Tutela e decadenza dei vincoli paesaggistici
La decisione dell’Adunanza Plenaria affronta il tema della decadenza degli effetti vincolistici derivanti da una proposta di individuazione del bene paesaggistico. La sentenza supera il dettato normativo sull’individuazione del dies a quo dal quale calcolare la durata della misura interinale attraverso la modulazione degli effetti dell’annullamento dell’atto e dell’utilizzo della tecnica del prospective overruling. L’Adunanza Plenaria, però, dilata notevolmente le maglie della sua funzione nomofilattica rischiando di entrare in tensione con il principio di legalità.
La decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato scaturisce da una controversia relativa alla decadenza degli effetti vincolistici derivanti da una proposta di individuazione del bene paesaggistico intervenuta precedentemente all’entrata in vigore delle norme correttive sul codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.1.2004, n. 42). Le nuove norme, infatti, impongono la cessazione degli effetti del vincolo qualora il procedimento non si concluda nel termine di centottanta giorni1. Una impresa faceva istanza di autorizzazione unica per la costruzione ed esercizio di un impianto per la produzione di energia elettrica da fonte eolica. Tale richiesta era stata rigettata sulla base della sussistenza di un vincolo paesaggistico sul terreno destinato alla realizzazione dell’impianto. La società, sostenendo che il vincolo derivava da mere proposte di valutazione di interesse pubblico mai decise e risalenti al 2001 e 2002, impugnava, nel 2014, le note del Ministero dei beni e delle attività culturali con le quali l’amministrazione aveva dichiarato la persistente efficacia delle proposte stesse e la conseguente permanenza in vigore delle misure vincolistiche di salvaguardia nell’area interessata. Nella sostanza si ritenevano ancora sussistenti nel 2014 gli effetti vincolistici di natura provvisoria scaturenti dall’avvio di procedimenti nel 2001/2002. Sul punto occorre rilevare che la norma transitoria di cui all’art. 157 del codice, che ha riscritto la disciplina dei beni culturali e paesaggistici, aveva confermato il regime giuridico delle proposte di vincolo preesistenti, non prevedendo alcuna forma di decadenza del vincolo né alcun termine perentorio per la conclusione del procedimento amministrativo volto alla tutela del bene paesaggistico. Successivamente, il d.lgs. 26.3.2008, n. 63, novellando ulteriormente il codice individuava un termine di decadenza relativo agli effetti vincolistici per le proposte non tempestivamente approvate dal Ministro. Il legislatore, quindi, affermava che il procedimento si sarebbe dovuto concludere entro un termine congruo individuato, nel caso di specie, in centottanta giorni. Il TAR rigettava il ricorso affermando che le proposte di vincolo formulate prima della data di entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004 conservano la loro efficacia anche in assenza della definizione del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico2. La decisione precisa che prevedere una decadenza retroattiva delle proposte e del vincolo, oltre che configurare una violazione del principio tempus regit actum, avrebbe comportato una compromissione delle finalità di tutela del paesaggio, garantite dall’art. 9 della Costituzione; infatti tale interpretazione avrebbe causato una indiscriminata e generalizzata decadenza di tutte le proposte di vincolo non ancora approvate indipendentemente dalla data della loro formulazione senza, peraltro, la predisposizione di misure organizzative idonee a consentire alle soprintendenze un’effettiva verifica caso per caso del permanere delle esigenze di tutela. Avverso la decisione del TAR, la società originaria ricorrente proponeva appello. L’appellante riteneva che non potesse opporsi il divieto di retroattività della legge nel caso della applicazione di normative intervenute nel corso di un procedimento amministrativo non concluso. La norma sulla decadenza si sarebbe dovuta applicare anche per le proposte di vincolo già presentate. Il Consiglio di Stato riscontrava sulla questione la sussistenza di due indirizzi giurisprudenziali contrastanti e, conseguentemente, deferiva alla Adunanza Plenaria la questione in merito alla perdurante efficacia delle proposte di vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate al codice, cui non fosse seguita l’adozione del relativo decreto ministeriale a conclusione del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico. La decisione della Adunanza Plenaria analizza i due indirizzi giurisprudenziali fonte del contrasto. Secondo un primo orientamento, maggioritario, le proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate al codice dei beni culturali e del paesaggio conservano comunque la loro efficacia, ancorché i relativi procedimenti non si siano conclusi con l’adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico3. Il legislatore, a fronte dell’introduzione della perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale di approvazione della proposta, non ha modificato l’art. 157, co. 2, del codice, che non prevede tale termine, né questo contiene un rinvio alla norma sul termine, di modo che le forme di decadenza successivamente introdotte non sono applicabili alle proposte formulate anteriormente alla sua entrata in vigore. Inoltre, l’applicazione del sopravvenuto regime di perdita di efficacia delle misure di tutela avrebbe natura retroattiva e, quindi, contrasterebbe con il principio tempus regit actum.Infine, l’insensibilità delle antecedenti proposte al nuovo regime si giustifica, sul piano sistematico, con la finalità di tutela del paesaggio, in attuazione dell’art. 9 Cost., così come affermato dalla sentenza di primo grado. La tesi contraria, minoritaria, sostenuta da recente giurisprudenza del Consiglio di Stato4, afferma che l’ultrattività delle mere proposte di vincolo presupporrebbe il riconoscimento dell’esistenza di una categoria di cd. super-proposte, con efficacia sine die.
Ma la mancata adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico nei termini di legge dovrebbe, invece, denotare la carenza di interesse pubblico giustificativo della misura precauzionale rappresentata dalla proposta di vincolo. Peraltro, non potrebbe sostenersi la violazione del principio di irretroattività della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi.
L’Adunanza Plenaria propende per la tesi minoritaria. La decisione parte dal presupposto della scissione tra la proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico e gli effetti vincolistici scaturenti da essa. Il termine di decadenza previsto dalla normativa si riferirebbe solo agli effetti vincolistici legati alla proposta e non alla proposta stessa che rimarrebbe valida.
Il potere di decidere in via definitiva su vincolo da apporre non si consumerebbe.
In tal modo, si salverebbero le proposte adottate prima della riforma del codice, per le quali alla scadenza del termine non si prevedeva alcuna decadenza e nello stesso tempo non verrebbe pregiudicato l’interesse dei privati per i quali scade l’effetto vincolistico interinale. D’altra parte sarebbe irragionevole «ammettere che il vincolo preliminare possa essere efficace anche a distanza di numerosi anni dalla proposta, ancorché da tempo sia stata introdotta nel codice una disposizione che ne sancisce la perdita di efficacia».
In tal modo si applica correttamente anche il principio del tempus regit actum, dal momento che la nuova disciplina si riferisce alla fase del procedimento (valutazione della proposta ai fini dell’assunzione del provvedimento definitivo) ancora in corso. Si evitano, così, macroscopiche irrazionalità escludendo l’esistenza di proposte con un effetto inibitorio permanente ed escludendo un paradossale mutamento di natura delle proposte anteriori alla novella, dal momento che una mera norma di salvaguardia delle proposte antecedenti avrebbe sostanzialmente trasformato queste in provvedimenti definitivi di vincolo e una tutela interinale in definitiva.
Infine, la sentenza ritiene che il termine decadenziale si debba calcolare non tanto dalla pubblicazione della proposta, in quanto chiaramente tutti i vincoli sarebbero già ampiamente decaduti, quanto dalla pubblicazione della sentenza.
Tale decisione viene motivata sulla base della presunta facoltà del giudice di modulare la portata temporale della propria sentenza, facendone decorrere gli effetti solo per il futuro.
L’Adunanza Plenaria, inoltre, rileva la peculiarità delle proprie decisioni che, ai sensi dell’art. 99, co. 4, c.p.a. devono enunciare il principio di diritto sul quale si deve fondare la soluzione della controversia per cui a esse deve riconoscersi innanzitutto una valenza essenzialmente interpretativa, in particolare quando ritenga di enunciare esclusivamente il principio di diritto e restituire per il resto il giudizio alla sezione remittente. In via generale, tali decisioni hanno efficacia retroattiva, anche se non eliminano dal mondo giuridico un atto. Ma in alcuni casi, si può derogare al principio della retroattività facendo applicazione della tecnica del prospective overruling. Tale deroga si giustifica «se vi è il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti a un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni».
Il problema centrale della controversia può sintetizzarsi con il seguente interrogativo: può una pubblica amministrazione rimanere inerte su un procedimento per oltre dieci anni, così bloccando ogni attività di un soggetto privato, proprietario di un bene, in virtù di una misura interinale che nei fatti diviene definitiva? Dalla decisione della Adunanza Plenaria si può ritenere che a tale grave interrogativo si debba fornire una risposta purtroppo positiva. A dire il vero la decisione della Adunanza Plenaria si sforza di trovare un punto di equilibrio, ma di fatto pone in essere tutti i presupposti per giungere a una decisione negativa per il ricorrente che ha subito il comportamento gravemente inerte della p.a. L’iter argomentativo della sentenza allorché afferma la scissione fra la proposta presentata e gli effetti cd. cautelari di questa è condivisibile. Peraltro, tale scissione tra proposta e suoi effetti, si ricava dall’art. 141, co. 5, del codice5 e consente di affermare che decadono, una volta spirato il termine previsto, esclusivamente i vincoli concepiti come misure di salvaguardia, mentre non si esaurisce il potere di pronunciarsi in via definitiva sulla natura del bene di proprietà del privato. D’altra parte non è concepibile che una misura di salvaguardia, che conforma in maniera consistente la proprietà privata, sia prevista senza alcun termine. Insita nel concetto di misura di salvaguardia è la sua efficacia limitata nel tempo, così come previsto nel diritto urbanistico6. Si tratta, peraltro, di espressione di ragionevolezza e logicità. Nel caso in questione si può anche affermare che la misura di salvaguardia anche prima della novella al codice, che ne ha stabilito la decadenza allo spirare del termine di centottanta giorni, non potesse avere una durata illimitata stante la sua natura giuridica e che, quindi, la decisione in ordine al provvedimento di pubblico interesse dovesse comunque essere adottata entro un congruo termine. Non possono certo ricadere sul privato proprietario le conseguenze dell’inerzia della p.a. che, in questo caso, si è protratta per anni. Si tratta di un punto di equilibro fra l’esigenza del privato a non vedersi sostanzialmente espropriato delle facoltà inerenti il diritto di proprietà e quella della p.a. a non vedersi preclusa la possibilità di esercitare il potere di dichiarazione di pubblico interesse. All’inerzia della p.a. non possano non conseguire effetti pregiudizievoli per la stessa, così come chiaramente stabilito dalle norme della l. 7.8.1990, n. 241. Il tempo o meglio la certezza dei tempi delle decisioni sono oramai divenuti essi stessi beni giuridici da tutelare in maniera effettiva. L’applicazione del termine di decadenza alle ipotesi di proposte effettuate prima della novella del 2008 non rappresenta affatto una inammissibile applicazione retroattiva della legge in quanto si è in presenza di procedimenti non ancora conclusi. Si tratta, al contrario, di una corretta applicazione del principio del tempus regit actum in virtù del quale i provvedimenti amministrativi devono uniformarsi, sia per quanto concerne i requisiti di forma e procedimento, sia per quanto riguarda il contenuto sostanziale delle statuizioni, alle norme giuridiche vigenti nel momento in cui gli stessi vengono posti in essere. In particolare, laddove, medio tempore, muti il quadro normativo che governa il procedimento, le fasi successive sono rette dalla normativa vigente al momento del loro svolgimento; quindi, lo jus superveniens, in base alla regola generale tempus regit actum, incide sulle fasi del procedimento in itinere; laddove, invece, l’atto sia già stato adottato non viene inciso dalla sopravvenienza normativa. In definitiva, la corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta che l’amministrazione consideri anche le modifiche normative intervenute durante il procedimento7. Poiché lo jus superveniens relativo alla decadenza è intervenuto a procedimento non concluso, ossia nella fase preliminare della proposta, correttamente si deve applicare tale termine al procedimento oggetto della controversia. Portata alle sue logiche conseguenze, tale ragionamento avrebbe dovuto indurre l’Adunanza Plenaria ad applicare la norma sulla decadenza e, quindi, annullare i provvedimenti impugnati affermando che i terreni della società ricorrente, pur essendo sottoposti al potere della p.a. di dichiarazione di pubblico interesse, non erano più soggetti alle misure di salvaguardia legate all’avvio del procedimento. Al più del termine decadenziale si sarebbe dovuto tenere conto almeno dal 2008, ossia dalla data della sua previsione nel codice. Solo in tal modo si sarebbe potuta garantire la piena satisfattività della tutela giurisdizionale richiesta dalla ricorrente. Invece, l’Adunanza Plenaria, consapevole anche della sussistenza di un indirizzo giurisprudenziale che fino a quel momento non aveva ritenuto sussistente il termine decadenziale per la p.a., percorre una via differente non decidendo nel merito, ma adottando una pronunzia meramente dichiarativa di un principio di diritto e restituendo la causa alla sezione remittente. E, nella sostanza, ponendo le basi per una successiva decisione sfavorevole per il privato. Il principio di diritto enunciato riguarda l’individuazione del dies a quo del termine decadenziale nella data di pubblicazione della sentenza. In tal modo, la decisione dell’Adunanza Plenaria ritiene di individuare il punto di equilibrio fra l’esigenza del privato a non sottostare a vincoli sine die e quello dell’amministrazione a vedersi tutelata nel suo legittimo affidamento indotto da una costante e prevalente giurisprudenza amministrativa che aveva fino a quel momento negato la sussistenza della decadenza del vincolo. In questa decisione, parte della dottrina ha ravvisato una forzatura dei limiti della giurisdizione, in quanto affermare che l’effetto decadenziale maturi dalla data della pubblicazione della decisione consente una inammissibile proroga dell’efficacia dei vincoli attraverso una modifica della norma. In questo caso, dunque, l’Adunanza Plenaria non ha esercitato la sua funzione nomofilattica quanto una «nomopoietica e cioè produttiva di una nuova disposizione normativa»8.
L’individuazione del termine di efficacia attraverso la modulazione della portata temporale della pronunzia pone delicati problemi con riferimento alla natura delle decisioni cd. modulate, anche per quelle che ai sensi dell’art. 99, co. 4, c.p.a. non decidono in merito al ricorso annullando o meno un atto amministrativo. Se fosse consentito al giudice di modulare gli effetti delle proprie decisioni si stravolgerebbero alcuni principi generali relativi alla natura e alle conseguenze del potere di annullamento giurisdizionale e ciò non è ammissibile. Gli argomenti utilizzati dalla Adunanza Plenaria per affermare la modulazione degli effetti della decisione sono gli stessi utilizzati da precedenti e, a dire il vero, isolate decisioni del Consiglio di Stato che avevano a oggetto l’annullamento degli atti amministrativi9. Sulla questione è utile soffermarsi per alcune considerazioni critiche. L’azione di annullamento è un’azione tipica in quanto la legge la sottopone a una disciplina propria circa i termini, le modalità procedurali e i provvedimenti giurisdizionali che conseguono al suo accoglimento. Anche gli effetti della sentenza di accoglimento sono tipizzati dal legislatore (art. 34, co. 1, lett. a). Il primo argomento a favore della modulazione degli effetti della decisione è quello della effettività della tutela giurisdizionale e della conseguente affermazione del principio della atipicità delle azioni.
In sostanza, possono essere esperite tutte le azioni che siano necessarie per tutelare in concreto l’interesse sostanziale del codice del processo che prevede l’emanazione di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa sostanziale.
Sul punto occorre rilevare che se il nostro sistema si è diretto, correttamente, verso diversificazione della tutela giurisdizionale, ciò non può comportare la deformazione delle azioni quando queste siano tipizzate dal legislatore. La possibilità che il giudice pronunci sentenze che siano flessibili e duttibili per la tutela del privato (basti pensare all’art. 34 c.p.a.) non consente di affermare che il contenuto tipizzato dell’azione di annullamento possa essere differente da quello previsto dalle norme10.
D’altra parte se il provvedimento è fin dall’origine illegittimo, la sentenza che lo annulla ha sicuramente effetto retroattivo, in quanto questo è diretta conseguenza della illegittimità riscontrata, per cui il giudice non ha la possibilità di disporre degli effetti dell’annullamento dipendendo essi dalla illegittimità riscontrata.
La circostanza che vi sia una norma come quella di cui all’art. 34, co. 3, c.p.a. secondo cui l’accertamento della illegittimità non comporta necessariamente l’annullamento dell’atto non dimostra affatto che vi sia un principio generale in virtù del quale il giudice possa modulare gli effetti demolitori ed eventualmente ripristinatori della sentenza, a meno che non si prevedano altre forme di intervento sull’atto come la sua disapplicazione.
La citata norma del codice prevede che solo nell’ipotesi in cui il giudice ritenga del tutto inutile la demolizione dell’atto e solo qualora si possa ravvisare un interesse risarcitorio, lo stesso possa limitarsi ad accertare l’illegittimità dell’atto prescindendo dal richiesto annullamento.
Ulteriore argomento richiamato a favore della tesi della modulazione fa leva sull’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 in materia di annullamento d’ufficio che prevede, quale limite agli effetti demolitori dell’annullamento d’ufficio, il legittimo affidamento del destinatario del provvedimento. Ma l’annullamento d’ufficio e quello giurisdizionale sono istituti da tenere distinti in quanto espressione di differenti poteri l’uno amministrativo e l’altro giurisdizionale, per cui hanno presupposti e, talvolta, effetti completamente differenti.
La modulazione degli effetti viene posta in essere a seguito di una operazione di ponderazione degli interessi che non appartiene alla funzione del giudice allorché si muova nell’ambito della giurisdizione di legittimità. Il giudice ritiene di non dover annullare con effetto retroattivo perché dalla demolizione degli atti sarebbe ingiustamente e incongruamente compresso uno specifico interesse pubblico. Se si ammettesse tale operazione il giudice si sostituirebbe all’amministrazione indebitamente. Il giudizio, infatti, è finalizzato a rendere giustizia e non a curare l’interesse pubblico tantoché il principio del giusto processo esclude che la sede giurisdizionale si trasformi in un luogo di confronto e di sintesi tra le situazioni giuridiche dei privati e gli interessi della p.a. per cui il giudice, nella giurisdizione di legittimità, non deve farsi carico dell’interesse pubblico, imponendogli la funzione giurisdizionale di tutelare le situazioni giuridiche soggettive11. Concepire la disponibilità degli effetti dell’annullamento come giustificata da una valutazione di opportunità operata dal giudice amministrativo e ancorata alla tutela dell’interesse pubblico appare dissonante rispetto ai principi ormai acquisiti nell’ambito della giurisdizione amministrativa. La modulazione degli effetti semmai può venire in rilievo in sede di ottemperanza. Il giudice potrebbe graduare nel tempo non tanto gli effetti della propria sentenza di annullamento, quanto il contenuto dell’attività sostitutiva nei confronti dell’amministrazione inottemperante. In questo caso, l’operazione sarebbe possibile perché al giudice è attribuita una giurisdizione estesa al merito. Quest’ultimo richiamo alla giurisdizione di merito e ai poteri sostitutori del giudice amministrativo consentono di analizzare l’ulteriore argomento che si fonda sul richiamo agli artt. 121 e 122 del c.p.a. secondo i quali, a seguito della rilevata fondatezza del ricorso, il giudice può esercitare un potere valutativo sulla determinazione dei concreti effetti della propria pronuncia. Si tratta, però, di norme in materia di rito speciale negli appalti che riconoscono al giudice, una volta annullata l’aggiudicazione, la possibilità di dichiarare l’inefficacia o meno del contratto stipulato ovvero di modulare la dichiarazione di inefficacia. Tale modulazione della dichiarazione di inefficacia può avvenire sulla base di vari parametri che contemplano sia valutazioni in ordine all’interesse pubblico al mantenimento in vita del negozio sia valutazioni sugli interessi delle parti, sulla effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione, sullo stato di esecuzione del contratto e sulla possibilità di subentrare nello stesso. Il richiamo agli artt. 121 e 122 c.p.a. non si può condividere. Innanzitutto, se è vero che il giudice può operare alcune valutazioni in ordine alla inefficacia o meno del contratto, la circostanza rilevante è che alla base di tale valutazione vi è sempre una sentenza di annullamento. Infatti, la valutazione della sorte del contratto interviene solo a seguito dell’eliminazione retroattiva della aggiudicazione, ossia un annullamento giurisdizionale con efficacia retroattiva. Peraltro, l’inefficacia non è conseguenza automatica dell’annullamento dell’aggiudicazione. Questo determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba o meno continuare a produrre effetti, sicché la privazione degli effetti del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione deve formare oggetto di una pronuncia giurisdizionale tipica su apposita domanda del soggetto ricorrente. In questo caso, un eventuale potere di modulazione degli effetti (non dell’annullamento ma del contratto) deriva comunque da una domanda specifica per cui il giudice non può ex se operare tale valutazione. Anche gli argomenti tratti dal diritto comunitario non sono convincenti. Dalla normativa comunitaria e dalla sua interpretazione da parte della giurisprudenza emergerebbe che il giudice può emettere le statuizioni che risultino in concreto satisfattive dell’interesse fatto valere, con la conseguenza che il principio della efficacia ex tunc dell’annullamento non avrebbe portata assoluta e il giudice comunitario potrebbe dichiarare l’annullamento di un atto anche ex nunc ovvero stabilire che l’atto medesimo conservi i propri effetti fino a che l’istituzione comunitaria modifichi o sostituisca l’atto impugnato. Il diritto comunitario prevede la possibilità da parte del giudice comunitario di modulare gli effetti dell’annullamento dell’atto12. Infatti, l’art. 264 TFUE prescrive che la Corte dichiari nullo l’atto impugnato e, ove lo reputi necessario, precisi «gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi». Sul punto occorre osservare che la Corte non ha alcun potere di condanna nei confronti dell’istituzione convenuta e non può imporle alcun comportamento specifico né può modificare o sostituire l’atto impugnato bensì può solo pronunciare l’annullamento di tale atto. La Corte neppure può sostituire il proprio giudizio a quello dell’istituzione che ha emanato l’atto. La sentenza che pronuncia l’annullamento ha una efficacia erga omnes ed elimina l’atto fin dal momento in cui è stato emanato. Quindi, l’efficacia demolitoria dell’annullamento appare essere la medesima dell’ordinamento nazionale. La sentenza ha natura di accertamento costitutivo in quanto modifica la situazione preesistente: infatti, l’accertamento di legittimità, che fa considerare l’atto come non adottato (ossia annullato), comporta che deve essere ricostruita la situazione preesistente all’emanazione dell’atto eliminando, quindi, gli effetti prodotti che sopravvivono al momento del suo annullamento, per cui è necessaria un’ulteriore attività dell’istituzione comunitaria. Nell’ipotesi in cui il ripristino della situazione precedente non sia possibile (perché, per esempio, gli effetti prodotti dall’atto si sono esauriti) o sia inopportuna (in quanto l’eliminazione dell’atto risulterebbe contraria al principio della certezza del diritto o al rispetto del principio dei diritti acquisiti) viene conferito alla Corte il potere di non demolire gli effetti prodotti. In questa ipotesi, gli effetti non deriverebbero dall’atto ritenuto illegittimo ma dal contenuto dispositivo della pronuncia giurisdizionale.
Tale modulazione degli effetti dell’annullamento è fondata su presupposti peculiari e non si può certamente considerare una regola applicabile anche al processo amministrativo nazionale. Infatti, la modulazione si ha nell’ipotesi in cui il vizio sia solo formale o in cui vi è un interesse particolarmente forte al mantenimento in vita dell’atto. Per la Corte di giustizia, tuttavia, tale potere deve essere utilizzato con estrema parsimonia nella consapevolezza che si potrebbe trattare di fattispecie in cui viene sacrificata l’esigenza di tutela piena ed effettiva del privato, derogando a quanto da esso richiesto con il ricorso. Occorre osservare, infine, che il giudice, nell’operazione di modulazione degli effetti della sua sentenza di annullamento, sembra posto sulla stessa linea della Corte costituzionale. La Costituzione non attribuisce il potere di determinare gli effetti dell’annullamento delle leggi ma semplicemente prevede che le sentenze abbiano efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione e la l. 11.3.1953, n. 87, prevede che la legge dichiarata incostituzionale non possa più essere applicata. Dal combinato disposto di queste due disposizioni la giurisprudenza costituzionale ha affermato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale, per il suo carattere sostanzialmente invalidante, produce conseguenze assimilabili a quelle dell’annullamento, incidendo anche sulle situazioni pregresse, salvo il limite invalicabile del giudicato e quello derivante da situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili. Risulta pacifico che le sentenze di accoglimento abbiano effetti retroattivi, per cui la dichiarazione di illegittimità della norma opera dal momento in cui si è verificata l’incostituzionalità di quest’ultima e travolge tutti i rapporti sorti sulla base della norma successivamente dichiarata incostituzionale, tranne i noti limiti. Questa pacifica conclusione è stata messa in discussione da una prassi giurisprudenziale avviata intorno alla metà degli anni ottanta del secolo scorso volta alla modulazione degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento13. Ciò perché si avvertiva che la possibilità di graduare l’efficacia nel tempo delle pronunce costituzionali non si risolveva in un depotenziamento della stessa bensì in uno suo perfezionamento perché consentiva alla Corte un margine di manovra tale da rendere in concreto più agevole il rispetto della Costituzione. La limitazione temporale degli effetti poteva essere dovuta a una illegittimità sopravvenuta o successiva per cui una determinata disciplina conforme a Costituzione al momento della sua entrata in vigore, può diventare incostituzionale successivamente al sopravvenire di fatti nuovi, come un mutamento legislativo. In questo caso solo da quel momento deve decorrere l’effetto della dichiarazione di incostituzionalità. Ulteriore ipotesi era quella della decisione di accoglimento non retroattiva o parzialmente retroattiva dovuta al cd. bilanciamento di valori. L’operazione che in questo caso svolge la Corte è quella di non far retroagire gli effetti dell’annullamento poiché, per tutelare un valore costituzionale, si provocherebbero danni rispetto a un altro valore ugualmente protetto dalla Carta fondamentale. Qui il giudice tenta di individuare il punto di minore sofferenza per entrambi i valori costituzionali in gioco, anche attraverso l’utilizzo delle cd. sentenze monitorie. Ma la possibilità di modulare gli effetti delle sentenze di accoglimento, anche al di là di una specifica previsione di legge, nel caso della Corte costituzionale si giustifica in base al ruolo che la stessa svolge nel nostro ordinamento democratico che, ovviamente, è del tutto peculiare e non paragonabile con quello del giudice amministrativo.
Gli argomenti utilizzati per affermare la modulazione degli effetti della sentenza non sono convincenti. La decisione della Adunanza Plenaria utilizza, per rafforzare la sua decisione, la tecnica del prospective overruling, dichiarando un principio di diritto valevole solo ed esclusivamente per il futuro14. Operazione che in apparenza è resa più semplice dal fatto che tale tecnica viene applicata a una decisione meramente dichiarativa di un principio di diritto15. Come è noto la tecnica del prospective ovverruling rappresenta una deroga al cd. overruling, che ha valore retroattivo. Con il prospective overruling il giudice, per salvaguardare il legittimo affidamento ingenerato da un costante indirizzo giurisprudenziale, può modificare il proprio orientamento soltanto per le eventuali controversie future, mentre decide la controversia sottoposta alla sua attenzione continuando a seguire il precedente e consolidato indirizzo. Essendo una deroga alla regola generale dell’overruling retroattivo, la giurisprudenza della Cassazione ha individuato chiaramente i presupposti giustificativi dell’applicazione di tale particolare tecnica: a) l’esegesi deve incidere su una regola del processo; b) l’esegesi deve essere imprevedibile ovvero seguire ad altra consolidata nel tempo tale da considerarsi diritto vivente e, quindi, da indurre un ragionevole affidamento; c) l’innovazione comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa16. Nel caso in questione, l’utilizzo del prospective overruling da parte dell’Adunanza Plenaria forza evidentemente i limiti individuati dalla Cassazione, in quanto se ne prevede l’applicazione con riferimento a una norma di carattere sostanziale (quella sulla decadenza degli effetti vincolistici, perciò sulla possibilità del privato di utilizzare il proprio bene) e non processuale, peraltro modificando il dies a quo di decorrenza di un termine chiaramente indicato dal legislatore. La circostanza che tale tecnica venga utilizzata su una norma sostanziale, in contrasto con quanto affermato dalla Cassazione, non è da condividere. Sul punto, occorre rilevare che parte dottrina considera la distinzione fra overruling sostanziale ed overruling processuale non fondamentale in quanto l’overruling, se funzionale a tutelare il legittimo affidamento ingenerato da una costante interpretazione giurisprudenziale dovrebbe valere sia nelle ipotesi di interpretazione di norme processuali così come di norme sostanziali17. Per cui tale tecnica sarebbe funzionale a rispondere alla sempre più crescente domanda di certezza e di stabilità del diritto; tali principi, infatti, sono sicuramente messi in pericolo dal ricorso a mutamenti retroattivi di consolidati indirizzi giurisprudenziali. Si deve osservare che nel caso di specie l’utilizzo dell’overruling non avrebbe la finalità di garantire la certezza e la stabilità del diritto, ma al contrario di garantirebbe un comportamento gravemente inerte della p.a. foriero di incertezza e di instabilità, introducendo una nuova norma in relazione al dies a quo del termine di conclusione del procedimento, peraltro in danno del privato a cui il giudice darebbe ragione in astratto ma non in concreto poiché nel decidere il termine di decadenza non verrebbe applicato. L’utilizzo di tale tecnica da parte del giudice amministrativo, prospettata dalla Adunanza Plenaria entra in rotta di collisione con il principio di legalità al quale deve essere sottoposto qualsiasi giudice. La funzione interpretativa del giudice «per quanto ampia e costruttiva, non può mai sfociare nella creazione di ‘nuovo diritto’, che, quand’anche tecnicamente più corretto e sistematicamente più ragionevole, è totalmente autonomo dal principio democratico e, dunque, inidoneo a garantire la sicurezza e la pace sociale»18. Certamente la decisione in oggetto porrà gravi problemi alla sezione del Consiglio di Stato che dovrà decidere nel merito, in quanto, in applicazione del decisum dell’Adunanza Plenaria, questa sarà presumibilmente costretta ad applicare la vecchia giurisprudenza e, di conseguenza, dovrà necessariamente respingere l’appello della società ricorrente (se, ovviamente, il provvedimento della amministrazione non interviene nel termine di centottanta giorni dalla pubblicazione della sentenza). Il privato, a questo punto si troverebbe subire gli effetti di una reiterata inerzia della p.a. causativa di una inammissibile preclusione all’esercizio di facoltà inerenti il diritto di proprietà in virtù di una misura interinale che si è stabilizzata nell’ordinamento.
1 Per i primi commenti alla decisione si vedano Follieri, E., L’Adunanza Plenaria, “sovrano illuminato”, prende coscienza che i principi enunciati nelle sue pronunzie sono fonti del diritto, in Urb.app., 2018, 373; Vacca, A., Adunanza Plenaria, ius dicere e creazione del diritto, in giustizia-amministrativa.it, 2017; Condorelli, M., Il nuovo prospective overruling, «dimenticando» l’adunanza plenaria n.4 del 2015, in Foro it., 2018, III, 164.
2 TAR Molise, 26.2.2016, n. 92, in giustizia-amministrativa.it, 2016, che ha ritenuto preferibile l’interpretazione secondo la quale la proposta di vincolo formulata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004 conserva efficacia anche in assenza di approvazione mediante adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico.
3 Cons. St., 27.7.2015, n. 3663, in giustizia-amministrativa.it., 2015.
4 Cons. St., 16.11.2016, n. 4746, in Foro amm.- Cons.St., 2016, 2665.
5 La norma prescrive che «se il provvedimento ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di cui all’articolo 140, comma 1, allo scadere dei detti termini, per le aree e gli immobili oggetto della proposta di dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’articolo 146, comma 1». Quest’ultimo articolo prescrive che «i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell’articolo 142, o in base alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione».
6 Sul punto si veda Pagliari, G., Corso di diritto urbanistico, Milano, 2015, 168, secondo il quale le misure di salvaguardia hanno uno scopo cautelare e, di conseguenza, non hanno una efficacia illimitata.
7 Cons. St., 13.4.2016, n. 1450 e Cons. St., 16.12.2016, n. 5339.
8 Follieri, E., L’Adunanza Plenaria, “sovrano illuminato”, cit., 397.
9 Cons. St., 10.5.2001, n. 2755, in Urb.app., 2011, 927, con commento di Travi, A., Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo. Si vedano anche Feliziani, C., Oltre le Colonne d’Ercole. Può il giudice amministrativo non annullare un provvedimento illegittimo?, in Foro amm. – Cons. St., 2012, 427; Giusti, A., La “nuova” sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Dir.proc.amm., 2012, 293; Gallo, C., I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, ibidem, 280 ss. e si permette rinviare anche a Dipace, R., L’annullamento tra tradizione e innovazione: la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, ibidem, 1273.
10 Travi, A., Accoglimento dell’impugnazione, cit., 937.
11 Police, A., Attualità e prospettive della giurisdizione di merito del giudice amministrativo, in Studi in onore di Alberto Romano, II, Napoli, 2012, 1449.
12 Tale possibilità prima era prevista solo per i regolamenti. Con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, tale facoltà è stata estesa a tutti gli atti comunitari. Già la Corte aveva esteso in via pretoria l’ambito applicativo di tale disposizione anche alle decisioni, alle direttive e a ogni altro atto recante portata generale. Si vedano C. giust. CE, 15.5.1986, Johnston c. Chief Constable of the Royal Ulster Constabulary, C222/84; C. giust. CE, 15.10.1987, Unectef c. Heylens, C222/86; C. giust. CE, 23.5.1996, Lomas, C5/94; C. giust. CE, 30.9.2003, Köbler c. Repubblica d’Austria, C224/01; C. giust. CE, 13.5.2006, Traghetti del Mediterraneo c. Repubblica italiana, C173/06; C. giust. CE, 22.2.1999, Parlamento c. Consiglio, CC. riunite 164 e 165/97.
13 C. cost., 5.5.1988, n. 501, in Foro it., 1989, I, 639; C. cost., 26.3.1991, n. 124, ivi, 1991, I, 1333.
14 Saitta, F., Prevedibilità delle decisioni del giudice amministrativo e prospective overruling, in giustizia-amministrativa.it, 2018.
15 Sandulli, M.A.,“Principi e regole dell’azione amministrativa”: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in federalismi.it, 2017.
16 Cass., S.U., 11.7.2011, n. 15144, in Riv.dir.proc., 2012, 1072, con nota di Vanz, M.C., Overruling, preclusioni e certezza delle regole processuali; in Corr.giur., 2011, 1392, con nota di Cavalla, F.Consolo, C.De Cristofaro, M., Le S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipo di overruling; in Giur.cost., 2012, 3153, con nota di Consolo, C., Le Sezioni unite tornano sull’overruling, di nuovo propiziando la figura dell’avvocato «internet-addicted» e pure «veggente».
17 Saitta, F., Prevedibilità delle decisioni del giudice amministrativo, loc. cit.
18 Sandulli, M.A.,“Principi e regole dell’azione amministrativa”: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, loc. cit.