Abstract
Anche nel processo amministrativo la tutela cautelare ha acquistato valenze nuove, che sono definite nel codice del 2010: in particolare sui caratteri tipicamente interinali degli strumenti cautelari si sono innestati caratteri nuovi, che danno rilievo all'esigenza di una più celere definizione del giudizio. Nello stesso tempo restando fermi alcuni elementi propri della tutela cautelare nel processo amministrativo: in particolare la pronuncia è ordinariamente collegiale (i provvedimenti presidenziali sono solo provvisori) e nei confronti della pronuncia cautelare del Tar è ammesso un reclamo ("appello") che è indirizzato al Consiglio di Stato. Ciò nonostante il processo amministrativo fatica ancora a trovare un equilibrio, perché il suo assetto è fortemente condizionato dalla previsione che il ricorso al giudice amministrativo non produce effetti 'sospensivi': le eccezioni a tale previsione sono tuttora limitate e attengono essenzialmente al contenzioso sull'attività contrattuale.
L’esigenza di una tutela cautelare nel processo amministrativo nasce storicamente dalla considerazione della gravità dei danni che possono essere prodotti da un provvedimento amministrativo. La sentenza che accolga il ricorso annullando il provvedimento impugnato può non essere idonea a soddisfare l’interesse del cittadino: molti effetti, di ordine giuridico o di ordine materiale, possono maturare prima dell’annullamento e non sempre sono eliminati dalla sentenza. La dissociazione fra illegittimità ed inefficacia dell’atto comporta che il provvedimento produca tutti i suoi effetti anche se sia illegittimo.
La legge istitutiva della Quarta sezione del Consiglio di Stato 1889 (l. 31.3.1889, n. 5992) aveva recepito e amplificato la dissociazione, stabilendo che in via generale l’impugnazione del provvedimento non avesse «effetto sospensivo». Questa regola aveva un fondamento non del tutto chiaro: sul piano sostanziale sembrava giustificata dalla convinzione che altrimenti sarebbe risultato recessivo l’interesse pubblico, che a sua volta è all’origine di un’ampia concezione e della giustificazione storica del potere amministrativo, mentre sul piano processuale veniva considerata un corollario della modalità impugnatoria della tutela ammessa nei confronti di un provvedimento amministrativo. Tuttavia, in alcune rare disposizioni speciali (per esempio, nella normativa coeva sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza), era espressamente previsto che il ricorso al Consiglio di Stato producesse un “effetto sospensivo”. Ciò significava, a ben vedere, che la disposizione introdotta nella legge istitutiva della Quarta sezione era essenzialmente il risultato di una scelta legislativa.
Per rimediare in parte allo squilibrio fra le parti sancito dalla esclusione dell’effetto sospensivo del ricorso, la previsione della tutela cautelare consentiva un intervento del giudice diretto ad evitare che il danno si producesse (o si producesse in tutte le sue componenti) prima della sentenza. La tutela cautelare, nel giudizio su un provvedimento amministrativo, doveva inibire la produzione degli effetti del provvedimento prima della sentenza: si traduceva perciò nella sospensione del provvedimento impugnato, destinata a conservarsi fino a quando, con la sentenza, non fosse stata accertata la fondatezza o l’infondatezza dell’impugnazione.
Questa impostazione, nei suoi termini generali, è rimasta ferma fino ad oggi. Anche il codice del processo amministrativo (d.lgs. 2.7.2010, n. 104, all.to I) ribadisce che, nel giudizio promosso per l’annullamento di un provvedimento, la presentazione del ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato (una disciplina particolare, peraltro non inserita nel codice, è stata prevista, invece, per le controversie sull’aggiudicazione di un contratto pubblico, dal d.lgs. 20.3.2010, n. 53 – cfr. infra § 8). Di conseguenza spetta alla parte interessata (normalmente al ricorrente principale, ma l’iniziativa può essere assunta anche dal ricorrente in via incidentale) richiedere al giudice amministrativo una misura cautelare, per evitare che le sue ragioni possano essere compromesse nel corso del giudizio.
Nel processo amministrativo l’assetto della tutela cautelare ha subito modifiche consistenti a partire dagli ultimi decenni del Novecento: questa evoluzione è culminata prima nella riforma del processo amministrativo attuata dalla l. 21.7.2000, n. 205 e, poi, nel codice del 2010. Le modifiche hanno espresso indirizzi autonomi rispetto a quelli rappresentati nel processo civile. Nel complesso è emersa una tendenza a potenziare lo spazio della tutela cautelare nel processo amministrativo, sotto vari profili.
All’origine, come si è già accennato, risultava centrale l’esigenza di recuperare sul piano processuale un equilibrio fra il cittadino e l’amministrazione, che in molti casi poteva essere compromesso dalla produzione di effetti da parte del provvedimento nonostante la sua impugnazione. Negli ultimi decenni del Novecento era emerso anche un altro motivo ispiratore, proiettato con maggiore forza verso una dimensione sostanziale: fermo restando il carattere interinale, la tutela cautelare era indirizzata anche a superare gli ostacoli frapposti al cittadino nel conseguimento di un beneficio che gli fosse stato negato illegittimamente dall’amministrazione. L’attenzione in questo modo si è spostata progressivamente dalla tutela dei c.d. interessi oppositivi alla tutela dei c.d. interessi pretensivi e si è concentrata soprattutto sui contenuti delle misure cautelari.
La tematica dei contenuti delle misure cautelari, da questo punto di vista, presenta vari motivi di rilievo.
In una prospettiva che si concentrava sulla reazione al provvedimento che modificava l’assetto sostanziale con effetti lesivi per il cittadino che ne fosse destinatario (si pensi a un provvedimento espropriativo, o alla revoca di un provvedimento favorevole, o al provvedimento sanzionatorio, o all’ordine di porre in essere una certa condotta) la misura cautelare era tipicamente la sospensione degli effetti (o dell’esecuzione) del provvedimento impugnato. In questo contesto, l’assetto della tutela cautelare era sostanzialmente unitario. Invece, in una prospettiva più ampia, che tenesse in considerazione qualsiasi ordine di provvedimento, la misura della sospensione diventava insufficiente: rispetto al silenzio dell’amministrazione o ai provvedimenti negativi (come un diniego di autorizzazione, di concessione, ecc.) una ‘sospensione’ è per definizione irrilevante, perché non sono identificabili effetti innovativi di un atto amministrativo su cui incidere in sede cautelare. La tutela cautelare assume allora contenuti ulteriori, che tendono non a paralizzare l’attività amministrativa, ma a surrogarne gli effetti, perché il cittadino è pregiudicato dal fatto che l’attività amministrativa non sia stata esercitata o sia stata esercitata negativamente.
Le misure cautelari possono assumere, così, un’ampia gamma di contenuti (come l’ammissione con riserva in procedure concorsuali; l’assegnazione in via interinale dei benefici propri di un provvedimento positivo; l’ordine all’amministrazione di corrispondere una somma di denaro, ecc.). A conclusione di questa evoluzione il codice del processo amministrativo (preceduto, sul punto dalla l. n. 205/2000) ha sancito la atipicità delle misure cautelari. In base all’art. 55, co. 1, c.p.a. il potere cautelare del giudice amministrativo può esprimersi con qualsiasi misura “idonea ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”.
Su un piano più generale, il superamento del modello originario che contemplava solo la ‘sospensione’ del provvedimento impugnato ha aperto la strada a un dibattito che ancora oggi è tutt’altro che risolto.
La tutela cautelare, in passato, sembrava rispondere molto puntualmente al canone generale della ‘strumentalità’. La misura cautelare, secondo la nota definizione di Calamandrei, ha «lo scopo immediato di assicurare la efficacia pratica del provvedimento definitivo»: realizza, così, l’interesse ad evitare che la durata del giudizio possa rendere inutile, sul piano pratico, la decisione finale. Nel processo amministrativo di cognizione, la strumentalità implicava, fra l’altro, la continenza della misura cautelare rispetto alla sentenza di annullamento. Il giudice amministrativo non poteva adottare misure cautelari ultronee rispetto ai contenuti della sentenza di accoglimento del ricorso.
Se, invece, la tutela cautelare risulta diretta a superare (seppur transitoriamente) gli ostacoli frapposti al cittadino per il conseguimento di un beneficio che gli è dovuto, ma che gli è stato negato illegittimamente dall’amministrazione, anche il parametro rappresentato dalla continenza rispetto alla sentenza di annullamento diventa insufficiente. La sentenza di annullamento, anzi, rischierebbe di comportare un arretramento, sul piano sostanziale, per il ricorrente che abbia conseguito utilità specifiche dall’ordinanza cautelare: una volta pronunciata la sentenza, tali utilità non avrebbero più alcun fondamento (perché l’ordinanza cautelare non sopravvive alla sentenza) e, d’altra parte, l’annullamento di un provvedimento negativo non produce i benefici specifici di un provvedimento positivo dell’amministrazione.
Per recuperare una logica soddisfacente sul piano sostanziale e coerente con il dato processuale, è stato proposto di inquadrare la relazione della misura cautelare rispetto alla sentenza facendo riferimento non più alla sentenza di annullamento, ma al processo amministrativo considerato nel suo complesso, e perciò includendo anche l’esito conclusivo del giudizio di ottemperanza. A questo punto, però, a ben vedere, la strumentalità non è più definita dal rapporto con l’esito proprio della funzione giurisdizionale, ma si misura rispetto al risultato dell’attività amministrativa al di fuori del processo; inoltre, resta da capire quale sorte abbia la misura cautelare nella fase compresa fra la sentenza di annullamento e l’esecuzione della sentenza da parte dell’amministrazione (o, in mancanza di esecuzione spontanea, l’esito del giudizio di ottemperanza).
La perdita dei parametri originari ha orientato l’indagine verso l’individuazione di alcuni limiti generali ai poteri cautelari del giudice amministrativo: non si può ammettere, infatti, che la misura cautelare possa avere, come parametri, circostanze extraprocessuali e, comunque, possa esorbitare rispetto al giudizio di merito. Nella giurisprudenza e nella dottrina il dibattito ha riguardato particolarmente due aspetti.
In primo luogo, si discute se una misura cautelare possa determinare, anche soltanto in via di fatto, la definizione del giudizio. Una analisi rigorosa non può che condurre alla soluzione negativa. Altrimenti la tutela cautelare nel processo amministrativo si configurerebbe in termini esorbitanti rispetto al principio di strumentalità. Pertanto suscita molti dubbi la giurisprudenza che, nel caso di superamento delle prove da parte del candidato che fosse stato prima escluso, e poi ammesso con riserva in seguito a una pronuncia cautelare del giudice, ha ritenuto che il provvedimento di non ammissione alle prove fosse implicitamente caducato. La stessa critica deve estendersi anche ai provvedimenti legislativi che, per i concorsi per abilitazioni professionali, hanno recepito e codificato questa giurisprudenza (cfr. art. 4, co. 2-bis, d.l. 30.6.2005, n. 115; la critica non è stata però condivisa da C. cost., 9.4.2009, n. 108, in Foro it., 2009, I, 1649).
In secondo luogo, si dubita della possibilità per il giudice amministrativo di definire, seppure soltanto in via interinale, l’assetto di interessi che sia demandato dalla legge a una discrezionalità amministrativa. In questi casi, infatti, la valutazione discrezionale dell’amministrazione dovrebbe ritenersi infungibile anche per il giudice in sede cautelare; in termini più radicali, negli stessi casi dovrebbe riconoscersi che non è configurabile alcuna pretesa giuridica del cittadino al conseguimento di un determinato risultato.
Viceversa, non è considerata d’ostacolo per una misura cautelare l’irreversibilità degli effetti che possono prodursi, nel caso di accoglimento (o di rigetto) dell’istanza cautelare. L’art. 55, co. 2, c.p.a. ammette anche in questi casi una misura cautelare, con la precisazione, però, che la concessione o il diniego della misura cautelare può essere subordinato a una cauzione. La stessa disposizione, con soluzione molto discussa, non richiede la cauzione quando siano in gioco «interessi essenziali della persona, quali il diritto alla salute o all’integrità dell’ambiente». In questo modo il codice sottolinea che la tutela di interessi fondamentali non deve risultare condizionata da ragioni economiche; in realtà, sorge il dubbio che finisca con l’essere identificata un’area di immunità rispetto ad obblighi di responsabilità processuale.
Anche nel processo amministrativo la misura cautelare richiede l’accertamento di un ‘fumus boni iuris’ e di un ‘periculum in mora’.
Il primo elemento, espressamente richiamato nell’art. 55, co. 9, c.p.a., si traduce in una valutazione sommaria della pretesa fatta valere in giudizio dal cittadino. In passato, in base alle diverse interpretazioni accolte dalla giurisprudenza o dalla dottrina, era risolto nella ‘probabilità’ di accoglimento del ricorso, oppure, forse più spesso, in una ‘non manifesta infondatezza’ del ricorso stesso. Era chiaro che, accogliendo la prima lettura, l’accoglimento dell’istanza cautelare del cittadino finiva col riflettere anche una valutazione (seppur provvisoria e parziale) del giudice circa la fondatezza del ricorso. Invece, in base alla seconda lettura, la misura cautelare era esclusa in radice solo in presenza di una evidente infondatezza del ricorso e, quindi, la valutazione del giudice sui motivi del ricorso finiva col risultare recessiva.
L’art. 55, co. 9, c.p.a. recepisce la prima lettura: la misura cautelare è concessa dal giudice in base ad una valutazione sulla «ragionevole previsione sull’esito del ricorso». Tuttavia, se anche si accolga la seconda lettura, la misura cautelare non può essere concessa in presenza di un ricorso manifestamente infondato o inammissibile, perché altrimenti si attribuirebbero posizioni di vantaggio, in relazione alla mera pendenza del giudizio, e pertanto del tutto esorbitanti rispetto all’esigenza di assicurare l’esito pratico della decisione finale.
Il ‘periculum in mora’ è identificato nell’art. 55, co. 1, c.p.a. con il rischio che il cittadino possa «subire un pregiudizio grave e irreparabile», per effetto del provvedimento impugnato, «durante il tempo necessario a giungere alla decisione del ricorso». Questo pregiudizio deve essere specificamente dimostrato dal ricorrente che chiede la misura cautelare: il giudice non può d’ufficio introdurlo nel processo.
Nel giudizio proposto per l’annullamento di un provvedimento amministrativo, il «pregiudizio grave e irreparabile», ovviamente, non può essere rappresentato dalla mera lesione dell’interesse legittimo: altrimenti, il ‘periculum in mora’ perderebbe ogni specificità. Il pregiudizio che può giustificare una misura cautelare è qualificato, invece, dal carattere della ‘gravità’ e della ‘irreparabilità’. Questo carattere, secondo la giurisprudenza, può essere verificato in senso ‘assoluto’ (ossia, in relazione al tipo di interesse pregiudicato dal provvedimento, indipendentemente dalle condizioni particolari del ricorrente: si pensi al provvedimento la cui esecuzione comporti la distruzione di un edificio, la cessazione di un’attività imprenditoriale, la perdita del posto di lavoro, ecc.), ovvero in senso ‘relativo’ (ossia, in relazione all’incidenza sulle condizioni del cittadino: si pensi alla sanzione pecuniaria il cui importo sia esorbitante rispetto al reddito del ricorrente). La valutazione del giudice deve prendere in considerazione il danno in tutte le sue componenti, e non soltanto per i profili più appariscenti, di ordine esistenziale, economico, morale, ecc.
In ogni caso, il giudice non può limitarsi a valutare la posizione del ricorrente. Nel rispetto del principio costituzionale della parità delle parti, deve considerare anche la situazione dell’amministrazione e dei controinteressati. Anche in questo caso la legge non codifica un criterio per il confronto fra questi interessi: in proposito è usuale invocare genericamente il c.d. prudente apprezzamento del giudice.
La tutela cautelare nel codice si articola secondo tre modelli procedurali diversi. Accanto a una procedura ordinaria, che si attua con una ordinanza del collegio, sono previste due procedure che si attuano con decreti presidenziali, destinati ad avere un’efficacia meramente provvisoria, fino alla pronuncia cautelare del collegio. Le due procedure avanti al presidente vengono in genere contrapposte per il fatto che l’istanza cautelare sia proposta, o meno, prima dell’introduzione del giudizio; in realtà divergono principalmente per l’intensità del presupposto rappresentato dall’urgenza della pronuncia.
La disciplina del procedimento cautelare dettata nel secondo libro del codice del processo amministrativo (artt. 55 ss.) è richiamata anche per la trattazione dell’istanza cautelare proposta nei giudizi d’impugnazione (art. 98; la tutela cautelare in pendenza del giudizio per cassazione, proposto contro una sentenza del Consiglio di Stato per motivi di giurisdizione è disciplinato dall’art. 111, co. 1, c.p.a. come sostituito dall’art.1, d.lgs. 15.11.2011, n. 195). Nei giudizi d’impugnazione non è, però, ammessa una tutela cautelare ‘ante causam’.
Nei giudizi di primo grado, comune a tutti i modelli, ivi compresi quelli caratterizzati da una maggiore urgenza nella pronuncia cautelare, è la rilevanza preliminare della competenza del giudice. Sia che venga esperita la procedura ordinaria, sia che venga richiesto un decreto presidenziale (v. infra), il giudice adito può disporre misure cautelari soltanto se ritiene sussistente la propria competenza (cfr. art.15, co. 2; art. 55, co. 13; art. 56, co. 1; art. 61, co. 3, c.p.a.). Se non ritiene sussistente la propria competenza, il giudice lo dichiara e l’istanza cautelare va diretta al giudice dichiarato competente (artt. 15 e 16 c.p.a., come modificato dall’art.1, d.lgs. 14.9.2012, n. 160). Nel caso di appello contro un’ordinanza cautelare, la violazione delle disposizioni sulla competenza dei Tar è rilevata anche d’ufficio dal Consiglio di Stato (art. 62, co. 4, c.p.a., come modificato dall’art.1, d.lgs. n. 160/2012).
Il procedimento cautelare è avviato, come si è già segnalato, da un’istanza di parte, che può essere inserita nel ricorso introduttivo del giudizio o con istanza separata. Quando sia proposta con atto separato, il procedimento non è assoggettato a sospensione feriale (art. 5 l. 7.10.1969, n. 742); invece se sia proposta nel ricorso, non sono assoggettati a sospensione feriale gli adempimenti connessi alla sua trattazione (fissazione della camera di consiglio, termine dilatorio per la trattazione, ecc.).
L’istanza deve essere notificata “alle altre parti” (art. 55, co. 3, c.p.a.). Questa disposizione è coerente, per un verso, con la regola secondo cui per l’ammissibilità del ricorso è sufficiente la notifica all’amministrazione ad almeno uno dei controinteressati (art. 41, co. 2, c.p.a.) e, per altro verso, va temperata con il principio secondo cui l’integrazione del contraddittorio è preliminare ad ogni pronuncia ‘definitiva’ anche di ordine cautelare (artt. 27, co. 2, e 55, co. 12, c.p.a.). Di conseguenza la misura cautelare è validamente richiesta anche se l’istanza sia stata notificata soltanto all’amministrazione resistente e ad uno dei controinteressati; in questo caso, però, possono essere adottate soltanto misure cautelari meramente ‘interinali’, destinate cioè a produrre i loro effetti soltanto fino a una pronuncia cautelare che potrà essere adottata soltanto dopo l’integrazione del contraddittorio con tutti i controinteressati.
L’istanza cautelare proposta nel corso di un giudizio è diretta al giudice avanti al quale penda il giudizio stesso. Nel codice, sia per le istanze cautelari ‘ordinarie’ (art. 55, co. 13, c.p.a.), che per quelle indirizzate al presidente (art. 61, co. 3, c.p.a..) è precisato che il giudice amministrativo può provvedere solo se abbia riconosciuto la sua competenza; se invece il giudice ritiene che il Tar adito sia incompetente, non può adottare misure cautelari neppure interinali (cfr. anche artt. 15 e 16 c.p.a.).
L’istanza cautelare, dopo la notifica, deve essere depositata presso il Tar adito. Nel caso di istanza cautelare proposta col ricorso, il deposito del ricorso consente anche all’ufficio giudiziario di venire a conoscenza dell’istanza e il termine per il deposito è quello stabilito per il ricorso. Invece nel caso di istanza proposta in atto separato, il codice non fissa un termine specifico per il deposito; pertanto, deve ritenersi applicabile il termine ordinario di trenta giorni dal perfezionamento dell’ultima notifica, stabilito dall’art. 45 c.p.a. per il deposito di ogni «atto processuale».
Il codice richiede come condizione di procedibilità dell’istanza cautelare il deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza di merito (art. 55, co. 4, c.p.a.; l’istanza di fissazione d’udienza non è necessaria nei casi in cui l’udienza di merito debba essere fissata d’ufficio, come nei giudizi elettorali e nei procedimenti camerali). In questo modo il legislatore ha voluto evitare il pericolo di ricorsi proposti al solo fine di conseguire una misura cautelare, per paralizzare l’azione amministrativa, senza interesse ad una sollecita decisione. Nel caso sia concessa una misura cautelare il collegio deve fissare, nella medesima ordinanza, l’udienza di discussione (art. 55, co. 10, c.p.a.).
Sull’istanza cautelare si pronuncia il collegio. Il collegio provvede in camera di consiglio, decorsi almeno venti giorni dalla notifica dell’istanza e dieci dal suo deposito (art. 55, co. 5, c.p.a.; il termine può essere ridotto ai sensi dell’art. 53 c.p.a.).
La garanzia del contraddittorio è sottolineata anche dalla previsione che le parti possano depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio, mentre in precedenza la prassi, contrastata solo da disposizioni interne di singoli Tar, ammetteva il deposito anche in camera di consiglio. Il deposito di memorie in camera di consiglio deve ritenersi oggi del tutto escluso, anche se si riscontra talvolta una prassi più accomodante, per lo meno quando al deposito acconsentano le altre parti; il deposito di documenti in camera di consiglio può essere autorizzato dal collegio solo «per gravi ed eccezionali ragioni» (art. 55, co. 8, c.p.a.). Le parti diverse dall’istante possono costituirsi anche soltanto in camera di consiglio; in questo caso, però, potranno svolgere le loro difese solo con una trattazione orale (art. 55, co. 7, c.p.a.).
Il collegio, ai fini della sua pronuncia, può disporre adempimenti istruttori, ogni qual volta ne ravvisi l’esigenza (art. 55, co. 12, c.p.a.), ferma restando la necessità di rispettare i limiti generali che sono confermati dal codice rispetto ai poteri d’iniziativa istruttoria del giudice amministrativo (art. 63 c.p.a.).
Sull’istanza il collegio provvede con ordinanza motivata (art. 55, co. 9, c.p.a.). L’ordinanza viene pubblicata mediante deposito in cancelleria; la sua efficacia decorre dal momento del deposito e non è in alcun modo subordinata alla notifica. Nell’ordinanza il giudice è tenuto a liquidare le spese per la fase cautelare del processo (cfr. art. 57 c.p.a.).
Il codice ammette una trattazione in sede monocratica, avanti al presidente, per particolari ragioni d’urgenza, in pendenza del giudizio di merito (art. 56 c.p.a.) o anche prima della notifica del ricorso (c.d. tutela cautelare ‘ante causam’: art. 61 c.p.a.). In entrambi i casi le misure cautelari hanno un’efficacia meramente provvisoria: producono i loro effetti solo fino all’esame dell’istanza in sede collegiale. La tutela cautelare ‘ante causam’ è ammessa esclusivamente nel giudizio di primo grado (art. 61, co. 7, c.p.a.).
La tutela ‘monocratica’ in pendenza di giudizio è ammessa «in caso di estrema gravità e urgenza» tali da determinare il pericolo grave che l’interesse del ricorrente sia pregiudicato dall’attesa dei termini previsti per una pronuncia cautelare collegiale (art. 56, co. 1, c.p.a.). Presuppone la notifica del ricorso, che in questo caso, però, può essere effettuata direttamente dal difensore via fax, senza la necessità di autorizzazioni di sorta, fatto salvo l’obbligo di procedere alla notifica anche secondo le regole ordinarie, entro cinque giorni dalla richiesta della misura cautelare (art. 56, co. 2 e 5, c.p.a.). Sull’istanza provvede il presidente del Tar (o il presidente della sezione, se il ricorso sia già stato assegnato a una sezione); il presidente, ove lo ritenga necessario, può sentire fuori udienza, senza formalità particolari, le parti che si siano dichiarate disponibili.
Il presidente si pronuncia con decreto motivato; il decreto non è impugnabile, ma è «sempre modificabile o revocabile» su istanza di parte (art. 56, co. 4, c.p.a.). Se sia concessa una misura cautelare, il decreto conserva i suoi effetti fino alla camera di consiglio fissata per l’esame in sede collegiale; tale camera di consiglio deve essere indicata nel decreto stesso (e ciò vale anche nel caso in cui il presidente neghi la concessione della misura cautelare).
La tutela cautelare ‘ante causam’ è stata estesa dal codice (art. 61 c.p.a.) a tutte le vertenze devolute al giudice amministrativo: «in caso di eccezionale gravità ed urgenza, tale da non consentire nemmeno la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cautelari provvisorie con decreto presidenziale, il soggetto legittimato al ricorso può proporre istanza per l’adozione di misure cautelari interinali e provvisorie» necessarie per assicurare la tutela fino alla trattazione ordinaria dell’istanza cautelare dopo la notifica del ricorso. Anche in questo caso, comunque, l’istanza deve essere notificata alle altre parti; su di essa provvede con decreto il Presidente, dopo aver verificato la competenza del Tar, sentite, ove possibile, le parti ed omessa ogni altra formalità. In questa ipotesi (così come in quella precedente) la previa notifica dell’istanza vale a consentire uno spazio per il contraddittorio, nei termini in cui esso risulti concretamente compatibile con la peculiare situazione d’urgenza.
La misura cautelare disposta ‘ante causam’ è efficace fino alla pronuncia cautelare del collegio (per le sue condizioni d’efficacia, cfr. art. 61, co. 5, c.p.a.). Il decreto presidenziale, anche in questo caso, non è appellabile, ma può essere “sempre” modificato o revocato su istanza di parte (in merito alla modifica e alla revoca, vale quanto già esposto sopra a proposito delle misure presidenziali adottate in pendenza del giudizio).
Le pronunce cautelari del giudice amministrativo (sia collegiali che monocratiche) sono passibili di revoca o di modifica (art. 58 c.p.a.). Inoltre è ammesso l’appello (art. 62 c.p.a.) nei confronti delle pronunce cautelari collegiali ‘definitive’: sono le ordinanze con cui il collegio si pronuncia in via definitiva sull’istanza cautelare, da non confondersi, perciò, con quelle (non passibili di appello) che siano state adottate in attesa di una integrazione del contraddittorio o di espletamenti istruttori disposti già nella fase cautelare.
a) La revoca o di modifica delle pronunce cautelari riflette la dipendenza delle misure cautelari dai due presupposti generali già richiamati all’inizio. Il “mutamento delle circostanze” rilevanti per la pronuncia cautelare consente la presentazione di una nuova istanza: il mutamento può riguardare sia le circostanze di fatto, che determinano il ‘periculum in mora’, sia le ragioni di diritto, che invece, in genere, rilevano per il ‘fumus boni iuris’. La revoca o la modifica di una pronuncia cautelare è comunque subordinata a iniziativa di parte; negli stessi casi può essere riproposta l’istanza cautelare che sia stata in un primo tempo respinta. Infine, le circostanze elencate nell’art. 395 c.p.c. (sulla revocazione delle sentenze) costituiscono sempre motivi per la revoca di una pronuncia cautelare.
L’istanza per la modifica o la revoca di una pronuncia cautelare è sottoposta alla stessa procedura già descritta sopra a proposito dell’istanza cautelare.
b) Nei confronti delle ordinanze dei Tar che abbiano provveduto in via definitiva sull’istanza cautelare, la parte può proporre appello al Consiglio di Stato, deducendo l’invalidità o l’ingiustizia della pronuncia. L’appello va proposto entro un termine perentorio (di trenta giorni dalla notificazione dell’ordinanza o, in difetto, di sessanta giorni dalla sua pubblicazione: art. 62, co. 1, c.p.a.), con atto da notificare alle altre parti, secondo regole analoghe a quelle stabilite per l’appello nei confronti delle sentenze (art.100 ss. c.p.a.).
Al Consiglio di Stato l’appellante può richiedere anche un decreto presidenziale, nel caso si deducano ragioni di «estrema gravità e urgenza», tali da non essere compatibili neppure con i tempi ordinari per la trattazione collegiale (cfr. art. 56 c.p.a., richiamato dall’art. 62, co. 2, c.p.a.). Il decreto è destinato a valere fino all’ordinanza collegiale.
Se l’amministrazione non adempie alla pronuncia cautelare del giudice amministrativo, la parte interessata può richiedere al giudice che ha pronunciato l’ordinanza di assumere i provvedimenti necessari per l’esecuzione. A tal fine il codice, sulla linea della giurisprudenza precedente, non richiede l’esperimento di un ricorso per l’ottemperanza, ma assegna comunque al giudice amministrativo tutti i poteri che gli spettano nel giudizio di ottemperanza (art. 59 c.p.a.). Pertanto, il giudice può ordinare all’amministrazione un comportamento specifico e può nominare un commissario che si sostituisca all’amministrazione inadempiente (art. 114, co. 4, c.p.a.).
L’esecuzione deve essere richiesta con istanza motivata, che va previamente notificata alle altre parti (art. 59 c.p.a).
L’obiettivo di assicurare una più sollecita decisione dei ricorsi al giudice amministrativo ha indotto il legislatore a valorizzare la fase cautelare anche come occasione per una definizione del giudizio anche nel merito. Questa tendenza ha trovato pieno riscontro nel codice (art. 60 c.p.a.). La fase cautelare diventa, così, uno strumento importante per attuare nel giudizio amministrativo il principio della ‘ragionevole durata del processo’ introdotto nell’art. 111 Cost.
Per una decisione del ricorso, però, devono essere verificate alcune condizioni fondamentali (art. 60 c.p.a.). In particolare:
a) il collegio deve verificare “la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria”. La garanzia del contraddittorio e l’esigenza che il giudice abbia una cognizione completa della vertenza sono sempre essenziali per una decisione di merito;
b) il collegio deve segnalare preventivamente alle parti costituite l’eventualità di una decisione anticipata, così da consentire ad esse di prospettare subito particolari esigenze di istruttoria o di difesa, che rendano opportuno il differimento della decisione;
c) il collegio non può procedere alla decisione del ricorso, se una delle parti abbia dichiarato di voler proporre motivi aggiunti, o ricorso incidentale, o regolamento di giurisdizione o di competenza. In questo caso, infatti, la fase introduttiva del processo non può ritenersi ancora conclusa e i termini della domanda non sono ancora stati definiti; ovvero, il radicamento del giudizio davanti all’ufficio giudiziario non è ancora acquisito.
Il ricorso in questo caso è deciso con una «sentenza in forma semplificata», e cioè con una motivazione succinta, incentrata sui profili fondamentali del ricorso (cfr. art. 74 c.p.a.).
Altre disposizioni del codice intendono evitare che la concessione di una misura cautelare comporti una paralisi a tempo indeterminato dell’azione amministrativa. In particolare è previsto che, ove sia accolta una istanza cautelare, nella medesima ordinanza sia fissata la data dell’udienza di merito, per la discussione del ricorso (art. 55, co. 11, c.p.a.). Questa disposizione, però, nella prima fase di attuazione del codice non è costantemente rispettata dai Tar e dallo stesso Consiglio di Stato.
Negli ultimi decenni il processo amministrativo si è evoluto verso una pluralità di riti e verso modelli di tutela differenziata, espressione di esigenze molto diverse. L’evoluzione ha comportato l’introduzione di discipline particolari anche rispetto alla tutela cautelare. In particolare:
a) Nelle vertenze elencate dall’art. 119 c.p.a. la trattazione dell’istanza cautelare è sottoposta a termini dilatori dimezzati: devono trascorrere dieci giorni dalla notifica dell’istanza e cinque dal deposito del ricorso. Inoltre, la decisione di merito è accelerata anche perché il collegio, in sede cautelare, dopo l’accertamento della completezza del contraddittorio (ovvero dopo l’integrazione del contraddittorio), se da un sommario esame emergano “profili di fondatezza del ricorso e di un pregiudizio grave ed irreparabile”, di può fissare la discussione del ricorso nel merito per la prima udienza successiva al termine dilatorio di trenta giorni. In questo caso, pertanto, le ragioni di urgenza della tutela cautelare si attuano realizzano, primariamente, attraverso una pronuncia di merito in tempi ravvicinati.
L’anticipazione della decisione di merito non sempre, però, soddisfa le ragioni della tutela cautelare. In caso di estrema gravità ed urgenza, l’art. 119, co. 4, c.p.a. consente al collegio di disporre le misure cautelari che risultino opportune nel caso concreto. Pertanto, se ricorra una condizione di estrema gravità ed urgenza, il giudice amministrativo, oltre ad anticipare l’udienza per la decisione del merito, può anche assumere misure cautelari nelle forme ordinarie.
b) La disciplina appena descritta si applica anche alle vertenze concernenti le procedure di affidamento di contratti pubblici (di lavori, forniture e servizi). Nei giudizi proposti contro l’aggiudicazione definitiva di un contratto pubblico si applicano, però, anche alcune disposizioni peculiari, introdotte nel codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12.4.2006, n. 163), ampiamente modificato dal d.lgs. n. 53/2010, emanato in attuazione della direttiva 2007/66/CE.
Prima di procedere alla sottoscrizione del contratto l’amministrazione deve osservare un termine dilatorio di almeno trentacinque giorni, decorrente dall’invio dell’ultima comunicazione dell’aggiudicazione definitiva (c.d. stand-still: art. 11, co. 10, d.lgs. 163/2006; per valutare questa previsione, si consideri che il ricorso contro l’aggiudicazione va proposto entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione: art. 120, co. 2, c.p.a.). Il ricorso nei confronti di un’aggiudicazione definitiva, se sia proposta anche l’istanza cautelare, ha effetto sospensivo: per conseguire l’effetto sospensivo, nel caso di ricorso contro amministrazioni statali, l ricorso con l’istanza cautelare deve essere notificato, però, oltre che all’avvocatura dello Stato, anche direttamente all’amministrazione (art. 120, co. 4, c.p.a.). Dal momento della notifica dell’istanza cautelare la stazione appaltante non può stipulare il contratto per i successivi venti giorni, se entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado (o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di merito, nel caso di anticipazione della decisione, ai sensi dell’art. 60 c.p.a.), ovvero fino alla pronuncia sull’istanza cautelare, se intervenga solo dopo tali venti giorni (art. 11, co. 10 ter, Codice dei contratti pubblici, introdotto dal d.lgs. n. 53/2010).
L’effetto sospensivo dovrebbe consentire al ricorrente di ottenere una pronuncia cautelare prima che sia stato stipulato il contratto o che sia data esecuzione alle prestazioni oggetto del contratto. La tutela cautelare ha, quindi, un obiettivo tipicamente ‘preventivo’.
Nelle vertenze in esame il collegio, se accoglie l’istanza cautelare, oltre a fissare l’udienza di merito “con assoluta priorità” (art. 120, co. 6, c.p.a.), è comunque tenuto a decidere interinalmente sulla sospensione dell’aggiudicazione (art. 120, co. 8, c.p.a.). Questa previsione vale ad attuare le ragioni dello ‘stand-still’ ed è espressamente dettata anche per il caso di rinvii della camera di consiglio resi necessari dall’esigenza di adempimenti istruttori, di concessione di termini a difesa, di altri incidenti processuali.
c) Ulteriori disposizioni in materia cautelare sono dettate dal codice per i giudizi che riguardano procedure di progettazione, approvazione e realizzazione di infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi e le relative attività di espropriazione, occupazione, asservimento (art. 125 c.p.a.; l’individuazione puntuale di questi giudizi si ricava dagli artt. 161 ss. del codice dei contratti). In questi casi si applica, comunque, anche la disciplina già richiamata sopra a proposito della tutela cautelare nel rito abbreviato; inoltre, nel caso di impugnazione di provvedimenti di aggiudicazione definitiva, si applica anche la disciplina della tutela cautelare già illustrata per le vertenze in tema di contratti pubblici. Il giudice in sede cautelare deve valutare le conseguenze cagionate dal provvedimento impugnato rispetto a tutti gli interessi coinvolti, l’interesse nazionale alla realizzazione dell’opera e il pregiudizio che potrebbe derivare al ricorrente nel caso di esecuzione del provvedimento (art. 125, co. 2, c.p.a.). Di tali elementi dovrebbe perciò dar espressamente conto la motivazione della pronuncia cautelare.
Artt. 55 ss. c.p.a.; art. 11, d.lgs. 12.4.2006, n. 163, modificato dal d.lgs. 20.3.2010, n. 53.
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