TUTELA
. Diritto ebraico. - Negli antichi diritti semitici sembra poco noto l'istituto della tutela. Il codice di Hammurabi nel par. 177 mostra che era affidata al magistrato l'assistenza di minori orfani. Nell'Antico Testamento troviamo il termine di 'omēn per designare colui che alleva e protegge un minore orfano (Ester, II, 7; Isaia, XLIX, 23). Nella Mishnāh e nel diritto ebraico più tardo troviamo il termine greco di ἑπίτροπος e varie norme intorno alla tutela. Da Git., V, 4; 52 b, si apprende che il padre poteva nominare un tutore ai suoi figli e disporre circa il suo patrimonio: tutore poteva essere anche una donna o un servo. Il magistrato poteva nominare tutore di orfani un uomo libero e maggiore di età fornito di determinati requisiti. Se il tutore si rendeva sospetto, doveva essere rimosso.
Per i prodighi e gl'infermi di mente era prevista la nomina di un curatore con poteri eguali a quelli del tutore. Il magistrato non poteva però nominare un curatore a un orfano adulto prodigo, a meno che ciò non fosse stato ordinato dal padre. In Ḥoshen Mishpat 290, 7, e Nahalot, XI, 4, sono specificati gli obblighi del tutore e del curatore, nonché i poteri del tutore anche riguardo ai giudizî intentati contro il pupillo. Non sembra vi fosse obbligo legale di rendiconto.
Diritto greco. - Negli antichissimi tempi la tutela appare una misura di protezione presa nell'interno del gruppo domestico senza intervento dello stato. Più tardi il padre può designare con disposizione di ultima volontà il tutore ai figli impuberi e allora la tutela diviene un vero e proprio istituto giuridico. Gli oratori se ne occupano largamente, fornendo ampie notizie per quanto riguarda il diritto attico. Si hanno due specie di tutela, quella degl'impuberi, il cui titolare è chiamato ἑπίτροπος, e quella delle donne, esercitata dal κύριος. La terminologia è però ben lungi dall'essere precisa.
La tutela degli impuberi ha luogo alla morte del padre, o quando questi cada in servitù iure civili: è dubbio invece se abbia luogo quando sia colpito da atimia o quando abbia esercitato l'ἁποκήρυξις contro il figlio. Gli autori distinguono tre fomie di tutela: 1. testamentaria, quando il padre nomina un tutore per atto di ultima volontà; 2. legittima, che ha luogo in mancanza della prima e spetta ai prossimi nell'anchistia. Si discute, però, sull'esistenza di questa tutela distinta dalla dativa, in quanto nella nomina del tutore interviene sempre l'arconte eponimo. Secondo il Beauchet tale intervento servirebbe solo per omologare la delazione della tutela; 3. tutela dativa, che ha luogo dietro designazione dell'arconte in mancanza delle due precedenti.
È dubbio se potesse essere tutore il non cittadino. Sono esclusi dalla tutela: coloro che non sono sani di mente, i colpiti da atimia, gli schiavi. In Atene è frequentissimo il caso di pupilli con più tutori. Le principali funzioni del tutore appaiono concernere: a) il mantenimento e l'educazione del pupillo; b) la rappresentanza del pupillo in tutti gli atti giuridici; c) l'amministrazione dei beni del pupillo in conformità delle disposizioni lasciate dal padre di questi. In mancanza di queste disposizioni, è libero di agire come meglio crede nell'interesse del pupillo; il più delle volte si usava locare i beni e convertire i beni mobili in immobili.
Il tutore è obbligato a rendere produttivo il patrimonio, accollandosi gli oneri: ha la facoltà di vendere e ipotecare i beni immobili. È responsabile nei confronti del pupillo della cattiva gestione, ma non sappiamo in quale misura. In caso di più tutori, la tutela è esercitata pro indiviso: in caso di disaccordo, si ricorre al magistrato.
La locazione generale dei beni del pupillo si compie con l'intervento del magistrato e osservando determinate forme.
La tutela ha fine: a) quando il pupillo diventa maggiorenne; b) quando viene adottato da terza persona col consenso del tutore; c) quando la pupilla si sposa; d) per incapacità sopravveniente dei tutori; e) per perdita da parte del tutore dei suoi diritti di agnazione; f) per destituzione del tutore; g) per excusatio del medesimo dall'onere della tutela. Il tutore ha l'obbligo di fornire il rendiconto della sua gestione. Oltre al controllo dell'arconte e di altri magistrati da questo dipendenti, esistono diverse azioni per proteggere il pupillo (εἰσαγγελία κακώσεως, ϕάσις μισϑώσεως οἴκου, δίκη ἐπιτροπῆς).
La tutela muliebre ha inizio dal momento della pubertà della donna: allora cessa l'ufficio dell'ἐπίτροπος e comincia quello del κύριος. La donna greca è infatti sottoposta a una tutela perpetua e ciò non soltanto in Atene, ma in quasi tutte le città. La qualità di κύριος spetta successivamente al padre, al fratello consanguineo, al nonno paterno. In mancanza di questi, la donna epiclera ha per κύριος il parente più prossimo nell'ἀγχιστεία: alla non epiclera sembra che il magistrato attribuisse un κύριος da lui scelto (Beauchet). Il κύριος assiste la donna in tutti gli atti giuridici importanti: la donna può infatti amministrare i suoi beni, ma ha bisogno dell'autorizzazione del κύριος per tutti gli atti eccedenti la semplice amministrazione, fatta eccezione per l'emancipazione degli schiavi sotto forma di vendita alla divinità. Il κύριος la rappresenta inoltre nei giudizî privati; può maritarla anche contro il consenso di lei, sciogliere il suo matrimonio, impedirle il divorzio. Se si tratta di una epiclera ϑῆσσα, il κύριος deve sposarla e dotarla.
Diritto dei papiri. - Già nell'antico diritto egiziano sotto la VI dinastia pare che il padre potesse nominare un tutore alla moglie e ai figli per dirigerli e amministrarne i beni.
Tolomeo IV Filopatore sottopone le donne maritate alla tutela del marito, richiedendo l'intervento del κύριος nei contratti. I papiri greco-egizî ci mostrano l'esistenza dell'ἐπίτροπος e del κύριος (del κηδεμιών e del ϕροντιστῆς). Questa tutela, peraltro, ha un carattere diverso da quella romana. Il tutore viene nominato a mezzo del testamento, talvolta dai genitori nel contratto matrimoniale, oppure è designato dal magistrato. Non mancano nell'epoca romana esempî di applicazione del ius liberorum, per cui le donne sono liberate dalla tutela muliebre. In varî documenti si menziona il συνεστών e il συμπαρών. Secondo il Castelli si tratterebbe di un istituto di carattere locale: non potendosi concepire in Egitto la mancanza del tutore alla donna, si attribuiva anche alle aventi il ius liberorum un facente funzione di κύριος.
Bibl.: L. Beauchet, Histoire du droit privé de la République Athénienne, Parigi 1897, II, p. 146 segg.; V. Arangio Ruiz, La successione nei papiri greco-egizi, Napoli 1905; id., Erede e tutore, in Atti Accad. Napoli, LIII; id., Persone e famiglia nel diritto dei papiri, Milano 1930, p. 45 segg.; Meier-Schoemann-Lipsius, Das attische Recht und Rechtsverfahren, II, Lipsia 1912, p. 520 segg.; L. Mitteis e U. Wilcken, Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde, II, i, Lipsia 1912, p. 248 segg.; E. Weiss, Griechisches Privatrecht, I, ivi 1923, p. 112 segg.; E. Castelli, Scritti giuridici, Milano 1923, p. 205 segg.; U. Wilcken, in Arch. für Papyrusforsch., X, p. 88 segg.; R. Taubenschlag, in Zeitschr. d. Saovigny-Stiftung, XLIX (1929), p. 115; id., Studi in onore di Bonfante, I, pp. 389, 409; P. Frezza, in Aegyptus, XI, p. 363 segg.
Diritto romano. - La connessione intima della tutela con l'eredità, crescente via via che si risale indietro nel tempo, rende probabile la tesi, sostenuta da P. Bonfante, che nelle origini del diritto romano tutore ed erede dovessero essere una sola persona. Le XII tavole col celebre precetto uti legassit super pecunia tutelave suae rei ita ius esto accordarono, forse per la prima volta, di investire della tutela persona diversa dall'erede, e spuntò allora per la prima volta il nome di tutela a designare l'ufficio ormai non più assorbito nella hereditas. Certo è che nelle origini la tutela ci appare più un potere e un diritto che una funzione esercitata nell'interesse della persona protetta ed è indicata con le designazioni di manus, potestas, ius, non altrimenti che il diritto del paterfamilias. Questo carattere potestativo ed egoistico dell'istituto è ancor vivo nella definizione di Servio Sulpicio, nella quale peraltro la funzione protettiva è già messa in rilievo: tutela est vis ac potestas in capite libero ad tuendum eum qui propter aetatem suam (vel sexum: soggiungeva il testo classico) sponte se defendere nequit, iure civili data ac permissa (Dig., XXVI,1, de tut.,1, pr.).
Nel diritto antico, e ancora nel diritto classico, erano soggette a tutela le donne sui iuris. Ma, per essere questa tutela disadatta alla nuova società (la giustificazione addotta della levitas dell'animo femminile è detta nelle Istituzioni di Gaio, I, 190, magis speciosa quam vera), l'opera costante della giurisprudenza e della legislazione è rivolta a diminuirla e distruggerla. L'auctoritas del tutore (nelle origini, testamentario o legittimo; più tardi, anche dativo, cioè dato dal magistrato) rimase limitata ai negozî dell'antico ius civile e non fu più richiesta nei negozî di diritto pretorio e di diritto delle genti, che crescono di numero e d'importanza. Si usò, poi, dal marito titolare della manus, permettere nel testamento alla moglie che questa si scegliesse il proprio tutore generale, o più tutori secondo i negozî (tutor optivus). Si ammise anche che la donna si potesse assoggettare senza conchiudere matrimonio alla manus di una persona di sua fiducia nella forma della coemptio col patto che il coemptionator la emancipasse: questo diventava suo tutore (tutor fiduciarius) e così la donna veniva sottratta alla tutela mal vista degli agnati. La legislazione si mise sulla via della giurisprudenza. L'imperatore Augusto esentò dalla tutela le donne ingenue madri di tre figli, le liberte madri di quattro. La tutela delle donne è ancor ricordata in una costituzione dioclezianea dell'anno 293; il ius liberorum, che presuppone ancora in vigore questa tutela, in due papiri egizî del 271 e del 350. Nell'Oriente l'istituto non attecchì. Che anzi, l'imperatore Valentiniano II (390) permise alla madre di essere tutrice dei proprî figli; all'avola, dei proprî nipoti. Così, il principio classico tutela virile officium est fu modificato e attenuato nella forma seguente: tutela plerumque virile est officium (interp. Dig., XXVI, I, de tut., 16, pr.; 18).
Oltre alle donne sui iuris, nel diritto classico erano soggetti alla tutela gl'impuberi maschi sui iuris (nel diritto giustinianeo sono soggetti a tutela soltanto gl'impuberi, maschi e femmine, sui iuris). Via via che la tutela perde il suo carattere potestativo e si delinea la sua funzione protettiva, lo stato interviene nell'attribuire questo ufficio (che diventa munus, onus publicum) e nel vigilarne la gestione. Il tutore o gerisce i negozî dell'impubere sui iuris, cioè del pupillo (negotiorum gestio), o dà il suo consenso ai negozî che questi direttamente compie (interpositio auctoritatis). Nelle origini egli non rappresenta nei negozî il pupillo; ma la rappresentanza venne già gradatamente, se pur lentamente, ammettendosi nel diritto classico: d'altra parte, nell'età classica il tutore si dice paene dominus o loco domini, perché ha l'administratio nel senso più ampio e più pregno, che importa anche la facoltà di alienare. Alla evoluzione della rappresentanza corrisponde l'involuzione dell'administratio, in quanto che per gli atti dispositivi del patrimonio il tutore è sottoposto a una continua vigilanza del magistrato. Il tutore può essere designato nel testamento dal titolare della patria potestà (tutor testamentarius); mancando il tutore testamentario, la tutela spetta al tutor legitimus (l'adgnatus nel diritto classico, il cognatus nel diritto giustinianeo). Sono tutori legittimi anche il patronus, i suoi figli, il paterfamilias che ha emancipato un impubere. Il tutore dativo (introdotto dalla lex Atinia e, per le provincie, dalla lex Iulia et Titia quando manchi il tutore testamentario e il tutore legittimo) è nominato dal magistrato. L'ufficio del tutore, volontario quando la tutela era concepita come un diritto, diventa obbligatorio quando si è sempre più accentuato il suo carattere protettivo. Il tutore legittimo poteva rinunciare al suo diritto mediante la in iure cessio, il tutore testamentario mediante l'abdicatio tutelae. La tutela dativa per la sua più recente origine nacque come ufficio obbligatorio. Divenuta la tutela un ufficio obbligatorio, si svilupparono le cause d'incapacità a gestirla e le cause di dispensa (excusationes), assai numerose.
I rimedî concessi dalle XII Tavole erano l'accusatio suspecti tutoris contro il tutore testamentario, l'actio de rationibus distrahendis contro il tutore legittimo: entrambe esperibili durante la tutela con effetto di sospendere il tutore dalla carica, non di sostituirlo. Azione infamante, la prima, era concessa soltanto in caso di frodi nella gestione; per mera inettitudine si ammise più tardi la rimozione senza accusatio: la legislazione giustinianea riassume accusatio e remotio in un unico rimedio che ha due forme: con o senza infamia, secondo che si agisce per il dolo o per la colpa del tutore. Azione penale, la seconda, per le distrazioni compiute dal tutore, era nel duplum del danno patito dal pupillo. Nel diritto giustinianeo l'una e l'altra si dirigono sia contro il tutore testamentario sia contro il tutore legittimo. La più ampia difesa del pupillo, l'actio tutelae, spuntò sulla fine dell'età repubblicana. Competeva contro il tutore o, se erano più, contro i tutori gerenti in solidum, ma si estese utilmente e sussidiariamente anche contro i tutori esonerati dall'amministrazione. Competeva al termine della tutela. Ancora nell'età classica la responsabilità del tutore sembra che fosse limitata al dolo, e una sopravvivenza appare la responsabilità, entro questo limite, dell'heres tutoris: nel diritto giustinianeo si estende alla colpa, e precisamente alla cosiddetta colpa in concreto. In taluni casi (particolarmente in caso di assenza e di diffusa negotia) il tutore poteva chiedere periculo suo la costituzione di un curator o di un actor. Nel diritto giustinianeo questo curator adiunctus non è più costituito periculo tutoris e spunta la figura del curator in locum tutoris. La garanzia per la buona amministrazione della tutela è data preventivamente dal tutore stesso, fino dai tempi dell'imperatore Claudio, mediante cauzione (satisdatio rem pupilli salvam fore); inoltre, da una serie di altre persone (sponsores nel diritto classico, fideiussores nel diritto giustinianeo; affirmatores; postulatores; magistrati municipali). Venne accordato al pupillo il privilegium exigendi e da Costantino un'ipoteca legale generale sui beni del tutore. Questi ha contro il pupillo la contraria actio tutelae.
Mentre nel diritto classico, raggiunta l'età pubere, il pupillo acquistava la piena capacità di agire e al pubere minore di venticinque anni era dato un curatore, prima ad singula negotia, poi generale, se lo chiedeva, nel diritto postclassico giustinianeo il pubere sui iuris è obbligatoriamente sottoposto a cura fino al raggiungimento del venticinquesimo anno, e, essendo la sua capacità di agire limitata come quella dell'impubere, sostanzialmente si può dire che la tutela si prolunga fino ai 25 anni.
Diritto intermedio. - Il termine di 18 anni, come età maggiore, si trova nei territorî bizantini, nel Napoletano, in Sicilia, in Sardegna, presso i Longobardi: per i Germani, virtus facit legitimam aetatem; quindi era pienamente capace chi avesse ricevuta la solenne investitura delle armi. Nel diritto feudale l'età maggiore cominciava a 14 anni (a 14 il Franco giurava fedeltà al re); gli statuti fissarono varî limiti: i 25 anni a Milano e nel Friuli.
Nel diritto volgare, con un vero ricorso storico, la tutela si era ridotta, come nell'antico diritto romano, a istituto ispirato più al vantaggio collettivo della famiglia che a quello personale del pupillo. Di qui, la prevalenza della tutela legittima. Morto il padre, gli agnati esercitavano la tutela sui pupilli per garantire gl'interessi della famiglia che essi rappresentavano e i loro diritti di aspettativa sulla successione dei pupilli stessi. Occorreva una speciale disposizione del testatore, perché gli agnati fossero posposti. Questa concezione della tutela si accostava a quella germanica che, per la persistenza del condominio famigliare, considerava la tutela come un diritto di tutta la famiglia. Dal concetto medievale, romano-volgare e germanico, che la tutela fosse diritto della famiglia e istituto nell'interesse della famiglia stessa, nacque il consiglio di famiglia. Con la nomina del tutore la famiglia non si disinteressava della gestione del patrimonio pupillare: il tutore non era che un suo organo e delegato, e la famiglia interveniva negli atti più importanti. La distinzione giustinianea fra tutela e cura dei minori, distinzione meramente formale, non si mantenne: i glossatori non distinguono più; dottrina e pratica le assimilarono. Così la cura fu assorbita dalla tutela, e questo sistema seguirono i codici moderni.
Risorse nell'antico diritto germanico anche la tutela muliebre. Presso i Germani la donna era tenuta nel mundio perpetuo e nulla poteva alienare senza l'assenso del tutore. Anche nell'epoca comunale il desiderio di conservare uniti i beni nelle mani dei maschi e di impedire l'espatrio di ogni ricchezza, come fece escludere, dove più dove meno, la donna dalla successione legittima, ne fece limitare la capacità tenendola sotto la tutela perpetua, quando non avesse padre o marito, del fratello o dell'agnato.
Bibl.: Diritto romano: A. F. Rudorff, Das Vormundschaftsrecht, voll. 3, Berlino 1821-34; F. Glück, Pandekten (nella trad. it. di C. Fadda e P. E. Bena), Milano 1888 e segg.; P. Bonfante, Corso di diritto romano, I: Famiglia, Roma 1925, pp. 403-472, dove è fatta una organica e critica revisione dell'istituto e dove a p. 403, n. 1, è raccolta una ricca bibliografia, alla quale sono da aggiungere: V. Arangio-Ruiz, Responsabilità contrattuale in diritto romano, 2a ed., Napoli 1933; M. Lauria, Periculum tutoris, in Studi in onore di S. Riccobono, III, Palermo 1933; J. Vážný, Svolgimento della responsabilità per colpa nel diritto romano, in Acta Congressus iuridici internationalis, I, Roma 1935.
Diritto intermedio: L. Amiable, Essai historique sur l'âge de la majorité, in Revue hist. de droit fr. et étr., VII (1861), p. 205; W. Wackernagel, Die Lebensalte, Basilea 1862; F. Rive, Geschichte der deutschen Vormundschaft, Brunswick 1862; J. Flach, Étude historique sur la durée et les effets de la minorité, Parigi 1870; M. Roberti, Ricerche intorno alla tutela dei minorenni, Padova 1904-06; F. Schupfer, La tutela dei minori nel diritto longobardo, Torino 1906; G. Salvioli, Storia del diritto italiano, 3a ed., Torino 1930, passim; E. Besta, Le persone nella storia del diritto italiano, Padova 1931, p. 115 segg., e bibliografia nel trattato del Salvioli e in quello del Besta.
Diritto italiano vigente. - È un ufficio civile, di ordine pubblico (munus publicum), obbligatorio e gratuito, deferito per legge, o, in virtù di essa, per disposizione dell'uomo, a una persona affinché abbia cura del minore non emancipato, che non abbia genitori viventi o capaci di esercitare la patria potestà, o dell'interdetto, lo rappresenti negli atti civili e ne amministri i beni. Il codice civile regola, negli articoli 241-309, la tutela dei minori non emancipati; nell'art. 329 richiama le anzidette disposizioni per applicarle agli interdetti giudiziarî; l'ultimo capov. dell'art. 32 del codice penale richiama le norme della legge civile sulla interdizione giudiziale per applicarle all'interdizione legale.
Gli organi della tutela sono tre: il tutore, il protutore e il consiglio di famiglia. Tutti e tre detti organi svolgono la loro azione sotto la direzione del pretore.
Tutela dei minori non emancipati. - Essa si apre quando entrambi i genitori siano morti o assenti o abbiano perduto per condanna penale la patria potestà (art. 241 cod. civ.). Per i figli illegittimi (naturali riconosciuti o dichiarati) la tutela si apre quando per la medesima causa sia cessata la cosiddetta tutela legale attribuita dall'art. 184 cod. civ. ai genitori naturali e che è un potere quasi simile alla patria potestà, avendone tutti i diritti e doveri salvo l'usufrutto legale.
L'art. 250 cod. civ. fa obbligo all'ufficiale dello stato civile che riceve la dichiarazione di morte di una persona che abbia lasciato figli in minore età, o davanti il quale una vedova abbia contratto matrimonio, al tutore nominato dal genitore o a quello designato dalla legge e ai parenti che, per legge, sono membri del consiglio di famiglia, di denunziare al pretore, sotto pena dei danni in solido, il fatto che dà luogo all'apertura della tutela. Aperta la tutela, il pretore convoca, nel più breve termine possibile, il consiglio di famiglia.
Il tutore può essere testamentario, legittimo o dativo. Solo il genitore superstite, che al momento di sua morte, esercita la patria potestà, ha il diritto di nominare, per testamento o per atto notarile, il tutore al figlio (artt. 242, 243 cod. civ.). Quando non vi sia tutore così nominato, subentra il tutore legittimo: la tutela spetta, allora, di diritto, all'avo paterno e, in sua mancanza, all'avo materno (art. 244 cod. civ.). Mancando anche il tutore legittimo, vi subentra quello dativo, nominato dal consiglio di famiglia (art. 245 cod. civ.). Per i figli naturali il tutore non può essere che dativo, non esistendo per essi né patria potestà, né vincoli famigliari con gli avi. Il tutore, qualunque sia il numero dei figli, non può essere che unico (art. 246 cod. civ.).
Accanto al tutore esiste il protutore: il tutore non può assumere l'esercizio della tutela se non vi è il protutore: non essendovi, egli deve promuoverne la nomina senza ritardo, pena la rimozione e il risarcimento dei danni. Il protutore è soltanto testamentario o dativo (art. 264 cod. civ.). Egli non ha funzione di sorveglianza sul tutore: ma lo sostituisce soltanto nei casi in cui l'interesse del minore sia in opposizione con quello del tutore. È pure tenuto a promuovere la nomina di un nuovo tutore in caso di tutela vacante o abbandonata, e, frattanto, egli rappresenta il minore, e può fare tutti gli atti conservativi e anche amministrativi che non ammettono dilazione (art. 266 cod. civ.).
Il consiglio di famiglia si compone del pretore, che lo convoca e lo presiede, del tutore, del protutore e di quattro consulenti che la legge distingue in consulenti di diritto e consulenti elettivi. Sono consulenti di diritto, quando non fanno parte del consiglio di famiglia in altra qualità: gli ascendenti del minore, i fratelli e le sorelle germane; gli zii e le zie. In ciascun ordine saranno preferiti i prossimi e, a parità di grado, i più anziani (art. 252 cod. civ.). Quando manchino i consulenti di diritto, o non siano in numero sufficiente, il pretore deve nominare allo stesso ufficio altre persone, per quanto sia possibile e conveniente, tra i prossimi parenti e affini del minore. Per la validità delle deliberazioni del consiglio di famiglia, si richiede la convocazione di tutti i membri di esso e la presenza di almeno tre, oltre il pretore. Il minore, che ha compiuto i sedici anni, ha diritto di assistere alle deliberazioni del consiglio, di cui gli sarà, perciò, notificata la riunione (art. 251).
Sono incapaci ad assumere gli uffici tutelari: a) coloro che non abbiano la libera amministrazione del loro patrimonio; cioè, i minori, anche emancipati, gl'interdetti e gl'inabilitati; b) tutti quelli che abbiano o siano per avere, o dei quali il padre, la madre, i discendenti o il coniuge siano per avere col minore una lite in cui si trovi messo in pericolo lo stato del minore o una parte notevole delle sue sostanze (art. 268).
Sono esclusi o rimossi dai medesimi uffici: a) i condannati a una pena criminale, cioè alla pena di morte, all'ergastolo, all'interdizione perpetua dai pubblici ufficî, alla reclusione e alla detenzione per un tempo non inferiore nel minimo ai tre anni; b) i condannati alla pena del carcere per furto, frode, falso o per reati contro i buoni costumi; c) le persone di notoria cattiva condotta e quelle notoriamente incapaci di amministrare o di provata infedeltà o trascuratezza o colpevoli di abuso di autorità nell'esercizio della tutela; d) i falliti non riabilitati (art. 269). Le cause di esclusione o rimozione non operano di diritto, come quelle d'incapacità.
Casi speciali di esclusione e rimozione del tutore o del protutore. - Il tutore è escluso per la mancata prestazione della cauzione, quando non ne sia stato dispensato con deliberazione del consiglio di famiglia omologata dal tribunale (art. 292, 3° capov.). Il tutore può essere rimosso: a) quando non promuova la nomina del protutore (art. 265, 2° cap.); b) quando non faccia l'inventario nel termine o nei modi di legge o lo faccia infedele (art. 288); c) quando non dichiari i suoi debiti verso il minore (artt. 285, 286); d) quando non vi sia iscrizione dell'ipoteca legale a favore del minore (artt. 292, 293). Per quest'ultima causa può essere rimosso anche il protutore (art. 1984).
Sono dispensati dagli uffici tutelari: a) i principi della famiglia reale salvo che si tratti di tutela di altri principi della stessa famiglia, b) i presidenti delle camere legislative; c) i mmistri segretarî di stato; d) i presidenti del Consiglio di stato, della Corte dei conti, delle corti giudiziarie (di appello o cassazione) e i capi del pubblico ministero presso le corti medesime; e) i segretarî e direttori delle amministrazioni centrali del regno e i capi delle amministrazioni provinciali (art. 272).
Hanno diritto ad essere dispensati dagli uffici tutelari: a) coloro che abbiano l'età di 65 anni compiuti; b) coloro che siano affetti da grave e permanente infermità; c) il padre o la madre di cinque figli viventi, comprendendo i figli morti in attività di servizio nell'esercito nazionale; d) chi sia già incaricato di una tutela; e) i militari in attività di servizio; f) coloro che hanno missioni dal governo fuori del regno e che per ragioni di pubblico servizio risiedono fuori del territorio del tribunale in cui si costituirà la tutela (art. 273).
L'esercizio della tutela importa un triplice ordine di attribuzioni:
A) Il tutore ha la cura personale del minore, lo rappresenta negli atti civili e ne amministra i beni (art. 277). La cura della persona del minore ne comprende il mantenimento, l'educazione e l'istruzione. Quando, però, la tutela non è esercitata dall'avo paterno o materno, il consiglio di famiglia potrà deliberare sul luogo in cui il minore debba essere allevato e sull'educazione che convenga dargli, sentito lo stesso minore, quando abbia compiuto gli anni dieci (art. 278).
Se il tutore ha gravi motivi di doglianza per la cattiva condotta del minore, ne riferirà al consiglio di famiglia il quale potrà autorizzarlo a provocare dal presidente del tribunale il collocamento in una casa di correzione (art. 279).
B) Il tutore è il rappresentante legale del minore: compie, in nome e per conto di questi, tutti gli atti che lo riguardano. Ma qui bisogna distinguere: a) gli atti che il tutore può compiere da solo e sono tutti quelli che non eccedono la semplice amministrazione; b) gli atti che il tutore non può compiere senza l'autorizzazione speciale del consiglio di famiglia: riscuotere capitali, farne impiego: cedere, trasferire credito o carte di credito; fare acquisto di beni mobili o immobili: fare locazioni eccedenti il novennio; accettare eredità, sempre col beneficio d'inventario, o ripudiarle: accettare donazioni o legati sottoposti a pesi o condizioni: provocare divisioni giudiziarie: consentire ai patti di cui all'art. 989: promuovere azioni in giudizio, a eccezione delle azioni possessorie, o delle questioni relative al conseguimento delle rendite, salvo i casi di urgenza (art. 296); c) gli atti per i quali l'autorizzazione del consigho di famiglia deve essere omologata dal tribunale e cioè le alienazioni d'immobili o di mobili, la costituzione di pegno o d'ipoteca dei beni del minore, i mutui, le transazioni, i compromessi e le divisioni in cui sia interessato il minore (art. 301), le rinunzie alla prescrizione (art. 2108), la cancellazione d'ipoteca che garantisce il credito del minore (art. 2038).
Gli atti compiuti dal tutore senza la richiesta autorizzazione e omologazione, o nei quali vi sia conflitto d'interessi, sono annullabili (art. 1303, n. 1 e 3), ma dove si tratta di contratto, questo resta vincolativo per l'altra parte contraente, a meno che questa non sia incapace (art. 1107). Il tutore e il protutore non possono comprare i beni del minore nemmeno all'asta pubblica, né possono rendersi cessionarî di diritti o crediti verso di lui. Possono prendere, però, in affitto i beni del minore con l'autorizzazione del consiglio di famiglia (art. 300).
C) Per quanto riflette l'amministrazione, vanno distinti gli atti preliminari dagli atti di amministrazione propriamente detta. 1. Gli atti preliminari sono: a) la confezione dell'inventario, a cui il tutore deve provvedere, nonostante qualunque dispensa, entro i dieci giorni successivi a quelli in cui ha avuto legale notizia della sua nomina (artt. 281-289); b) la vendita dei mobili del minore, entro i due mesi dopo formato l'inventario, salva autorizzazione del consiglio di famiglia a conservarli in tutto o in parte (art. 290); c) la prestazione di cauzione, a meno che non sia l'avo paterno o materno o non ne sia stato dispensato, nella misura indicata dal consiglio di famiglia (artt. 292, 293). 2. Durante l'amministrazione, gli obblighi del tutore sono: a) condurla con diligenza di buon padre di famiglia; b) presentare ogni anno, nonostante dispensa, al consiglio di famiglia, il conto della sua amministrazione, a meno che non sia avo paterno o materno (artt. 303-304); c) tramutare in nominativi i titoli al portatore che si trovino nel patrimonio del minore, alienare o liquidare gli stabilimenti di commercio o d'industria, a meno che il consiglio di famiglia non deliberi, per i primi, un altro modo d'impiego, e per i secondi - con l'omologazione del tribunale - la continuazione dell'esercizio per evidente utilità del pupillo (artt. 298-299).
La tutela cessa: a) per cause obiettive, cioè per morte, maggiore età o emancipazione del minore; b) per cause subiettive del tutore, cioè per la sua morte, incapacità sopravvenuta, rimozione o dispensa. Cessata la tutela, il tutore è tenuto a renderne il conto, nonostante qualunque dispensa (artt. 302-305). Le azioni del minore contro il tutore e il protutore e quelle del tutore verso il minore, relative alla tutela, si prescrivono in dieci anni, computabili dal giorno della maggiore età o della morte dell'amministrato, salvo le cause generali d'interruzione o sospensione della prescrizione (art. 309).
La tutela dei minori illegittimi va considerata: a) rispetto ai figli naturali riconosciuti o dichiarati. Per essi si apre quando cessa la tutela legale del genitore che li riconobbe ed è regolata come la tutela ordinaria. Siccome, poi, non esiste una famiglia naturale, invece del consiglio di famiglia, si costituisce un consiglio di tutela, che si compone del pretore e di quattro persone da lui scelte fra quelle che abbiano avuto relazioni abituali di amicizia col genitore: a questo consiglio si applicano le norme dettate per il consiglio di famiglia; b) rispetto ai minori di filiazione ignota bisogna distinguere se essi siano, o no, ricoverati in un ospizio. Per quelli ricoverati in un ospizio, siano o no illegittimi, purché non siano noti i genitori, il consiglio d'amministrazione costituisce il consiglio di tutela, che funziona senza l'intervento del pretore, e può eleggere, ove le circostanze lo esigano, uno degli amministratori per esercitare le funzioni di tutore (art. 262). Se i minori non sono ricoverati in un ospizio, si costituisce il consiglio di tutela, composto dal pretore e da due altre persone scelte dal pretore stesso (art. 261).
Speciali norme, contenute nello statuto del regno e nella legge 2 luglio 1890, n. 6917, regolano la tutela del re e dei membri della famiglia reale.
In occasione del terremoto calabro siculo del 1908 si presentò la necessità di dare particolare ordinamento alla tutela dei minorenni abbandonati, o i cui genitori fossero morti o irreperibili o non più in grado, per infermità o per altre cause, di esercitare la patria potestà o la tutela; affidata la tutela legale di costoro all'opera nazionale di patronato Regina Elena, essa fu esercitata dal consiglio di vigilanza, cui si applicò la norma dell'art. 262 del cod. civ. (art. 429 decr. legge 5 novembre 1916, n. 1526).
L'istituto della tutela, così come è regolato dal codice civile, è stato oggetto, e non da tempo recente, di molte critiche. La commissione reale per la riforma del codice civile, ha risolto il problema nel senso di dare all'istituto stesso una più efficace disciplina allo scopo di conseguire una più estesa difesa dei minorenni privi di genitori.
Per la tutela dell'interdetto, v. interdizione: Interdizione giudiziale; Interdizione legale. V. anche: capacità giuridica; cura; minore età.
Bibl.: G. Boggio, Delle persone fisiche incapaci, voll. 2, Torino 1888-89; M. Roberti, Ricerche intorno alla tutela dei minori, Padova 1904-05; G. Piola, Delle persone incapaci, voll. 2, Napoli 1910-13; R. de Ruggiero, Deroghe e riforme al codice civile in materia di origine e di tutela, in Atti Accad. Napoli, 1920; Magnin, Traité des minorités, tutelles et curatelles, voll. 2, Parigi 1935; Chardon, Traité des trois puissances, paternelle, maritale et tutélaire, voll. 3, ivi 1842-43; J.-J. Fréminville, Traité de la minorité et de la tutelle, voll. 2, ivi 1846; Dufour, Traité complet de la tutelle et de l'administration légale, Lilla 1887.