, Iran e Kazakistan) non sono riusciti a raggiungere un compromesso sullo status legale da attribuire al bacino. Regolato in passato dai trattati siglati tra Unione Sovietica e Iran nel 1921 e nel 1940, lo status del Caspio e, dunque, la titolarità sulle sue risorse off-shore, sono divenuti oggetto di contesa all’indomani del 1991. Lo status del Caspio e la conseguente suddivisione delle sue acque tra i paesi rivieraschi sfugge alla codifica del diritto internazionale marittimo, in base al quale il Caspio non sembra rientrare appieno nella categoria di ‘mare’, né in quella di ‘lago’. In quest’ultimo caso, per la determinazione delle frontiere marittime si applicherebbe il diritto internazionale consuetudinario, lasciando spazio all’accordo tra gli stati. La connotazione di ‘mare’ implicherebbe, di converso, l’applicazione del principio della ‘linea mediana’, in base al quale la frontiera sarebbe costituita dalla linea che unisce tutti i punti equidistanti dalle coste. Nell’impossibilità di ricorrere al diritto internazionale, l’unica strada percorribile per fissare la divisione del letto e della superficie del Caspio tra i paesi rivieraschi è un accordo, reso difficile dalle diverse posizioni degli attori coinvolti. Se Russia, Azerbaigian e Kazakistan favoriscono la suddivisione secondo il principio della ‘linea mediana’ – che garantirebbe loro una porzione maggiore del mare – il Turkmenistan, pur accettando il principio della necessità di divisione del Caspio, dissente con l’Azerbaigian circa la titolarità dei rilevanti giacimenti, che finirebbero sotto la sovranità azera sulla base di una rigida applicazione del principio della linea mediana. Sul versante opposto dello spettro negoziale rimane invece l’Iran, al quale l’applicazione del principio della linea mediana lascerebbe la porzione più piccola e povera di risorse del Caspio. Teheran, contraria a stabilire zone di competenza nazionale esclusiva, favorisce di conseguenza la cosiddetta soluzione del ‘condominio’, in base alla quale le risorse del bacino sarebbero condivise tra i paesi rivieraschi che ne dividerebbero così anche i proventi. Unica alternativa sarebbe, per l’Iran, una suddivisone in parti uguali del letto e della superficie del Mare. In mancanza di una soluzione condivisa – nel 2011 è fallito il terzo summit indetto tra i paesi rivieraschi per redigere una ‘convenzione sul Caspio’ – Azerbaigian, Russia e Kazakistan hanno concluso tre trattati bilaterali per definire i rispettivi confini, stabilire i diritti di cui ciascuno stato gode e i doveri a cui sarebbe soggetto nei confronti degli altri paesi. Benché Turkmenistan e Iran, ribadendo la necessità di una soluzione condivisa, ritengano tali accordi nulli, lo scenario di una rete di cooperazione rafforzata, basata sulla conclusione di trattati bilaterali, appare come il più percorribile.
‘Grande gioco’ è la definizione attribuita tradizionalmente dagli storici alla competizione scatenatasi, nel 19° secolo, tra impero britannico e impero russo per il controllo della regione centro-asiatica e del subcontinente indiano. Nel quadro del contesto regionale post-bipolare, un numero crescente di analisti ha ripreso la denominazione di ‘Grande gioco’ per indicare la competizione tra Russia e Stati Uniti per l’influenza sullo spazio meridionale della ex Unione Sovietica, dal Caucaso sino all’Asia centrale. Obiettivo e al contempo strumento della riedizione del
Grande gioco sarebbe lo sfruttamento e il trasporto delle ingenti, e in gran parte inesplorate, risorse energetiche di un’area rimasta, fino al 1991, economicamente e politicamente isolata rispetto alla comunità internazionale. Per quanto sia innegabile che, specie nella seconda metà degli anni Novanta, Russia e Stati Uniti siano stati protagonisti di un’accesa competizione regionale, ridurre le dinamiche in atto nell’area a una competizione russo-statunitense appare fuorviante. Le dinamiche geopolitiche intrecciatesi nell’area all’indomani della dissoluzione sovietica presentano caratteristiche estremamente più complesse rispetto a quelle ottocentesche, tanto sotto il profilo ‘qualitativo’, per la varietà degli scenari politici, militari ed economici, quanto sotto il profilo meramente ‘quantitativo’. Oltre ai due paesi già richiamati, risultano impegnati nell’area anche altri e rilevanti attori, che vanno dalla Turchia all’Iran, dall’Unione Europea alla Cina, ciascuno con le proprie motivazioni – geostrategiche, energetiche, di sicurezza – e con i propri approcci – economico, culturale, religioso. A completare la sostanziale diversità dell’odierna riedizione del ‘Grande gioco’ contribuisce infine la circostanza che, a differenza che in passato, i leader nazionali degli stati su cui si gioca la partita, lungi dal contrastare l’influenza straniera, sembrano piuttosto inclini a massimizzarne i benefici, tanto in termini di investimenti quanto dal punto di vista dell’importazione di modelli sui quali basare il proprio sviluppo politico, economico e sociale.