AMBIENTE, TUTELA DELL'
Tutela dell'ambiente
di Richard B. Stewart
La tutela dell'ambiente ha lo scopo di prevenire la contaminazione dell'aria, dell'acqua e del terreno dovuta a inquinamento, radiazioni o altri residui industriali e agricoli; di preservare l'integrità dei processi naturali minacciata dagli effetti dell'industrializzazione, dell'agricoltura, dello sviluppo commerciale e di altre attività dell'uomo; di proteggere le specie vegetali e animali e le località di interesse paesaggistico; di conservare altre risorse naturali. Le questioni di maggiore attualità riguardano: varie forme di inquinamento dell'aria e dell'acqua; l'emissione di sostanze chimiche tossiche a seguito di incidenti industriali e di inadeguate procedure di trattamento ed eliminazione dei rifiuti; le minacce delle radiazioni nucleari; la desertificazione e la distruzione delle foreste; l'estinzione sempre più rapida di specie vegetali e animali; la conservazione di aree di interesse paesaggistico; la disponibilità di risorse energetiche adeguate per il prossimo secolo; i potenziali rischi connessi a nuove tecnologie quali le biotecnologie (v. Brown, 1987). Nei paesi sviluppati, e in maniera crescente anche nei paesi in via di sviluppo, la tutela dell'ambiente viene ormai considerata come una responsabilità dei governi. La maggior parte dei paesi sviluppati ha destinato a tale scopo una notevole quantità di strumenti giuridici e organizzativi. Le scelte relative all'ambiente costituiscono questioni politiche importanti, soprattutto in Europa occidentale, negli Stati Uniti e in Canada; la tutela dell'ambiente è al centro di una disciplina scientifica relativamente nuova, l'ecologia, ed è stata oggetto di grande attenzione da parte di numerose altre discipline, fra cui la biologia, la chimica, l'ingegneria, l'economia, il diritto e le scienze politiche. Problemi di tutela dell'ambiente hanno inoltre influenzato l'etica, la teologia e la storia della cultura, ed esiste ormai una vasta letteratura sull'argomento.
La tutela dell'ambiente è divenuta un importante problema politico, sociale e scientifico soltanto negli ultimi 25 anni, ma essa ha numerosi antecedenti storici e culturali, quali l'interesse del romanticismo per la natura, la tradizione sanitaria iniziata dopo il 1850 in Inghilterra da Chadwick, il Conservation movement della fine del secolo scorso negli Stati Uniti, e le iniziative degli inizi del Novecento per proteggere la salute dei lavoratori dell'industria. Ma il movimento ambientalista è emerso come forza politica e intellettuale a livello mondiale soltanto negli anni sessanta. La preoccupazione per l'ambiente, almeno a livello di élites, è stata risvegliata da libri quali Silent spring di Rachel Carson (v., 1962), mentre a livello più ampio una maggiore coscienza dei problemi legati alla tutela dell'ambiente si è manifestata con la celebrazione della Giornata della Terra (1970) e con la Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente umano (Stoccolma, 1972: v. O'Riordan, 1981²).
Le ragioni per cui la tutela dell'ambiente è divenuta un fatto importante proprio in questo periodo sono diverse e non del tutto chiare. È comunque certo che si è avuto un maggior impatto delle attività umane sull'ambiente naturale in conseguenza della crescita della popolazione e dello sviluppo economico e tecnologico. La crescita della popolazione, essa stessa risultato in buona parte delle migliori condizioni sanitarie e dei progressi medici, ha accresciuto la domanda di prodotti agricoli, di energia e di altre risorse naturali. Questa domanda è stata ulteriormente incrementata dal concomitante aumento della ricchezza (consumo pro capite), soprattutto nei paesi sviluppati. Le innovazioni tecnologiche nei settori dell'agricoltura, della trasformazione energetica, delle tecniche estrattive, ecc., hanno reso possibile far fronte alla crescente domanda di risorse naturali grazie a una più efficiente utilizzazione della terra e delle risorse energetiche. Ma nuove potenti tecnologie, quali le armi nucleari, l'energia nucleare, la chimica organica di sintesi, le piattaforme offshore per l'estrazione del petrolio e le superpetroliere, hanno anche notevolmente accresciuto l'impatto effettivo o potenziale delle attività umane sull'ambiente.
Man mano che l'impatto sull'ambiente diveniva maggiore, aumentava anche la consapevolezza e l'interesse per quell'impatto. Le nozioni scientifiche relative agli effetti delle attività umane sugli ambienti naturali e, di conseguenza, sulla salute, sono cresciute enormemente negli ultimi tre decenni, benché la nostra incertezza e ignoranza al riguardo siano tuttora profonde. L'aumento della ricchezza ha fatto sentire maggiormente l'esigenza di un ambiente migliore, come risulta dalla stretta correlazione tra ricchezza nazionale e interesse per l'ambiente. Cinema e televisione hanno pubblicizzato con grande realismo tremendi disastri ambientali come le fuoruscite di petrolio dalla Santa Barbara, dalla Torrey Canyon e dalla Amoco Cadiz, o i disastri chimici di Seveso in Italia e di Bhopal in India, o gli incidenti nucleari di Three Mile Island e di Černobyl. La nascita di una nuova etica ambientale, centrata sulla conservazione e sull'armonia con la natura, ha influito su alcuni intellettuali e sull'opinione di alcune élites. Le preoccupazioni ambientali, unite all'avversione per molti aspetti dell'industrializzazione, hanno generato nuovi movimenti politici (per esempio i Verdi).
Nelle democrazie industriali queste diverse forze hanno determinato la richiesta, avanzata con grande energia a livello politico, di misure per la tutela dell'ambiente. Tali richieste sono state l'espressione di una combinazione di fattori, e cioè la preoccupazione pubblica, largamente condivisa, per i problemi dell'ambiente e gli sforzi di pubblicizzazione e di sostegno più specializzato portati avanti sia da gruppi privati impegnati nella difesa dell'ambiente e della salute, sia da uffici governativi con compiti di tutela dell'ambiente.
A livello di industrie e di enti pubblici si è in genere riscontrato il tentativo non di respingere queste richieste, ma di conciliarle coi propri interessi. La politica di tutela dell'ambiente ha prodotto una serie di programmi governativi di ricerca, gestione e regolamentazione, per lo più amministrati da uno o più uffici con specifiche responsabilità. I programmi di regolamentazione ambientale si basano prevalentemente su norme giuridiche e disposizioni per controllare la condotta dei privati. Inoltre, i tribunali hanno dovuto affrontare in misura crescente vertenze di diritto privato in materia di ambiente. Questo articolo sarà dedicato principalmente a esaminare in dettaglio questi sviluppi.
Il rapporto fra sviluppo economico e tutela dell'ambiente è stato percepito in modo diverso a seconda dei periodi e dei paesi. Negli anni sessanta e settanta era convinzione generale che gli obiettivi economici contrastassero con la tutela ambientale e che si potesse ottenere un ambiente più pulito soltanto riducendo la crescita economica, destinando gli investimenti a dispositivi di controllo dell'inquinamento, o rinunziando ai benefici delle nuove tecnologie. Quando il problema ambientale cominciò a essere largamente avvertito nelle democrazie industrializzate, all'incirca tra il 1968 e il 1974, fu generalmente ritenuto che i sacrifici economici richiesti non fossero grandi e fossero in ogni caso giustificati. Nella seconda metà degli anni settanta, il deterioramento della situazione economica mondiale e la grave preoccupazione per le riserve energetiche fecero apparire i sacrifici più gravi e meno facilmente tollerabili, e gli sforzi per la tutela dell'ambiente furono ridotti. I paesi in via di sviluppo avvertirono il grave conflitto tra le loro aspirazioni di sviluppo economico e le preoccupazioni ambientali espresse dai paesi sviluppati. Queste preoccupazioni furono spesso ritenute un cinico sforzo per mantenere il Terzo Mondo in uno stato permanente di sottosviluppo economico e di asservimento ai paesi sviluppati, che erano invece i maggiori responsabili dei problemi ambientali. In tempi più recenti, tuttavia, è stato compreso meglio come, a lungo termine, gli obiettivi ambientali e quelli economici siano complementari.
Gli aspetti transnazionali e internazionali della tutela dell'ambiente sono divenuti oggetto di attenzione crescente. L'opinione pubblica europea è stata sensibilizzata dall'incidente di Černobyl, dagli scarichi di sostanze tossiche nel Reno e dall'inquinamento atmosferico; le piogge acide sono fonte di continue controversie fra Stati Uniti e Canada; l'attività giurisdizionale della Comunità Europea in materia di tutela ambientale è ampia e sempre crescente. Attraverso iniziative bilaterali o multilaterali si è iniziato ad affrontare una serie di problemi ambientali di portata regionale o mondiale. Tuttavia numerosi problemi di interesse globale, fra cui l'aumento di anidride carbonica nell'atmosfera e la distruzione delle foreste pluviali, hanno attirato l'attenzione di un numero relativamente scarso di persone, se si eccettuano scienziati e gruppi ambientalisti.
In questo articolo saranno trattati in particolare gli aspetti istituzionali della tutela ambientale, e cioè come le normative istituzionali creino problemi ambientali e come la loro modifica possa contribuire a risolverli (v. Stewart e Krier, 1978², capp. 3-6). I problemi relativi alla tutela dell'ambiente vengono distinti per convenzione in due categorie, comprendenti la prima l'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo, e la seconda la tutela e gestione delle risorse naturali. Come verrà spiegato in seguito, per affrontare queste due categorie di problemi sono stati sviluppati strumenti giuridici e organizzativi diversi, ma a livello teorico entrambe presentano la questione delle risorse utilizzate o godute in comune. Questa impostazione teorica fu sviluppata per la prima volta da Garret Hardin (v., 1968), che scelse come esempio quello degli allevatori di bestiame che fanno pascolare le proprie mandrie su pascoli comuni. Il problema generale è costituito dalla necessità di un'azione collettiva da parte degli individui per affrontare la questione dell'interdipendenza reciproca nell'utilizzazione delle risorse. Ciascun allevatore è incentivato ad accrescere la dimensione della sua mandria, e pertanto ad accrescere la porzione di pascolo comune che essa consuma. Tale incentivazione porta a un'utilizzazione eccessiva e quindi all'esaurimento delle risorse comuni, e anche se gli allevatori se ne rendono perfettamente conto, non per questo si tratterranno dal farlo. L'autolimitazione da parte di un singolo allevatore non comporterà di per sé un'autolimitazione simile da parte degli altri; inoltre, il singolo allevatore potrà usufruire solo in piccola parte del beneficio comune derivato dalla sua autolimitazione; la maggior parte del beneficio andrà agli altri, che saranno spinti ad appropriarsi di una parte ancora maggiore del bene comune nel periodo che precede il suo esaurimento. Pertanto, nessun singolo allevatore ha interesse ad autolimitarsi, mentre è incentivato a tentare di superare gli altri nel consumo. Poiché tutti ragionano allo stesso modo, i beni comuni vengono distrutti: questa è la tragedia delle risorse comuni.
L'inquinamento dell'aria e quello dell'acqua rappresentano un aspetto di questa tragedia. Un bacino d'acqua o di aria è uno scarico comune in cui vengono riversati agenti inquinanti e altri residui, e la sua contaminazione va a detrimento di tutti i suoi utenti. Tuttavia, a causa della logica dei beni in comune, nessuno di coloro che inquina è incentivato ad autolimitare i propri scarichi senza garanzia che gli altri faranno altrettanto. Risorse naturali quali una specie rara o una località di interesse paesaggistico, che hanno un grande valore estetico o culturale anche per coloro a cui la risorsa non appartiene, verranno, come sarà spiegato più avanti, distrutte per motivi simili. Il problema dei beni in comune non deve essere considerato soltanto in funzione della tutela dell'ambiente: esso può riguardare qualunque tipo di risorsa. Se non è garantita la tutela dei diritti o della proprietà, chiunque può impadronirsi liberamente del lavoro di un altro, e la rovina dei beni in comune si estende. Per risolvere questo problema occorre un'azione collettiva che limiti l'utilizzazione dei beni comuni da parte dei singoli, così che tutti possano trarne beneficio. Esistono due soluzioni opposte: una è l'istituzione della proprietà privata, l'altra è che la proprietà e la sua amministrazione siano nelle mani dello Stato.
Nelle democrazie industrializzate si è fatto ricorso prevalentemente alla proprietà privata, non solo per creare degli incentivi a un uso avveduto delle risorse, al risparmio e agli investimenti, ma anche per promuovere la libertà attraverso il decentramento del potere economico. I sistemi basati sulla proprietà privata falliscono, tuttavia, quando l'utilizzazione individuale di un bene da parte di chi lo possiede produce effetti negativi sul benessere degli altri. La cosa più facile è che questo avvenga a causa di effetti diffusivi: l'inquinamento prodotto da A sulla sua proprietà si sposta sulla proprietà di B. L'esistenza di questi effetti esterni è dovuta a interdipendenze fisiche nell'utilizzazione di risorse comuni, quali l'aria, l'acqua o lo spazio, che non appartengono ad alcuna persona singola. Queste interdipendenze conducono spesso a un abuso delle risorse comuni: per esempio, A riverserà nell'aria una quantità eccessiva di residui perché non si sarà preoccupato degli effetti negativi della sua condotta su B. Se anche B inquina, ne conseguirà ancora una volta la rovina dei beni comuni.
Questo risultato può essere evitato, come ha dimostrato Ronald Coase (v., 1960), se i rispettivi diritti di proprietà delle parti sono ben definiti e se i proprietari possono contrattare senza oneri e con successo. Se, per esempio, A ha secondo la legge diritto di inquinare a suo piacimento, B, per ottenere che l'inquinamento venga ridotto a un certo livello, gli corrisponderà una somma di danaro cosicché ambedue ne avranno un vantaggio. Oppure, se B può impedire qualsiasi tipo di inquinamento da parte di A, A potrà trattare con B in modo da ottenere il permesso di produrre un certo grado di inquinamento in cambio di un compenso in danaro. In pratica, tuttavia, la contrattazione è onerosa e non sempre ha successo. Anche se il numero delle parti coinvolte è basso, possono verificarsi per motivi strategici situazioni di stallo nelle contrattazioni. In molti casi le vittime dell'inquinamento sono centinaia o addirittura milioni, e anche il numero di coloro che inquinano è elevato, cosicché gli ostacoli da superare perché la trattativa abbia successo sono insormontabili. Per esempio, se un'industria ha il diritto di inquinare l'aria in una vasta zona, tutti i residenti della zona potrebbero in linea di principio contribuire a un fondo comune che serva a pagare l'industria affinché tenga sotto controllo l'inquinamento. Ma gli ostacoli per arrivare a un accordo sarebbero enormi, in parte a causa dei problemi connessi a un'azione collettiva: ogni singolo residente potrebbe rifiutarsi di contribuire al fondo, considerando che egli godrebbe comunque dei benefici dell'aria pulita pagati dagli altri; se tutti facessero però lo stesso ragionamento, nessuno darebbe il suo contributo e si arriverebbe nuovamente al degrado dei beni comuni.
Per queste ragioni una saggia amministrazione dei beni comuni rappresenta un pubblico interesse che non può essere realizzato attraverso un processo decisionale individuale e decentrato. Una possibile soluzione, adottata nel caso dei terreni da pascolo, consiste nel privatizzare i beni comuni mediante la costituzione di diritti di proprietà. Se il terreno da pascolo è di proprietà privata, ogni proprietario sarà incentivato a non sovrautilizzarlo perché dovrebbe poi sopportarne tutte le conseguenze. È tuttavia estremamente difficile costituire diritti di proprietà su risorse quali l'aria o l'acqua, in modo tale da assicurare al proprietario l'uso esclusivo di una parte di quelle risorse, garantendogli il riassorbimento dei suoi costi di inquinamento. Problemi ambientali possono inoltre derivare da effetti esterni che non comportano alcun impatto fisico su altre persone o sulle loro proprietà. La distruzione di una specie rara o di un bene paesaggistico da parte di un proprietario che persegua i propri interessi può risultare dannosa per coloro che vogliono avere la possibilità di vederla o visitarlo in futuro, o intendono mantenere aperta tale possibilità per le generazioni future, oppure semplicemente attribuiscono un valore alla conservazione del bene in quanto tale.In casi come questo potrebbe rivelarsi vantaggioso per entrambe le parti accordarsi sulla conservazione del bene in cambio di un indennizzo al proprietario da parte di coloro che ne vorrebbero la conservazione. Tuttavia, poiché il numero di questi ultimi sarà probabilmente elevato ed essi saranno difficili da individuare, vi saranno in pratica gravi ostacoli a concludere un accordo. Inoltre, si ripresenteranno i problemi di un'azione collettiva, problemi connessi alla difficoltà di indurre i singoli a contribuire volontariamente alla salvaguardia di un bene comune di cui potranno godere anche coloro che non avranno contribuito alla sua conservazione. Non è neppure possibile risolvere tali problemi creando nuovi diritti di proprietà individuali, analoghi a quelli sui terreni da pascolo, sui beni paesaggistici o sulle specie in pericolo.
Fino ad ora la nostra analisi si è basata sul presupposto che i valori e le preferenze degli individui costituiscano la corretta base normativa delle delibere sull'utilizzazione delle risorse. Un governo, tuttavia, potrebbe anche decidere che le delibere sulle risorse non debbono essere basate unicamente sulle preferenze degli individui interessati (alcuni dei quali potrebbero preferire lo sviluppo industriale e commerciale, mentre altri il controllo dell'inquinamento e la conservazione delle risorse); potrebbe invece stabilire che la tutela della salute umana rappresenta un diritto di tutti i cittadini o un'aspirazione collettiva; potrebbe decidere di conservare aree di eccezionale valore paesaggistico, quali il Grand Canyon o la Foresta Nera, in quanto espressione di importanti valori culturali o simboli di identità nazionale. In circostanze simili è ancora meno probabile che la contrattazione decentralizzata possa produrre risultati soddisfacenti. Inoltre, se gli obiettivi da realizzare sono collettivi, può essere importante precisarli e raggiungerli attraverso strumenti collettivi. Esistono diverse possibili risposte istituzionali ai molteplici inconvenienti derivanti dal fatto di ricorrere a norme decentralizzate di diritto privato per stabilire l'uso collettivo delle risorse. Una è quella di modificare le norme di diritto privato sull'atto illecito e sulla proprietà per la soluzione del problema delle immissioni. Una seconda risposta è quella di affidare direttamente allo Stato la proprietà e l'amministrazione delle risorse. Una terza possibilità è costituita da un sistema misto di proprietà privata e regolamentazione statale. Secondo questa impostazione la maggior parte delle decisioni relative alle risorse viene presa attraverso norme decentralizzate di diritto privato, ma certe soluzioni sono imposte o proibite dallo Stato. Un quarto sistema è basato sull'uso di incentivi economici (quali le tasse sull'inquinamento) per indurre il mercato privato a perseguire obiettivi ambientali senza tentare di imporre comportamenti specifici. Ciascuna di queste diverse risposte istituzionali comporta scelte collettive degli obiettivi di tutela dell'ambiente; i diversi approcci, peraltro, si basano su differenti meccanismi di scelta di quegli obiettivi e del modo per raggiungerli.
Il diritto privato ha affrontato le questioni dell'inquinamento e di altri effetti diffusivi di tipo fisico sviluppando le dottrine della violazione di proprietà, della turbativa e della negligenza allo scopo di limitare la libertà d'uso di un bene da parte del suo proprietario, in modo che tale uso non possa nuocere agli altri (v. Stewart e Krier, 1978², cap. 4). Queste limitazioni vengono esercitate attraverso provvedimenti giudiziari ingiuntivi o di risarcimento pecuniario dei danni. Molti dei casi affrontati nei primi tempi riguardavano danni alla proprietà dei vicini, mentre oggi hanno assunto maggiore importanza i danni alle persone. Si assiste a un numero crescente di azioni legali intraprese per definire i danni alla salute presumibilmente causati da sostanze chimiche tossiche, radiazioni e altre forme di inquinamento. Le controversie giudiziarie private, tuttavia, sono un mezzo di efficacia limitata per risolvere il problema della tutela dell'ambiente, nonostante la recente propensione di alcuni tribunali a interpretare in maniera meno restrittiva le dottrine tradizionali in materia di colpa e di prova del nesso di causalità che hanno limitato la possibilità di rimedi giudiziari nei casi di danni all'ambiente.
Si consideri innanzitutto il problema degli effetti diffusivi inquinanti, molti dei quali sono causati da fonti diverse e riguardano numerosi individui. Il modello tradizionale bipolare della lite giudiziaria privata è inadatto a risolvere tali controversie policentriche. Come dimostrano le esperienze fatte negli Stati Uniti in materia di controversie relative a rifiuti tossici, le cause che coinvolgono un gran numero di parti sono sempre problematiche e costose. Inoltre, molti danni ambientali colpiscono risorse comuni, quali gli oceani o l'atmosfera, che non appartengono ad alcun privato che sia legittimato ad agire in giudizio. I tribunali, poi, non hanno quelle capacità tecniche e di ricerca necessarie per la raccolta e l'analisi dei dati indispensabili per risolvere le complesse questioni tecniche che i problemi dell'ambiente comportano. A livello scientifico vi è molto spesso una grande incertezza riguardo ai danni provocati dall'inquinamento sulla salute e l'ambiente. Molti di questi danni comportano lunghi periodi di latenza e possono non manifestarsi per decenni. I dati sull'esposizione all'inquinamento sono in genere scarsi. I danni alla salute, quale il cancro, hanno spesso molte cause potenziali diverse dall'inquinamento, e in parecchi casi è impossibile stabilire quale di esse sia all'origine di una specifica forma di cancro. Negli Stati Uniti sta crescendo l'interesse per l'uso delle azioni di responsabilità civile per ottenere una riparazione pecuniaria per le vittime del cancro o di altre malattie che potrebbero essere state causate da esposizione all'effetto inquinante di sostanze chimiche tossiche, ma è molto difficile provare tanto che vi sia stata esposizione, quanto le sue effettive conseguenze. La conoscenza dei rischi ambientali richiede studi e ricerche sempre più ampi ed elaborati. Poiché tali informazioni sono in sé un bene pubblico, la ricerca spesso deve essere finanziata con denaro pubblico. Inoltre, essendo le controversie giudiziarie decentrate, i tribunali sono privi delle capacità di supervisione e di intervento riparatorio necessarie per l'esercizio di un'azione di controllo dei rischi ambientali coordinata ed efficace.
Le controversie che riguardano gli effetti delle diffusioni inquinanti sulla conservazione di aree di interesse sono ancora meno adatte a essere risolte mediante procedimenti privati a causa della difficoltà di stabilire tanto chi viene danneggiato da decisioni riguardanti lo sviluppo delle risorse, quanto l'ammontare del danno. Nel caso di effetti diffusivi inquinanti esiste un nesso fisico tra il danneggiante e il danneggiato, che facilita l'identificazione e la quantificazione del danno. Non esiste invece un nesso analogo in base al quale sia possibile stabilire chi viene danneggiato e in che misura da interventi di sviluppo che possono ridurre il valore di opzione di una risorsa o impedire la sua conservazione, ritenuta un valore da un numero indeterminato di persone, molte delle quali assai distanti dalla risorsa in questione.Infine, le decisioni circa la misura in cui le attività economiche private debbano essere limitate allo scopo di garantire valori ambientali, possono comportare scelte politiche che non sono di competenza dei tribunali. Il sistema del diritto privato attribuisce ai giudici il potere di porre rimedio ad atti illeciti ben definiti causati da una persona ai danni di un'altra. Ma la maggior parte delle controversie ambientali non può essere assimilata a questo modello tradizionale di giustizia correttiva. Poiché tali controversie spesso comportano interessi di gruppo e valori pubblici o collettivi, sarebbe preferibile ricorrere a strumenti politici piuttosto che a provvedimenti di giurisdizione civile. La lite giudiziaria privata può fornire rimedi potenzialmente utili in casi di effetti diffusivi fisici che coinvolgano relativamente poche parti e nel caso in cui l'origine di essi e il danno causato siano relativamente chiari. Ma in casi diversi, che sono oggi di gran lunga più frequenti quando si tratta di problemi ambientali, devono essere ricercate risposte istituzionali diverse.
Il sistema simmetricamente opposto a quello della proprietà privata, definito e regolato dal diritto privato, è quello in cui proprietà e amministrazione sono pubbliche. Secondo questa impostazione è il governo che deve porre rimedio al degrado dei beni comuni attraverso un processo decisionale centralizzato, e non i proprietari privati con provvedimenti decentrati e basati sul mercato. Il governo può superare gli ostacoli dell'azione collettiva ricorrendo a metodi collettivi di decisione, nonché alla tassazione o ad altri poteri coercitivi, per assicurare alle sue azioni il sostegno e il contributo di tutti. Le democrazie industriali si affidano a sistemi elettorali e di rappresentanza che elaborano opinioni e valori individuali allo scopo di produrre scelte collettive. I paesi socialisti utilizzano metodi più autoritari di scelta collettiva. In entrambi i sistemi queste scelte - relative, per esempio, alla misura in cui l'inquinamento degli impianti di proprietà pubblica debba essere posto sotto controllo, o le risorse naturali di proprietà pubblica debbano essere sviluppate in vista di diverse utilizzazioni - vengono tradotte in pratica da funzionari pubblici responsabili dell'amministrazione di quelle risorse.
La forma della proprietà pubblica è stata raramente adottata nell'ambito delle democrazie industrializzate, perché queste fanno prevalentemente affidamento su sistemi di mercato basati sulla proprietà privata per organizzare l'attività economica. A eccezione degli Stati Uniti, del Canada e dell'Australia, i governi dei paesi di questo tipo possiedono relativamente poche terre. In alcuni paesi europei sono di pubblica proprietà numerosi importanti complessi industriali, che godono spesso di una sostanziale autonomia di gestione e sono in genere soggetti alle stesse norme sull'ambiente che si applicano alle imprese private. Il sistema più complesso e meglio studiato di proprietà e di amministrazione pubbliche, fra le democrazie industriali, è quello degli Stati Uniti, dove per motivi storici e geografici particolari il governo federale possiede e amministra circa un terzo del territorio del paese (v. Coggins e Wilkinson, 1987²). Questo sistema è stato istituito durante la progressive era (1880-1915), quando la prassi precedente di vendere o distribuire le terre federali fu interrotta in favore del loro mantenimento e amministrazione da parte del governo per garantire il rispetto dei valori di protezione e conservazione ambientale.Pur essendo considerato tradizionalmente un successo, questo sistema viene messo sempre più in discussione: analisi sia teoriche che empiriche dei risultati cui ha condotto ne hanno mostrato, infatti, diversi punti deboli.
Quando l'uso delle risorse è stabilito in base a un processo decisionale centralizzato, vi sono necessariamente enormi problemi di raccolta e di elaborazione delle informazioni. Se si considera che le scelte governative si basano, almeno in parte, sulla volontà degli individui che compongono la società, i funzionari dovranno raccogliere informazioni sulle preferenze degli individui circa i possibili usi delle varie risorse. Dovranno inoltre documentarsi sulle caratteristiche delle diverse risorse e sui costi di opportunità che la loro amministrazione comporta in vista di un'utilizzazione piuttosto di un'altra. Queste informazioni dovranno poi essere elaborate per poter stabilire quale combinazione di usi delle diverse risorse soddisferà meglio le preferenze individuali e altri obiettivi sociali. Le decisioni governative comportano anche il problema della rappresentanza: i funzionari pubblici dovrebbero servire gli interessi dei singoli cittadini o della società in generale, ma in pratica essi sono almeno in parte motivati da considerazioni di interesse personale che possono condurre a decisioni in contrasto con l'interesse generale.
Un processo decisionale decentrato attraverso il mercato evita molti di questi problemi (benché crei al contempo i problemi indicati in precedenza). I proprietari privati conoscono bene le proprie preferenze e prendono decisioni nel proprio interesse; essi possono anche stabilire tempestivamente le caratteristiche delle risorse che possiedono. Il sistema del prezzo di mercato riassume e comunica informazioni sui costi di opportunità degli utilizzi alternativi in maniera straordinariamente economica, evitando così tutto il macchinoso apparato di raccolta e di elaborazione centralizzata delle informazioni. L'esperienza conferma molti degli svantaggi della proprietà e dell'amministrazione pubbliche. Il processo politico di rappresentanza elettorale spesso non riesce a determinare con chiarezza gli obiettivi ambientali che dovrebbero guidare i funzionari pubblici, che nella maggior parte dei casi godono di un ampio margine di discrezionalità nell'amministrazione delle risorse. Questa mancanza di chiarezza è il risultato delle difficoltà nell'ottenere consenso politico e del problema a ciò inerente di una determinazione centralizzata dell'utilizzazione di risorse ampie e differenziate che possono essere sviluppate o conservate in modi assai diversi.I progressisti hanno riconosciuto che era necessaria una certa discrezionalità da parte degli amministratori pubblici, ma hanno ritenuto che la loro esperienza professionale e il loro rispetto dell'utile comune avrebbero garantito che tale discrezionalità fosse esercitata nel pubblico interesse. Attualmente si è molto più scettici. Esistono studi sulla tendenza dei burocrati pubblici ad accrescere il loro bilancio e la loro autorità alleandosi a gruppi di pressione di rilevante peso politico (v. Baden e Stroup, 1981); nel caso degli Stati Uniti questi gruppi sono costituiti da imprese private che vogliono usare i terreni di pubblica proprietà per raccogliere legname, pascolare mandrie e per estrazioni minerarie, o che vogliono utilizzare per uso agricolo l'acqua proveniente da dighe e riserve idriche federali. A causa della loro fondamentale preferenza per il capitalismo, gli Stati Uniti hanno in genere osteggiato lo sfruttamento a scopo commerciale dei terreni pubblici da parte di imprese pubbliche. Tale sfruttamento è stato invece affidato alle imprese private tramite locazioni o altri sistemi che attribuiscano loro i vantaggi di una proprietà parziale delle risorse pubbliche. Di conseguenza, i terreni e le risorse idriche pubbliche sono oggetto di importanti utilizzazioni commerciali da parte di imprese private. A causa del loro potere politico, questi gruppi privati hanno accesso alle risorse pubbliche a prezzi agevolati. Il risultato è un eccesso nella raccolta di legname e nel pascolo, sprechi di acqua e appropriazione privata di importanti ricchezze che dovrebbero essere conservate. Il sistema, quindi, non solo non ha realizzato le aspirazioni dei progressisti, ma ha abbandonato al tempo stesso la disciplina del sistema dei prezzi di mercato che riesce spesso a raggiungere lo scopo di tutelare l'ambiente evitando gli sprechi connessi all'eccessivo sfruttamento a breve termine delle risorse.
Sono stati cercati correttivi politici e giuridici a questi abusi. In alcuni casi il Congresso ha approvato norme che hanno impedito un eccesso di discrezionalità degli amministratori, disponendo che certi terreni fossero sottratti alle logiche dello sviluppo e amministrati piuttosto tenendo presenti i valori ambientali. È stato inoltre imposto agli amministratori pubblici di adottare procedure formali di valutazione dell'impatto ambientale quando devono prendere decisioni relative all'amministrazione delle risorse (v. Mandelker, 1986). Gli amministratori devono raccogliere informazioni sull'impatto ambientale dei programmi di sviluppo che vengono proposti e prendere in esame le alternative, compresa quella di nonsviluppo. Le organizzazioni ambientaliste e gli altri enti pubblici o privati interessati hanno diritto di partecipare a queste procedure e di fornire informazioni e commenti. Gli amministratori pubblici devono giustificare mediante una relazione dettagliata la decisione presa sulla base di quanto è emerso da tali procedure. Decisioni e procedure possono essere oggetto di azioni giudiziarie da parte di gruppi ambientalisti e di altre parti interessate. L'impegno è di fornire un contrappeso alle pressioni per lo sviluppo e di sostenere le istanze dei progressisti obbligando gli amministratori a prendere in considerazione l'insieme delle alternative possibili e degli interessi coinvolti. Benché tale procedimento abbia ottenuto un discreto successo e goda di un favore generalizzato, esso comporta costi e ritardi notevoli e talvolta spinge a fare un uso illecito dei procedimenti legali a scopo di ostruzione.
Una terza risposta al fallimento del sistema di proprietà pubblica negli Stati Uniti è costituita dalla regolamentazione dell'uso privato di risorse pubbliche, allo scopo di garantire la tutela dell'ambiente. Gli esempi comprendono le richieste di bonifica legate alle estrazioni minerarie su terreni federali e, per la prevenzione di immissioni inquinanti, i controlli sulle piattaforme petrolifere marine. In questi casi l'appropriazione privata delle risorse pubbliche viene riconosciuta in modo esplicito, e tali attività private vengono sottoposte a controllo mediante lo stesso meccanismo di regolamentazione che viene applicato nei confronti delle imprese interamente private. I difetti e i limiti propri del modello di proprietà e di amministrazione pubbliche per la tutela dell'ambiente si riflettono anche nell'esperienza delle economie socialiste, dove lo Stato ha la proprietà della maggior parte delle terre, delle imprese industriali e delle altre risorse produttive. In teoria le finalità di tutela dell'ambiente possono essere stabilite e poste in effetto a livello centrale, assieme ad altre finalità socialmente importanti, dai funzionari pubblici che amministrano quelle risorse. In pratica le decisioni degli amministratori delle imprese socialiste sono influenzate anche da altri scopi, quale il raggiungimento della loro quota di produzione, e le considerazioni ambientali vengono sacrificate quando entrano in conflitto con questi scopi diversi (v. Goldman, 1972). Per correggere il disinteresse degli amministratori per i valori ambientali, le autorità centrali devono essere disposte a formulare e applicare direttive che limitino la discrezionalità degli amministratori, cosa che spesso non sanno o non vogliono fare. L'incidente nucleare di Černobyl mostra alcuni dei problemi che si presentano quando si voglia realizzare obiettivi di tutela ambientale in un sistema socialista. Non è sorprendente che i risultati dei regimi socialisti in materia ambientale siano molto peggiori di quelli raggiunti dai regimi a economia di mercato (v. Brown, 1987, cap. 10).
La regolamentazione è il sistema prevalentemente usato dai governi per la tutela dell'ambiente. La proprietà delle risorse e la responsabilità delle decisioni relative alla loro utilizzazione sono fondamentalmente conferite a privati o ad autorità pubbliche subordinate. Il governo, però, si serve di norme e disposizioni per disciplinare le decisioni relative alle risorse eventualmente prese dai proprietari. La regolamentazione è usata per sottoporre a controllo l'inquinamento, garantire la sicurezza nel trattamento e nell'eliminazione delle scorie tossiche, proibire o limitare la produzione e l'uso di sostanze chimiche pericolose, disciplinare l'uso dei terreni, impedire o modificare progetti di sviluppo che potrebbero causare danni all'ambiente (v. Stewart e Krier, 1978², cap. 4).
Esistono due tipi fondamentali di regolamentazione. Il primo consiste nello stabilire degli standard generali, applicabili a una categoria di attività, e così imporre o proibire un dato comportamento. Come esempi possiamo citare gli standard relativi agli scarichi che producono inquinamento dell'aria o dell'acqua, applicabili a diversi tipi di impianti industriali o a prodotti quali le automobili, nonché l'individuazione degli usi del terreno. Le decisioni circa l'utilizzazione delle singole risorse devono essere conformi a questi requisiti generali. Gli standard sono di due tipi: quelli relativi alla qualità dell'ambiente e quelli tecnologici. I primi basano i controlli sul raggiungimento di determinati livelli qualitativi dell'ambiente stesso, per esempio gli standard in materia di qualità dell'aria fissano la concentrazione massima di inquinamento nell'ambiente-aria. Pertanto devono essere controllate le immissioni delle fonti di inquinamento per mantenerle entro i limiti stabiliti per una certa zona. Gli standard tecnologici, invece, non hanno lo scopo di raggiungere un determinato livello di qualità dell'ambiente, ma impongono alle fonti di inquinamento di adottare determinate tecnologie o di raggiungere determinati livelli di controllo, stabiliti in base a ciò che è tecnologicamente possibile ed economicamente accettabile.
La seconda strategia di base della regolamentazione consiste nell'esame caso per caso di determinati prodotti o progetti di sviluppo per verificarne la conformità a criteri generali, quale ad esempio l'assenza di 'rischi irragionevoli'. Progetti e prodotti vengono presi in esame individualmente sul piano amministrativo: vengono approvati quelli conformi ai criteri stabiliti e proibiti quelli che non lo sono. Sia la determinazione di standard che gli esami caso per caso vengono spesso accompagnati da procedimenti di valutazione dell'impatto ambientale, del tipo di quelli descritti in precedenza. Questi procedimenti, che prendono in esame i rischi e i benefici di ogni nuovo prodotto o progetto così da stabilire delle confacenti politiche di regolamentazione, possono servire anche come importanti mezzi di valutazione tecnologica.
La regolamentazione è una strategia mista, che vuole mantenere i vantaggi delle decisioni circa l'uso delle risorse propri dei sistemi di mercato decentrati ma affida al governo il compito di imporre limiti alle decisioni dei privati, allo scopo di prevenire danni all'ambiente. La sfera d'intervento delle autorità di governo è più ristretta che nel caso della proprietà e del controllo diretti da parte del governo stesso, essendo finalizzata esclusivamente a quanto richiesto dagli obiettivi di tutela dell'ambiente. Dovendo tuttavia fondarsi su un processo decisionale - amministrativo e politico - centralizzato per superare i problemi dell'azione collettiva, la regolamentazione incontra molti degli stessi problemi operativi di raccolta delle informazioni che si devono affrontare nel caso della proprietà pubblica.Le difficoltà di un accordo politico portano spesso a delegare un margine sostanziale di discrezionalità agli amministratori, i quali nell'esercizio di tale discrezionalità potrebbero attribuire un peso eccessivo a considerazioni di parte o a interessi di gruppi di pressione. Vi è il fondato timore fra gli ambientalisti, soprattutto in Europa occidentale e in Giappone, che questi amministratori non siano sottoposti a controlli pubblici e politici adeguati e che siano troppo condizionati da interessi commerciali e di sviluppo, oppure abbiano troppo poca autorità per contrastare i settori dell'amministrazione pubblica che sostengono quegli interessi.
Negli Stati Uniti è stato fatto grande affidamento, per controllare queste tendenze, su controversie giudiziarie in forma contenziosa. Le organizzazioni ambientaliste, le autorità statali e locali e altri enti che operano per una maggiore tutela dell'ambiente hanno il diritto di partecipare ai procedimenti amministrativi per la determinazione degli standard o per l'esame di determinati prodotti o progetti, e possono ottenere una revisione giudiziaria delle decisioni amministrative a cui si oppongono. In base a norme legislative che danno ai cittadini legittimazione ad agire, questi possono spesso intentare un'azione legale contro gli enti responsabili della tutela dell'ambiente, forzandoli ad adottare e fare osservare i controlli di regolamentazione resi obbligatori per legge, e possono inoltre attuare direttamente tali controlli nei confronti di coloro che vi sono soggetti (v. Stewart e Krier, 1978², cap. 7). Poiché le imprese soggette a regolamentazione godono di diritti analoghi per opporsi agli standard e agli obblighi che ne risultano, le delibere in materia sono il risultato di un processo lungo, contorto e costoso. In Europa occidentale e in Giappone si è cercato di attribuire maggiori diritti ai difensori della tutela dell'ambiente, ma per ora senza grandi risultati.
Essendo la regolamentazione una forma specializzata di pianificazione e di ordinamento economico centralizzato, va incontro agli stessi problemi di informazione citati in precedenza in riferimento al sistema della proprietà pubblica. Nella regolamentazione basata su standard di qualità dell'ambiente, i funzionari devono non solo raccogliere informazioni e prendere decisioni sui livelli più opportuni di tale qualità, ma devono decidere anche sul grado di controllo da parte di ciascuna fonte necessario per garantire che tali standard siano rispettati. Per ridurre i costi delle decisioni centralizzate spesso vengono ignorate le varianti relative alle situazioni ambientali locali, con il risultato che gli standard sono geograficamente uniformi, ma spesso inadeguati dal punto di vista ambientale.La situazione è ancora più rigida nel caso degli standard tecnologici, che non prendono in considerazione le condizioni ambientali e basano i requisiti di controllo direttamente sul costo e sulla fattibilità tecnica. Questi requisiti sono in genere uniformi per le varie categorie delle fonti di inquinamento industriale. Ignorando le differenze di condizioni ambientali, nonché la distanza o la concentrazione delle fonti in aree geografiche diverse, essi producono livelli di controllo eccessivi in alcune aree (relativamente agli obiettivi di tutela dell'ambiente) e insufficienti in altre.
Poiché, inoltre, tali requisiti non prendono in considerazione (a causa di problemi di informazione) le variazioni di costo del controllo nelle diverse categorie delle fonti di inquinamento, il costo di realizzazione di un dato livello di depurazione è molto più elevato di quanto non sarebbe se l'allocazione dei controlli si basasse su valutazioni riguardanti la redditività dei costi: in questo caso, le fonti i cui costi di controllo sono relativamente bassi dovrebbero accollarsi una parte maggiore di depurazione. A causa di questi problemi di informazione è risultato assai difficile conseguire, anche nell'ambito dell'impostazione di standard ambientali, un'allocazione dei controlli basata sulla redditività dei costi. Gli Stati Uniti spendono ogni anno più di 50 miliardi di dollari per controllare l'inquinamento dell'aria e dell'acqua attraverso standard di regolamentazione. Se le mansioni di controllo fossero assegnate in base alla redditività dei costi, tali costi sarebbero ridotti del 50% o più (v. Ackerman e Stewart, 1985). È inoltre difficile per i funzionari modificare opportunamente gli standard in seguito a nuove informazioni o a mutamenti di situazione di un certo peso. Pertanto, le rigidità caratteristiche degli standard centralizzati fanno sì che i requisiti di controllo siano spesso inadeguati e inutilmente onerosi. In teoria un esame caso per caso potrebbe evitare le rigidità degli standard. Ma un esame centralizzato comporta enormi costi di informazione e di scelta che spesso paralizzano le risorse amministrative. Per esempio, l'attuazione della legge per il controllo delle sostanze tossiche negli Stati Uniti (United States toxic substances control act), che prevedeva l'esame amministrativo centralizzato di decine di migliaia di sostanze chimiche nuove o già esistenti, è stata un fallimento quasi completo.
La regolamentazione inoltre, sia che si basi su standard sia su valutazioni caso per caso, spesso non è in grado di fornire gli incentivi necessari per il rinnovamento e per gli investimenti. Lo sviluppo da parte dell'industria di prodotti e procedimenti nuovi, migliori dal punto di vista ambientale e addirittura superiori agli standard attuali, non viene premiato e talvolta porta solo all'imposizione di vincoli più stretti. Negli Stati Uniti il tentativo di 'forzare' la tecnologia basando gli standard di regolamentazione sulle previsioni relative al futuro stadio di sviluppo tecnologico non ha avuto molto successo. Anzi, sembra provato che la regolamentazione e i controlli scoraggino in maniera spropositata gli investimenti e l'aumento della produttività, imponendo oneri eccessivi su nuovi prodotti, impianti e progetti di sviluppo (v. Stewart, 1981).
Queste carenze della regolamentazione sono più gravi negli Stati Uniti e spiegano la grande ostilità nei confronti della regolamentazione e le controversie cui ha dato luogo. Le dimensioni degli Stati Uniti, la scarsa fiducia negli amministratori pubblici, la natura conflittuale dei rapporti tra governo e mondo degli affari e il frequente ricorso ai tribunali contribuiscono ad acuire le disfunzioni della regolamentazione centralizzata. Le altre democrazie industriali hanno dimensioni più piccole; gli standard di regolamentazione vengono fissati attraverso consultazioni informali fra imprese e amministratori pubblici, che godono in genere di rispetto e fiducia, per cui le controversie giudiziarie sono piuttosto rare. I difensori delle istanze ambientaliste sostengono che tali procedimenti di accordo informale, da cui vengono di solito esclusi, conducono spesso a scelte che favoriscono indebitamente le imprese. Ma non è affatto dimostrato che il procedimento più formale e conflittuale in vigore negli Stati Uniti, che attribuisce diritti di partecipazione e di controllo ai tutori delle istanze ambientaliste, ma consente altresì alle imprese di usare le vie legali per ritardare e abbassare gli standard di regolamentazione, si traduca a conti fatti in una migliore tutela dell'ambiente (v. Vogel, 1986).
Nonostante i difetti di questo sistema, anche negli Stati Uniti vi è ancora scarsa volontà di abbandonare la regolamentazione a favore di altri mezzi per realizzare la tutela dell'ambiente. La maggior parte della regolamentazione, esplicitamente o di fatto, è di tipo tecnologico e mira a costringere l'industria a usare metodi di controllo tecnologicamente accessibili ed economicamente convenienti. Questa impostazione di fondo è stata generalmente accettata dai funzionari pubblici, dall'industria e da molti difensori dell'ambiente come un compromesso ragionevole e praticabile fra obiettivi economici e ambientali. In una prospettiva a breve termine questo risultato è senz'altro convincente, ma considerando la situazione nel lungo periodo l'impostazione tecnologica è meno persuasiva; infatti, è molto costosa e tende a ritardare le innovazioni che sarebbero auspicabili dal punto di vista sia economico che ambientale. Essa impedisce inoltre una intelligente determinazione delle priorità. L'obbligo di effettuare in modo indiscriminato tutti i controlli tecnologicamente possibili per ridurre i rischi ha costituito forse una strategia ragionevole nei primi anni settanta, quando si riteneva che l'inquinamento e gli altri problemi ambientali fossero molto gravi e pochi di numero. Ma con la maggiore conoscenza della grande varietà di rischi ambientali, compresi quelli prodotti da centinaia di industrie chimiche, è divenuto sempre più chiaro che un'imposizione indiscriminata di controlli tecnologici totali su tutti i rischi non è né possibile né giusta. Devono essere fatte delle scelte e la regolamentazione tecnologica non fornisce indicazioni utili in questo senso.
Gli incentivi economici costituiscono un altro strumento istituzionale per la promozione della tutela dell'ambiente, che merita sempre maggiore attenzione via via che si manifestano più chiaramente i difetti della regolamentazione, almeno sul lungo periodo (v. Schelling, 1983). L'utilizzazione di tali incentivi è stata finora limitata, ma l'esperienza sembra promettente.La regolamentazione rende obbligatori o proibisce determinati risultati, imponendo o vietando determinati comportamenti. Gli incentivi economici impongono livelli diversi di penali pecuniarie per attività che danneggiano (ad esempio, una tassa su ogni unità di inquinamento che viene emessa), mentre premiano quelle che favoriscono la tutela dell'ambiente (ad esempio, un premio per ciascuna unità di inquinamento eliminata). Gli economisti hanno da lungo tempo sostenuto l'uso di incentivi economici piuttosto che la regolamentazione. Gli incentivi economici riescono a ottenere una riduzione dell'inquinamento a costi inferiori rispetto a quelli della regolamentazione, perché lasciano alle imprese una certa elasticità nel decidere in che misura esercitare il controllo. Chi può eliminare l'inquinamento a costi relativamente bassi lo farà di più e pagherà meno tasse o riceverà premi in maggior quantità. Chi invece ha costi di depurazione elevati lo farà di meno e pagherà più tasse o riceverà meno in premi. Tali incentivi forniscono inoltre alle imprese uno stimolo economico continuo a sviluppare e adottare nuovi procedimenti e prodotti superiori dal punto di vista ambientale.
In realtà, l'uso di premi o altri incentivi a sostegno della tutela ambientale è stato per vari motivi limitato o nullo. Infatti, un sistema di premi richiederebbe una spesa pubblica notevole, avrebbe il risultato perverso di sovvenzionare le attività che comportano rischi maggiori per l'ambiente e porrebbe il problema di impedire la possibilità di 'ricatti' da parte delle imprese la cui attività è dannosa per l'ambiente e che quindi potrebbero esigere un sussidio per ridurla. Molti governi hanno concesso agevolazioni fiscali o sovvenzioni all'industria per contribuire a far fronte ai costi legati ai controlli di regolamentazione ambientale. Ma queste misure non possono considerarsi veri incentivi economici: non forniscono alcuno stimolo al controllo e hanno soltanto lo scopo di alleggerire il peso dei requisiti imposti dalla regolamentazione. L'OCSE si è opposta a tali misure in quanto introdurrebbero distorsioni ingiustificate nella concorrenza, e ha sostenuto il principio che 'l'inquinatore paga' (polluter pays), cioè chi inquina deve sopportare l'onere economico dei controlli.Benché le sovvenzioni governative per il controllo dell'inquinamento non siano scomparse del tutto, oggi vengono utilizzate meno di quando furono introdotti per la prima volta i principali standard di regolamentazione, e vanno intese soprattutto come misure transitorie.
Gli incentivi economici negativi, quali tasse o tariffe sull'inquinamento, evitano la necessità di spese pubbliche e possono al contrario essere una fonte di entrate. Inoltre forniscono ai consumatori un incentivo a indirizzare gli acquisti verso beni alla cui produzione o uso è legato un minore degrado ambientale; i produttori di tali beni pagheranno meno tasse e i loro prezzi dovrebbero di conseguenza essere inferiori. I sistemi d'incentivazione economica, inoltre, richiedono alle autorità una minore raccolta ed elaborazione delle informazioni. Non occorre che i funzionari decidano il livello di controllo richiesto per ogni fonte di inquinamento, ma soltanto il livello complessivo degli incentivi (per esempio, il livello di una tassa sull'inquinamento). Le decisioni sulla misura del controllo da effettuare vengono decentrate; ogni impresa valuta i suoi costi di controllo rispetto al livello della tassa e sceglie il livello di controllo che minimizza i suoi costi totali (costi di controllo e pagamenti di tasse). Non vi è discriminazione nei confronti di nuove fonti e vengono minimizzati gli svantaggi dell'innovazione e degli investimenti. I funzionari dovranno, tuttavia, essere in possesso di una mole notevole di informazioni per potere scegliere il livello di tassazione in grado di promuovere nel modo più efficace la tutela dell'ambiente, evitando al contempo danni economici. Devono avere inoltre informazioni precise sugli scarichi inquinanti.
È stato fatto soltanto un uso limitato di tariffe o tasse per la tutela dell'ambiente, ma l'esperienza si è dimostrata relativamente positiva (v. OCSE, 1980). Tariffe per il trattamento dell'inquinamento dell'acqua, basate sul volume e sulla tossicità dei rifiuti, sono state utilizzate ampiamente nella Repubblica Federale Tedesca e in misura minore negli Stati Uniti e in molti altri paesi. Queste tariffe, che hanno effetti equivalenti a quelli di una tassa sull'inquinamento, hanno stimolato lo sviluppo di tecnologie meno inquinanti e hanno spinto gli inquinatori a effettuare un'allocazione delle attività di depurazione basata maggiormente sulla redditività dei costi. Sia i Paesi Bassi che il Giappone hanno imposto tasse sull'inquinamento dell'aria, e la Repubblica Popolare Cinese sta introducendo un sistema di tasse sull'inquinamento. Il sistema giapponese è in vigore da circa 15 anni e sembra che abbia notevoli effetti di incentivazione. La regolamentazione, tuttavia, resta il sistema più usato per affrontare la maggior parte dei problemi di inquinamento nel mondo.
Diverse ragioni contribuiscono a spiegare perché l'uso di tasse e tariffe sia stato così limitato. L'industria si oppone perché esso impone pagamenti per tutti gli scarichi, mentre in base al sistema della regolamentazione gli scarichi non vietati sono gratuiti. Gli ambientalisti spesso si oppongono perché è incerto quale sia il livello di depurazione che una data tariffa potrà far raggiungere. Questa circostanza, unita al timore che imprese ricche possano semplicemente scegliere di continuare a inquinare, pur pagando, piuttosto che depurare, crea il pericolo di livelli di inquinamento o di degrado ambientale troppo elevati. Infine, si teme che le tecnologie e le capacità di monitoraggio non siano in grado di prevenire le frodi da parte di molte industrie.
Molte delle obiezioni al sistema delle tariffe possono essere superate ricorrendo al sistema delle autorizzazioni trasferibili, che combina alcune delle caratteristiche più positive della regolamentazione e degli incentivi economici (v. Ackerman e Stewart, 1985). Il governo stabilisce la quantità totale di inquinamento (o altri indici di degrado ambientale) consentita e rilascia autorizzazioni in conformità di quel totale. Le autorizzazioni possono essere messe all'asta tra le industrie. Se ciò risulta politicamente discutibile, in quanto equivalente a una nuova tassa, le autorizzazioni possono essere semplicemente concesse a coloro che già detengono permessi nell'ambito della regolamentazione. Le autorizzazioni, inoltre, possono anche essere acquistate e vendute liberamente. Poiché si tratta di beni scarsamente disponibili, dovranno avere un prezzo elevato. Dal punto di vista di ciascuna impresa questo prezzo equivale a una tassa o a una tariffa che crea un incentivo continuo a depurare senza gravare inopportunamente sulle innovazioni e sugli investimenti. Poiché il prezzo è uguale per tutte le imprese, le spese di depurazione saranno distribuite secondo criteri di redditività dei costi. Poiché tuttavia il numero totale di autorizzazioni è fisso, anche la quantità totale di inquinamento rimane fissa.
Il sistema delle autorizzazioni trasferibili risolve efficacemente anche il problema di mantenere la qualità dell'ambiente senza rinunciare alla crescita economica. In un sistema di regolamentazione il livello di inquinamento permesso a ciascun impianto deve essere continuamente ridotto per far posto a nuovi impianti, mentre tariffe e tasse devono essere continuamente aumentate. In un sistema di autorizzazioni trasferibili il mercato adegua automaticamente il loro prezzo aumentandolo secondo l'aumento della domanda.Gli Stati Uniti hanno adottato un sistema di autorizzazioni trasferibili per contenere l'inquinamento atmosferico. Pur rimanendo soggette a determinate condizioni di regolamentazione, le fonti di inquinamento esistenti possono trasferire le autorizzazioni a nuove fonti e possono anche accordarsi per redistribuire fra di loro i requisiti di controllo. Inoltre, gli impianti possono ridurre le immissioni di unità già esistenti per aggiungere nuove unità. Questi programmi di riorganizzazione delle immissioni hanno determinato notevoli risparmi e incoraggiato nuovi investimenti senza aumento delle immissioni totali (v. Tietenberg, 1985).
Questi programmi, tuttavia, non sono stati esenti da critiche. L'industria teme che il mercato possa non funzionare sufficientemente bene perché siano garantiti permessi in numero sufficiente per i nuovi impianti. Molti ambientalisti temono che la flessibilità introdotta dagli incentivi economici li renda istituzionalmente meno affidabili della regolamentazione nel garantire un dato livello di controllo. Le capacità di controllo e di imposizione sono spesso inadeguate, creando così il pericolo che il sistema degli incentivi economici porti a un inquinamento eccessivo. D'altra parte, l'inadeguatezza di questi fattori è anche alla base del mancato rispetto del sistema della regolamentazione. I timori degli ambientalisti nei confronti del sistema degli incentivi economici si basano su un solido fondamento teorico. I vantaggi economici degli incentivi sono il risultato del margine di flessibilità lasciato a coloro che inquinano nel decidere quanto controllo esercitare sull'inquinamento in considerazione dei prezzi; questa flessibilità crea incertezza e rende possibile anche l'evenienza che l'inquinamento totale sia maggiore del previsto o che le fonti inquinanti risultino tutte concentrate nella stessa regione, creando zone 'calde' per l'inquinamento.
Questi svantaggi devono essere valutati a fronte dei bassi costi di controllo e dello stimolo all'innovazione che gli incentivi economici forniscono. La conclusione dipenderà dal problema preso in esame. Se, per esempio, un agente inquinante arreca gravi danni se e soltanto se supera una determinata soglia, la regolamentazione potrà essere la misura più adatta ad assicurare che quella soglia non venga superata. La regolamentazione può inoltre essere più adatta quando si intende garantire il rispetto di misure specifiche volte a impedire che determinati eventi (ad esempio l'esplosione di un reattore nucleare) possano verificarsi. D'altra parte, per elementi inquinanti diffusi quali ossidanti fotochimici (smog) o piogge acide non sembra possibile stabilire soglie così nette. I costi di controllo sono tali che questi elementi inquinanti non possono essere totalmente proibiti; occorrono incentivi efficaci e a lungo termine, che portino a una loro continua riduzione mediante strumenti innovativi basati sul rendimento delle spese. In questo tipo di situazioni sono preferibili gli incentivi economici.
I sistemi misti rendono possibile combinare alcuni vantaggi degli incentivi economici e della regolamentazione. Un esempio di sistema misto che ha avuto successo negli Stati Uniti è quello dell'utilizzazione di opzioni di inquinamento commerciabili nell'ambito della struttura di regolamentazione della legge sull'inquinamento atmosferico (United States clean air act), e se ne potrebbero individuare molti altri. Così, problemi ricorrenti come quelli dello smog e delle piogge acide potrebbero essere affrontati combinando regolamentazione, per garantire un livello minimo basato sulla tecnologia disponibile, e tariffe o autorizzazioni di inquinamento trasferibili a costi progressivamente decrescenti per fornire incentivi a un'ulteriore depurazione a lungo termine. Una combinazione di oneri di deposito sulla produzione di scorie tossiche e di rimborsi a coloro che attuano una corretta eliminazione delle scorie potrebbe fornire alle imprese l'incentivo a denunciare la produzione di scorie e a rispettare le condizioni imposte dalla regolamentazione per il trattamento delle scorie piuttosto che eliminarle illegalmente.
Gli incentivi economici rendono necessario stabilire un indice quantitativo di rischio ambientale che possa servire da base per fissare una tariffa o rilasciare un permesso trasferibile. Un tale indice può essere individuato per la maggior parte dei problemi di inquinamento dell'aria e dell'acqua, ma l'impresa è più difficile nel caso di rischi derivanti da prodotti chimici. Ulteriori sviluppi nelle metodologie di valutazione del rischio dovrebbero, tuttavia, consentire la creazione di una tassa di rischio per i pesticidi e per altre sostanze chimiche. Molte decisioni relative all'uso dei terreni e allo sfruttamento delle risorse naturali implicano un gran numero di variabili complesse. Questi problemi dovranno in buona parte continuare a essere affrontati con il sistema della valutazione caso per caso proprio della regolamentazione, ma dovrebbe essere possibile individuare sistemi di incentivazione economica da applicare a quasi tutti i problemi ambientali affrontati attualmente con gli standard di regolamentazione.
È probabile che in futuro verrà fatto un uso maggiore degli incentivi economici via via che i difetti della regolamentazione centralizzata diverranno più evidenti. Gli standard di regolamentazione di tipo tecnologico hanno rappresentato una risposta a breve termine comprensibile e ragionevole di fronte al diffondersi di preoccupazioni per i problemi ambientali verificatosi negli ultimi vent'anni. Questi problemi non scompariranno; richiederanno soluzioni a lungo termine, nell'ambito delle quali gli incentivi economici svolgeranno un ruolo importante. Il sistema degli incentivi risulterà più adatto ai paesi che si basano prevalentemente sul mercato per disciplinare le attività economiche in generale. Ma è significativo che nelle nuove leggi sull'ambiente della Repubblica Popolare Cinese gli incentivi economici abbiano un ruolo importante. L'attuale rinascita di interesse per i vantaggi complessivi dell'economia di mercato dovrebbe creare un clima favorevole all'uso di incentivi economici per la tutela dell'ambiente, legando gli incentivi al profitto a nuovi obiettivi sociali ed evitando che inutili oneri gravino su innovazioni e investimenti.
Per motivi di chiarezza concettuale abbiamo analizzato separatamente i quattro principali strumenti istituzionali per la tutela dell'ambiente. In realtà, la maggior parte dei governi utilizza una combinazione di tutti e quattro i sistemi. Il coordinamento fra queste diverse misure è spesso essenziale alla loro efficacia e per ottenere un miglioramento complessivo dell'ambiente. Per esempio, i problemi del rifornimento idrico, del controllo dell'inquinamento e del trattamento delle acque dovrebbero essere affrontati congiuntamente, insieme alle decisioni circa l'uso del territorio e le dislocazioni industriali (v. Miller e Wood, 1983). Un trattamento efficace delle scorie richiederà non soltanto controlli di regolamentazione sulle eliminazioni improprie, ma anche incentivi economici e altre misure che incoraggino il riciclaggio, la minimizzazione degli sprechi e l'utilizzazione dei residui industriali da parte di altre industrie situate nelle vicinanze. Devono essere presi in considerazione gli effetti globali delle misure di controllo dell'inquinamento su tutto il patrimonio ambientale. Sforzi miopi di prevenzione del degrado in un settore possono semplicemente spostare il problema su un altro: il controllo sull'inquinamento dell'aria produce rifiuti solidi che possono contaminare le acque sotterranee; l'incenerimento di rifiuti solidi può produrre inquinamento atmosferico. Le misure di controllo devono essere coordinate per ottenere risultati complessivi migliori.
Esistono inoltre importanti problemi di conflitto e di coordinamento tra gli obiettivi di tutela ambientale e altre attività pubbliche il cui scopo non è la tutela dell'ambiente pur avendo conseguenze ambientali significative. Fra gli esempi di tali attività vi sono i programmi per l'agricoltura; i rifornimenti di energia; i rifornimenti idrici; le autostrade, gli aeroporti e altre infrastrutture nel settore dei trasporti; i problemi delle abitazioni e dello sviluppo urbano. Gli uffici pubblici responsabili di questi programmi sono poco incentivati a porre sotto controllo e limitare i loro effetti negativi sull'ambiente; si determina così una esternalità dei costi di tipo burocratico della tutela ambientale.
Una possibile soluzione a questo problema è di imporre una regolamentazione ambientale rigida agli uffici addetti allo sviluppo. Negli Stati Uniti, ad esempio, i progetti del governo federale che minacciano specie in pericolo sono proibiti per legge. Ma tali misure sono oggetto di controversie politiche e potrebbero entrare in conflitto con la flessibilità richiesta dai programmi di sviluppo. Una soluzione meno restrittiva consiste nel richiedere agli uffici addetti allo sviluppo di valutare dal punto di vista ambientale i progetti proposti e le diverse alternative, e di raccogliere i pareri di altri uffici governativi e dell'opinione pubblica sulle scelte da compiere. Le procedure di valutazione ambientale, sviluppate inizialmente negli Stati Uniti, sono state adottate in diversi altri ordinamenti, compreso quello della Comunità Europea. Nella migliore delle ipotesi tali procedure possono sensibilizzare gli uffici addetti allo sviluppo ai problemi di impatto ambientale, consentire ai gruppi ambientalisti di divulgare e influenzare le scelte di questi uffici, e promuovere il coordinamento tra i programmi dei vari uffici addetti alla tutela dell'ambiente e allo sviluppo (v. Mandelker, 1986). Nella peggiore delle ipotesi esse serviranno a utilizzare tempo e altre risorse per orientare razionalmente quelle decisioni in materia di sviluppo che non abbiano tenuto conto dei problemi ambientali. Nel complesso tali procedure hanno avuto un discreto successo.
All'inizio degli anni settanta, quando in tutto il mondo i problemi legati alla tutela ambientale divennero di interesse pubblico, l'argomento centrale del dibattito era costituito dai 'limiti allo sviluppo'. Alcuni studiosi sostenevano la necessità di imporre immediatamente un freno alla crescita della popolazione, all'uso di energia e allo sviluppo economico, allo scopo di prevenire uno scontro malthusiano tra l'avidità degli uomini, sempre crescente, e la quantità di risorse naturali, che è fissa (v. Meadows, 1972). Tuttavia, c'era chi criticava la tesi dei 'limiti allo sviluppo' sostenendo che le innovazioni tecnologiche avevano e avrebbero ancora consentito agli esseri umani di fare un uso sempre più efficace delle risorse limitate, e che una crescita economica ininterrotta è essenziale al benessere dell'uomo (v. Beckerman, 1975). Nonostante tale critica, l'idea della conflittualità tra obiettivi ambientali ed economici era largamente diffusa. Tale convinzione si riflette in molte delle prime misure di regolamentazione ambientale.
Alcuni ambientalisti, invocando argomenti quali 'l'economia a tasso costante', 'l'etica della terra' e 'l'ecologia profonda', sostenevano la necessità del blocco della crescita economica e sollecitavano cambiamenti radicali negli atteggiamenti e negli accordi economici allo scopo di incoraggiare gli esseri umani ad abbandonare la propria hybris e a vivere in armonia con le altre specie e gli altri ecosistemi (v. Daly, 1980). In alcuni casi il sostegno ai valori ambientali, patrocinato da movimenti politici come i Verdi, si accompagnava all'ostilità nei confronti del capitalismo e della burocrazia, alla difesa dei diritti civili e a vaghi programmi di socialismo comunitario. Altri ambientalisti sollecitavano modifiche strutturali nelle tecnologie, compresa la sostituzione di fonti decentrate di energie alternative, come quelle solare ed eolica, alle fonti centralizzate di energia tradizionale, come la produzione di energia elettrica mediante combustibile fossile o nucleare (v. Lovins, 1977). Questi programmi possono aver contribuito a risvegliare l'interesse popolare per i problemi dell'ambiente. I Verdi continuano a essere una forza politica attiva, anche se marginale, in alcuni paesi. In altri il governo ha fornito un limitato sostegno allo sfruttamento dell'energia solare e ad altre nuove tecnologie nel settore energetico per motivi ambientali. Per altri aspetti, tuttavia, tali proposte hanno conseguito scarsi risultati.
Oggi sembra che gli obiettivi economici e quelli ambientali comincino a essere considerati complementari e non più in conflitto (v. Speth, 1985). Le enormi spese sostenute dagli Stati Uniti per la depurazione delle scorie tossiche e la perdita di terre coltivabili e di foreste nei paesi in via di sviluppo a seguito di un uso eccessivo di queste risorse hanno messo in evidenza i costi economici e umani connessi al disinteresse per le conseguenze sull'ambiente. È chiaro altresì che l'unica possibilità di sostituire le tecnologie restrittive dal punto di vista ambientale con altre non solo più appropriate, ma che facciano migliore uso di terre coltivabili, fonti energetiche e altre risorse naturali disponibili in quantità limitata, consiste nell'innovazione tecnologica e in nuovi investimenti. I paesi in via di sviluppo dovranno svilupparsi economicamente anche per evitare la distruzione continuata delle terre coltivabili e delle foreste da parte dei loro cittadini ridotti in povertà.
Secondo la posizione che sta acquistando i maggiori consensi, un uso saggio delle risorse è giusto anche dal punto di vista dell'economia. Lo sviluppo basato sull'abuso delle risorse non è più sostenibile. Si ritiene, inoltre, che investimenti appropriati e crescita economica siano essenziali se si vogliono evitare tali abusi e tutelare l'ambiente in modo efficace. Questa posizione si basa, però, sull'ottimismo tecnologico (v. Krier e Gillette, 1986), e per riuscire a metterla in pratica dovranno essere superate difficoltà sia politiche che istituzionali.
La scelta fra ordinamenti diversi per affrontare i diversi problemi ambientali non comporta solo un'analisi puramente strumentale circa il modo migliore per realizzare obiettivi di tutela ambientale, ma solleva anche questioni controverse di natura etica e politica (v. McCloskey, 1983). La principale obiezione contro l'uso di incentivi economici per la tutela dell'ambiente è di carattere etico. Si sostiene che la vita umana e l'integrità ecologica sono valori inestimabili, che non devono essere corrotti dal mercato. Gli incentivi economici, riducendo la tutela dell'ambiente a un calcolo economico, compromettono diritti fondamentali e consentono a imprese potenti di ottenere il permesso di infliggere un danno semplicemente pagando una tariffa (v. Kelman, 1981). Queste tesi vengono spesso addotte come argomenti in favore della regolamentazione: lo Stato dovrebbe assolutamente stabilire quali sono i diritti nei confronti di salute e ambiente che i soggetti economici devono rispettare e costringerli a farlo. Inoltre, soprattutto negli Stati Uniti, è stato stabilito il principio che i diritti ambientali possono giustificare delle iniziative giudiziarie, sia di diritto privato che pubblico, per promuovere la tutela dell'ambiente. Queste tesi sono insostenibili. Ignorano come sia impossibile stabilire dei valori assoluti nel campo della tutela dell'ambiente e confondono fini e mezzi. Ogni attività produttiva dell'uomo comporta un rischio ambientale, anche se spesso è un rischio ridotto. A meno che l'uomo non debba essere l'unica specie a cui sia proibita ogni potenziale alterazione dello status quo ecologico (nel qual caso le attività umane dovrebbero cessare), la scelta da compiere dovrà essere tra rischi maggiori o minori. Non vi è una linea di demarcazione netta tra 'sicuro' e 'insicuro'. La scelta fra i diversi livelli di rischio e i corrispondenti livelli di tutela dell'ambiente dovrà in ultima analisi mettere sulla bilancia finalità ambientali e altri obiettivi e valori. In un sistema democratico tali scelte dovrebbero essere fatte attraverso meccanismi politicamente responsabili e affidabili, lasciando quindi al potere giudiziario un ruolo sussidiario e relativamente modesto. Il compromesso, una volta raggiunto, può essere attuato in modi diversi, che comprendono anche l'uso degli incentivi economici. Se il potere legislativo o un'altra autorità politica responsabile fissa il livello di una tassa sull'inquinamento o il numero totale dei permessi trasferibili da rilasciare, è questa autorità e non il mercato a stabilire in che misura la salute o la purezza dell'ambiente debbano essere sacrificate a favore di considerazioni economiche. Il mercato diviene semplicemente un mezzo per l'attuazione di tale decisione. È vero che chi paga una tariffa o acquista un permesso compra una licenza d'inquinamento, ma è anche vero che in base al sistema della regolamentazione il governo rilascia tali licenze gratuitamente.
Molti ritengono che aree di eccezionale valore paesaggistico, quale il Grand Canyon, debbano appartenere ed essere amministrate dallo Stato affinché siano preservate in nome dell'intera nazione. Questa idea, che è alla base del programma di conservazione ambientale dei progressisti, si fonda in parte sulla premessa che la proprietà pubblica proteggerà tali aree meglio delle varie forme di proprietà privata. Come indicato prima, studi teorici ed empirici recenti hanno messo fortemente in dubbio tale premessa. Ma la preferenza per la proprietà pubblica si basa anche sul concetto etico secondo cui tali aree sono un simbolo della nazione, rappresentano una parte importante dei suoi beni culturali e devono quindi appartenere alla nazione nell'interesse dell'intera popolazione. Questa posizione è molto diffusa negli Stati Uniti e contribuisce a perpetuare il paradosso della proprietà pubblica di vaste aree di terra in un paese fautore fervente della proprietà privata e del mercato, mentre è molto meno condivisa in Europa, dove cattedrali, musei, tenute, palazzi e altri elementi importanti dei beni culturali della nazione sono spesso in mano privata. L'esperienza europea suggerisce che gli Stati Uniti potrebbero trovare vantaggiosa l'adozione di sistemi misti di proprietà pubblica/privata, quale il National Trust in Inghilterra, per promuovere i valori della tutela ambientale. Le scelte istituzionali hanno anche importanti conseguenze politiche. La scelta e l'attuazione di una politica di tutela ambientale che si realizzi attraverso determinate istituzioni piuttosto che altre possono influire sull'equilibrio strategico fra i vari gruppi di interesse che vi partecipano e favorire certi risultati al posto di altri. Tali conseguenze cominciano soltanto ora a essere oggetto di studio sistematico, anche se è già possibile formulare alcune osservazioni provvisorie.
Gli ambientalisti hanno in genere considerato con favore la proprietà pubblica e la regolamentazione, ritenendo che proprio il sistema della proprietà privata e il mercato abbiano creato i problemi ambientali e che non si possa dunque fare affidamento su di essi per risolverli; essi ritengono dunque necessario il controllo pubblico per controbilanciare il potere dell'economia privata. Fino agli anni sessanta questo punto di vista si basava sulla fiducia che lo Stato avrebbe agito nell'interesse generale. Oggi vi è maggiore consapevolezza dei problemi dell'azione collettiva e della rappresentanza, e pertanto del pericolo di decisioni pubbliche che riflettano interessi privati sia economici che ideologici e burocratici. Tali problemi hanno avuto come conseguenza, soprattutto negli Stati Uniti, non tanto una diminuita fiducia nella proprietà pubblica e nella regolamentazione, quanto l'elaborazione di nuove tecniche di diritto pubblico per il controllo del processo decisionale governativo, in modo da garantire che vi sia una maggiore aderenza agli interessi ambientali. La materia di tali tecniche di 'legalizzazione' dovrebbe comprendere: l'imposizione agli amministratori pubblici dell'uso di procedure di valutazione dell'impatto ambientale; l'aumento dei diritti di partecipazione collettiva alle decisioni amministrative che hanno effetti sull'ambiente; la garanzia a gruppi ambientalisti, ai residenti nelle località interessate e ad altre parti aventi interesse legittimo, di ottenere una revisione giudiziale delle scelte governative, in fatto di regolamentazione e di amministrazione, che hanno un impatto negativo sull'ambiente; un riesame giudiziale più attento delle decisioni amministrative discrezionali che hanno effetti sull'ambiente. Anche in diversi paesi dell'Europa occidentale e nella Comunità Europea sono stati fatti alcuni passi verso l'adozione di queste procedure.
I fautori della 'legalizzazione' sostengono che vi sia la tendenza a perdere di vista gli obiettivi definiti dalle leggi ambientali durante la fase della loro attuazione a livello amministrativo. Attribuiscono questo cedimento ai taciti compromessi tra uffici pubblici e industria da cui gli interessi ambientali vengono esclusi. Il risultato è che la domanda pubblica di tutela dell'ambiente viene filtrata attraverso interessi burocratici che riducono la risposta del governo entro termini praticamente simbolici. La legalizzazione mira a far rientrare gli interessi ambientali nel processo decisionale aprendolo alla revisione e all'esame della collettività. Esistono due obiezioni di fondo alla legalizzazione. La prima è data dal fatto che con essa si aprono numerose e costose possibilità di ostruzionismo e di ritardo e che essa indebolisce l'autorità e la responsabilità politiche del governo. Questa è la giustificazione che viene avanzata dal governo per opporsi alla legalizzazione in paesi quali il Giappone e la Gran Bretagna. Una seconda obiezione, legata alla prima, è che tale disciplina acuisce il problema dell'irresponsabilità del processo decisionale del governo, estendendo e formalizzando un sistema neocorporativo di influenza dei gruppi di interesse sotto la supervisione del potere giudiziario. Un uso maggiore di incentivi economici per la tutela dell'ambiente potrebbe fornire una parziale soluzione a questo dilemma. Tali sistemi contribuiscono ad assicurare una maggiore responsabilizzazione delle decisioni politiche, dato che il ruolo del governo è principalmente quello di stabilire il livello complessivo d'impegno e d'incentivazione, mentre l'attuazione specifica è affidata soprattutto a meccanismi privati di mercato. Viene così evitata la necessità di lasciare un ampio margine di discrezionalità agli amministratori pubblici nell'ambito della formulazione di dettagliate direttive regolamentari e delle scelte relative all'amministrazione delle risorse. Questa discrezionalità costituisce la base degli attuali problemi di gestione creati dalla tutela dell'ambiente.
È difficile realizzare un'efficace tutela dell'ambiente attraverso un sistema decentrato di Stati sovrani, a causa degli effetti diffusivi inquinanti transnazionali. Per evitare la rovina dei beni comuni transnazionali sono necessari accordi istituzionali federali o transnazionali. Gli effetti dell'inquinamento che interessano giurisdizioni di governi diversi presentano problemi simili a quelli derivanti dagli effetti che riguardano la proprietà privata. È necessaria un'azione collettiva affinché venga posto efficacemente rimedio al degrado ambientale. Gli effetti dell'inquinamento sono fondamentalmente di tre tipi. Innanzitutto gli effetti di tipo fisico, determinati dall'uso eccessivo delle risorse comuni, come un terreno per gli scarichi. In secondo luogo gli effetti sulla tutela dell'ambiente, che si determinano allorché il proprietario o lo Stato A distrugge un bene ambientale che si trova nel proprio ambito giurisdizionale, danneggiando il proprietario o lo Stato B che avrebbe voluto che quel bene fosse conservato. In terzo luogo gli effetti di tipo economico, creati dai tentativi di risolvere i problemi comuni di degrado ambientale attraverso un processo decisionale decentrato e non coordinato. Come abbiamo già visto nel caso dei proprietari che concorrono all'inquinamento di un bacino di aria o di acqua comune, nessun proprietario ridurrà unilateralmente l'inquinamento che produce perché non vi è alcuna garanzia che gli altri proprietari faranno altrettanto. L'autolimitazione unilaterale da parte di un proprietario gli porterà soltanto degli svantaggi nella sua competizione con gli altri. Nel caso di Stati il problema, pur fondato su analoghe basi logiche, è acuito dalla mobilità dell'industria tra aree politiche diverse. Se un certo Stato impone unilateralmente norme rigorose alle proprie industrie inquinanti, senza garanzia che anche gli altri Stati lo faranno, porterà degli svantaggi alle proprie imprese nella competizione con quelle di altri Stati. Alle industrie degli altri Stati ne deriva un vantaggio nella competizione, cioè un effetto economico positivo. Di conseguenza, uno Stato che imponga norme rigorose per la tutela dell'ambiente rischia una fuga delle proprie imprese verso altri Stati.
Poiché ogni Stato ragiona alla stessa maniera, nessuno adotterà controlli di regolamentazione, anche se sarebbe nell'interesse di tutti farlo. Di fatto, gli effetti economici creati dalla mobilità dell'industria potrebbero trattenere gli Stati dall'adottare energiche misure per la tutela del proprio ambiente, anche in assenza di effetti transnazionali di tipo fisico o relativi alla tutela dell'ambiente (v. Rehbinder e Stewart, 1985, cap. 1). Come avviene nel caso degli individui, il problema degli effetti diffusivi dell'inquinamento da uno Stato all'altro in teoria potrebbe essere risolto attraverso negoziati e accordi ad hoc, almeno nel caso in cui il numero degli Stati interessati sia piccolo. Ed effettivamente esistono casi di trattati o patti bilaterali, relativi a problemi ambientali, che hanno avuto successo. Le strategie di comportamento e lo stallo dei negoziati pongono problemi almeno altrettanto gravi nel caso degli Stati che in quello degli individui. Inoltre, molti effetti dell'inquinamento ambientale riguardano talmente tanti Stati da rendere la via bilaterale impraticabile. In tali situazioni sono necessarie forme di azione collettiva più strutturate e durature. Le scelte istituzionali di fondo sono le stesse già esaminate: decisioni giudiziarie, proprietà e amministrazione statali, regolamentazione e incentivi economici.
La soluzione giudiziaria, sia con forme privatistiche che pubblicistiche, delle controversie ambientali transnazionali incontra gravi difficoltà. Per le ragioni enunciate in precedenza, la soluzione giudiziaria è intrinsecamente inadatta ad affrontare i problemi degli effetti fisici dell'inquinamento, dato il numero solitamente elevato delle parti in causa, le incertezze scientifiche e le difficoltà nell'individuare rimedi attuabili ed efficaci. Questi problemi vengono acuiti nel contesto internazionale dalla questione delle riparazioni dovute per comportamenti tenuti in un ambito giurisdizionale che causino danni in un altro. Nonostante ciò, si sono registrati dei progressi nel garantire la non discriminazione e uguali diritti di ricorso, presso tribunali o autorità amministrative degli Stati da cui proviene l'inquinamento transnazionale, anche ai non residenti. Disposizioni riparatrici di diritto pubblico possono ridurre i problemi creati dal gran numero di parti in causa. In alcuni casi convenzioni bilaterali o multilaterali forniscono la base giuridica per poter prendere provvedimenti efficaci contro l'inquinamento transnazionale (v. OCSE, 1977). In mancanza di tali accordi, tuttavia, né il diritto privato né quello pubblico hanno offerto soluzioni realistiche alla maggior parte dei problemi di inquinamento transnazionale. Per le ragioni viste in precedenza in riferimento alle controversie di diritto privato, la soluzione giudiziaria risulta intrinsecamente inadatta a trattare gli interventi di tutela, e lo stesso si può dire per ciò che riguarda gli effetti economici dell'inquinamento. I tribunali, sia pure transnazionali, andrebbero incontro a gravi difficoltà nello stabilire la maniera migliore per rendere omogenei i controlli ambientali nei diversi Stati e i problemi di tutela sarebbero enormi.
Poiché nella maggioranza dei casi la proprietà e l'amministrazione delle risorse da parte di un'autorità transnazionale non appaiono una prospettiva realistica, le uniche soluzioni rimangono la regolamentazione e gli incentivi economici. Nei sistemi federali la soluzione generale alle ricadute ambientali che vanno al di là dei confini degli Stati membri, nelle aree in cui vi siano inquinamento e scorie tossiche, è stata l'adozione di misure comuni o uniformi di regolamentazione (v. Rehbinder e Stewart, 1985). Negli Stati Uniti si è riusciti a raggiungere un certo accordo trasferendo la responsabilità primaria della politica ambientale dai singoli Stati al governo federale. In sistemi federali con un numero minore di Stati, quali l'Australia, il Canada o la Repubblica Federale Tedesca, è stato possibile ottenere il necessario coordinamento fra gli Stati senza un grado così elevato di centralizzazione. La Comunità Europea ha adottato numerose norme per risolvere i problemi ambientali comuni. Così come è avvenuto in altri sistemi di tipo federale, tra le prime iniziative c'è stata l'adozione di misure uniformi di regolamentazione per certi prodotti, come quelli chimici, allo scopo di eliminare potenziali barriere commerciali create da regolamenti diversi degli Stati membri. Al momento attuale, tuttavia, la Comunità Europea sta prendendo in maggiore considerazione gli effetti di tipo fisico ed economico determinati dall'inquinamento dell'aria e dell'acqua e dalle scorie degli impianti industriali.
Molti problemi regionali di inquinamento e di sviluppo sono stati affrontati attraverso accordi multilaterali, spesso raggiunti sotto l'egida o con il patrocinio di autorevoli organizzazioni multinazionali (v. Boardman, 1981). Fra questi possiamo citare l'accordo fra i paesi europei per ridurre le immissioni di anidride solforosa, patrocinato dal Consiglio d'Europa, e il programma regionale di controllo degli scarichi inquinanti nel Mediterraneo, patrocinato dalle Nazioni Unite; un altro esempio è la Convenzione sullo sviluppo dell'Antartide. Questi accordi multilaterali affrontano un problema noto: la difficoltà che un numero elevato di Stati sovrani raggiunga un'intesa e riesca a ottenerne il rispetto, specie quando tale intesa può avere notevoli ripercussioni interne in materia fiscale e politica. La maggior parte delle organizzazioni internazionali che si occupano di tutela dell'ambiente (quale il Programma per l'Ambiente delle Nazioni Unite) godono di ben poca autorità. In genere non possono far altro che raccogliere dati e incoraggiare interventi da parte di Stati sovrani, non avendo neppure l'autorità di fare dichiarazioni o accogliere le proteste di uno Stato contro il degrado ambientale prodotto da un altro.
Molti problemi ambientali interessano l'intero pianeta e sono ovviamente i più ardui da risolvere a livello istituzionale. Vi sono state convenzioni internazionali che hanno fatto registrare un certo progresso in materia di inquinamento marino prodotto da navi, uso del mare e del fondo marino, limitazione nella produzione di clorofluorocarburi per prevenire la riduzione dell'ozono nell'atmosfera, prevenzione del commercio di specie in pericolo. Queste misure, come quelle citate in precedenza, si affidano quasi esclusivamente alla regolamentazione, il che è normale soprattutto nel contesto internazionale, perché le tecniche di regolamentazione consentono agli Stati che partecipano al negoziato di stabilire i propri obblighi e prevederne le conseguenze con maggiore certezza. Nonostante questi segni di progresso, si è appena cominciato ad affrontare alcuni dei problemi più scottanti e di più ampia portata in materia di ambiente. Fra questi si annoverano: la maggiore liberazione di anidride carbonica nell'atmosfera; la distruzione delle foreste pluviali tropicali, che ha conseguenze profonde sui cambiamenti climatici del globo; la distruzione in massa di specie animali e vegetali; lo sfruttamento agricolo e di altre risorse naturali, che l'aumento della popolazione rende necessario in molte delle nazioni in via di sviluppo, soprattutto in Africa; l'eccesso di pesca e la distruzione di habitat marino; le conseguenze a lungo termine delle attuali tendenze nell'uso dell'energia; gli effetti dell'urbanizzazione. Vi è una crescente consapevolezza del fatto che molti di questi problemi ambientali, visti in una prospettiva internazionale, sono strettamente legati alla crescita della popolazione, al commercio e allo sviluppo. Questi nessi sono particolarmente evidenti nel caso dei paesi in via di sviluppo (v. Symposium on..., 1985) nei quali la povertà e la crescita della popolazione stanno causando uno sfruttamento intollerabile di foreste, praterie, acqua e altre risorse. La conservazione di tali risorse è essenziale allo sviluppo futuro, ma a questi paesi - poveri, obbligati a importare energia e tecnologia, politicamente deboli - manca la capacità di adottare misure efficaci per proteggere e conservare queste risorse vitali. Vi è inoltre una maggiore coscienza del fatto che molti dei progetti di sviluppo e dei programmi finanziati da enti quali la Banca Mondiale o la Banca Interamericana per lo Sviluppo sono stati spesso inadatti dal punto di vista ambientale e non rispondenti alle esigenze di sviluppo di lungo periodo.Anche il commercio e gli investimenti multinazionali hanno importanti conseguenze ambientali (v. Rubin e Graham, 1982). L'incidente di Bhopal e la vendita ai paesi in via di sviluppo di pesticidi e di altri prodotti proibiti nel paese di produzione sollevano il problema di garantire che anche nei paesi in via di sviluppo vengano stabiliti e rispettati gli stessi standard vigenti nei paesi sviluppati in materia di salute e sicurezza.
I controlli di regolamentazione esistenti nei paesi sviluppati potrebbero incoraggiare l'esportazione di industrie 'sporche' e di residui industriali nei paesi in via di sviluppo. Se non si giungerà a stabilire controlli comuni o a modificare le pratiche commerciali in modo che riflettano i costi del controllo ambientale, gli effetti economici transnazionali creati dalla mobilità dei capitali potrebbero scoraggiare l'adozione di controlli ambientali più rigorosi da parte di tutti i paesi. Le possibili soluzioni, compresa un'applicazione 'extraterritoriale' delle leggi sull'ambiente naturale e l'elaborazione di un codice dell'ambiente per le imprese multinazionali, pongono di per sé notevoli problemi.Vi sono segnali incoraggianti di un'attenzione ai collegamenti esistenti fra problemi ambientali, da una parte, e commercio, investimenti e rapporti finanziari tra paesi sviluppati e coi paesi in via di sviluppo dall'altra (v. Brown, 1987). Alcuni leaders di paesi sviluppati hanno riconosciuto che la tutela dell'ambiente è necessaria a uno sviluppo durevole. La Banca Mondiale e altri importanti istituti di credito sono divenuti più sensibili ai problemi della tutela dell'ambiente, e in alcuni casi hanno utilizzato i finanziamenti per lo sviluppo e per la liquidazione dei debiti al fine di promuovere una saggia amministrazione e conservazione delle risorse. Non ci si può attendere che i paesi in via di sviluppo adottino o attuino politiche ambientali adeguate se non viene loro garantita, attraverso le politiche di sviluppo commerciali e finanziarie dei paesi sviluppati, una crescita economica tale da non comportare abusi delle loro risorse naturali. Di conseguenza, gli incentivi economici possono svolgere una funzione di importanza crescente nella tutela internazionale dell'ambiente. Ma problemi quali l'aumento di anidride carbonica nell'atmosfera e la distruzione delle foreste pluviali tropicali sono davvero di difficile soluzione. La questione dei beni comuni deve essere risolta tenendo conto al tempo stesso della tutela ambientale e dell'esigenza che in tutto il mondo vengano raggiunti standard di vita accettabili e giustizia sociale ed economica. Per raggiungere questo scopo dovranno essere messi a punto sistemi e metodologie per prevenire il degrado ambientale diversi dagli attuali, che sono costituiti fondamentalmente da controlli basati sulla regolamentazione da parte delle singole nazioni. (V. anche Ecologia; Giustizia, accesso alla; Industrializzazione).
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di Emilio Gerelli
L'immagine che meglio rappresenta l'azione di chi ancora oggi (1989) realizza la politica ambientale in Italia è quella del pompiere che accorre trafelato per spegnere, talora con mezzi di fortuna, incendi già scoppiati. Dall'impossibilità di trattare adeguatamente i rifiuti solidi (annualmente ben 50.000 tonnellate di rifiuti industriali e 15.000 di quelli urbani) alle emergenze idriche dovute alle sostanze chimiche nocive ritrovate nelle falde, derivanti da usi agricoli, e alle innumerevoli altre emergenze, tutto dimostra come per ora in Italia prevalga l'azione volta a ridurre il danno ambientale, una volta che esso si sia manifestato, piuttosto che a prevenirlo. È invece concordemente riconosciuto che la moderna politica ambientale deve essere preventiva: evitare eventi o comportamenti nocivi all'ambiente (o almeno ridurne l'importanza) comporta minori costi ecologici ed economici rispetto a un intervento curativo realizzato quando il danno è avvenuto. I motivi per cui l'attuale politica ambientale italiana agisce soprattutto ex post - anche se, come vedremo, oggi non mancano fondate speranze di una positiva modifica verso una politica preventiva - si individuano chiaramente nella pur recente storia degli interventi ambientali nel nostro paese. Non a caso diciamo 'interventi', e non politica organica, poiché sino a epoca recente, anche per l'assenza d'un coordinamento centrale (ministero), l'ambiente è stato protetto con azioni settoriali e spesso improvvisate.
Occorre anzitutto osservare che l'attuale legislazione ambientale viene emanata in Italia con dieci o quindici anni di ritardo, e talora anche più, rispetto agli altri paesi avanzati. Basti pensare che la nostra legge organica per la tutela della qualità delle acque è stata approvata circa due lustri dopo l'analoga legislazione francese (peraltro attuata in modo assai più efficace), e che un importante strumento della politica di prevenzione, la valutazione dell'impatto ambientale, ha solo recentemente ottenuto una prima organizzazione legislativa, mentre è in vigore negli Stati Uniti dal 1969.
Anche in Italia la prima spinta verso una politica di tutela dell'ambiente è venuta dai movimenti ambientalisti, principalmente a partire dalla fine degli anni sessanta. Se il contributo di questi movimenti è stato certamente determinante, va detto però che si è trattato, e si tratta, di una pressione che presenta, come tutte le cose umane, alcuni aspetti criticabili: ne è un esempio la tendenza a prendere di mira bersagli sui quali è più facile coagulare la partecipazione popolare (come i grandi impianti che provocano inquinamento), a scapito talora di tematiche altrettanto importanti, ma più complesse e coinvolgenti una molteplicità di soggetti (l'inquinamento in agricoltura e quello derivante dalla moderna civiltà dei consumi). All'azione degli ambientalisti si è poi aggiunta la spinta della comunità internazionale, che ha trovato la sua maggiore manifestazione operativa nelle direttive ambientali della Comunità Economica Europea.Sino alla creazione del Ministero dell'Ambiente (con la legge dell'8 luglio 1986, n. 349), gli interventi a tutela dell'ambiente venivano attuati, di fatto senza coordinamento, da più di dieci ministeri nonché dalle regioni (che come vedremo hanno in questo campo un ruolo rilevante).
Tra le leggi più importanti menzioniamo la n. 615 del 1966, sull'inquinamento atmosferico, una legge peraltro piuttosto inefficace, tanto da essere polemicamente denominata 'legge pro smog'. Gli interventi a tutela dell'aria stanno tuttavia acquistando una crescente efficacia soprattutto a causa di specifiche direttive CEE.Quanto all'inquinamento idrico, la legge fondamentale è la n. 319 del 1976, nota come 'legge Merli', successivamente modificata dalle leggi n. 690 del 1976 e n. 650 del 1979. È interessante ricordare che la legge fu approvata dopo un lungo travaglio e numerosi rinvii, quando i molteplici interventi della magistratura, basati su una legislazione non organica e quindi incapace di garantire un'effettiva certezza del diritto, avevano finalmente convinto anche i grandi industriali che una normativa precisa e organica era preferibile a un quadro giuridico superato, fonte di interventi imprevedibili. La legge stabilisce limiti di accettabilità degli scarichi uniformi in tutto il paese e assegna un ruolo di rilievo alle regioni. Infatti, secondo uno schema poi applicato anche in altri provvedimenti, mentre al governo centrale è riservata la competenza per quanto concerne i criteri generali di gestione, alle regioni è attribuita la programmazione sul territorio delle opere per il disinquinamento, alle province e alle unità sanitarie locali spetta il controllo del rispetto dei limiti di accettabilità, e infine ai comuni e alle industrie è affidato il compito di costruire e gestire le opere per il disinquinamento. Purtroppo, nonostante l'intelaiatura in astratto razionale della norma, essa non ha prodotto gli effetti sperati: le regioni hanno redatto con gravi ritardi, e spesso in modo insoddisfacente, i loro piani di risanamento delle acque; lo Stato ha a lungo rinunciato di fatto alla sua opera di stimolo e di coordinamento; le opere realizzate dai comuni risultano per più del 50% non funzionanti, e anche l'industria ha ottemperato in ritardo alle disposizioni legislative (i migliori risultati sono stati in linea di massima raggiunti dalla grande industria, tecnicamente e finanziariamente più attrezzata per realizzare il disinquinamento).
Anche per quel che riguarda i rifiuti solidi la situazione (come accennato all'inizio) è particolarmente insoddisfacente e fonte di continue 'emergenze', dovute principalmente al ritrovamento, in Italia e all'estero, di discariche illegali. L'ostacolo fondamentale alla soluzione del problema, almeno per quanto riguarda lo stoccaggio e il trattamento dei rifiuti per renderli compatibili con l'ambiente, è che in Italia i cittadini a cui si richiede di accogliere nel proprio territorio gli impianti di trattamento applicano generalmente il principio del cosiddetto 'not in my backyard', 'non nel mio cortile': tutti concordano in teoria sull'opportunità di trattare almeno una parte dei rifiuti, ma nella pratica ciò deve accadere nel territorio degli altri, per tema di nocività che in realtà l'esperienza estera dimostra inesistenti o assai limitate quando il sistema di trattamento dei rifiuti è ben gestito. Il nodo della questione si trova dunque, probabilmente, nella scarsa fiducia dei cittadini - purtroppo non ingiustificata - nelle capacità di indirizzo e di controllo dei pubblici poteri. Per far fronte alla situazione, comunque, è stata emanata la legge n. 441 del 1987, che attribuisce maggiori finanziamenti alle regioni per la realizzazione degli impianti di trattamento e maggiori poteri allo Stato per la localizzazione di tali impianti.
Dopo il ritrovamento in paesi in via di sviluppo, talora in circostanze drammatiche, di discariche non autorizzate contenenti rifiuti industriali italiani, il quadro legislativo è stato rafforzato dalla legge n. 475 del 1988, che prevede la realizzazione di un impianto di trattamento in ciascuna regione.Riguardo alla tutela del territorio nelle sue parti più vulnerabili, occorre menzionare la cosiddetta 'legge Galasso', n. 431, del 1985, che ha definito numerose aree soggette a controllo, rafforzando così il potere di tutela esercitato sul territorio dalle regioni per competenza primaria, ma spesso in modo insoddisfacente (basti pensare allo scempio delle coste).Nel quadro piuttosto negativo che abbiamo tracciato apre un grosso spiraglio alla speranza la ricordata istituzione del Ministero dell'Ambiente, condizione necessaria, anche se non sufficiente, per l'elaborazione di una organica ed efficace politica ambientale. Si è pertanto manifestato un nuovo indirizzo in questa politica con la presentazione di un programma triennale che, se attuato, porrà le basi per la correzione delle numerose debolezze che abbiamo sottolineato e per una efficace tutela - troppo a lungo mancata - delle bellezze naturali e artistiche di cui il nostro paese è ricco.
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