Tycoon dall'Est: l'Asia nel pallone
Dopo l’entrata nel mondo del calcio europeo attraverso le grandi sponsorizzazioni, Oriente e Asia giocano ora un’altra carta: entrare direttamente nella proprietà di club europei, in attesa di crearne di propri. E l’Europa sarà sempre meno centrale negli scenari futuri del suo sport più amato.
Imprevista e imprevedibile, la vittoria del Leicester City nell’edizione 2015-16 della Premier league inglese ha tutti i crismi per essere considerata una pietra miliare nella storia del calcio europeo, e non è un caso che il trionfo delle Foxes – le volpi, simbolo societario dal quale squadra e calciatori mutuano il soprannome – sia stato capace di calamitare l’interesse di tutto il mondo per almeno 2 motivi fondamentali. Da un lato c’è l’epopea di una società che, in 132 anni di esistenza, mai aveva nemmeno sfiorato certe vette, eppure ha interrotto il dominio oligarchico dei 4 club (Manchester United, Manchester City, Chelsea e Arsenal) che in 20 anni si sono divisi le vittorie del campionato più ricco del mondo. Dall’altro, un punto di svolta epocale: per la prima volta, infatti, a trionfare in uno dei maggiori tornei calcistici europei è stata una società controllata da un tycoon asiatico, il magnate thailandese Vichai Srivaddhanaprabha.
Il profilo sportivo dell’impresa del Leicester City è lampante: basti pensare che le quote dei bookmakers britannici, agli albori della passata stagione di Premier league, promettevano di pagare 5000 volte la posta giocata dagli scommettitori in caso di vittoria della squadra allenata dal tecnico italiano Claudio Ranieri. Eppure i pochi che hanno tentato l’azzardo, puntando sull’improbabile apoteosi di una squadra tradizionalmente in bilico tra prima e seconda divisione, hanno sbancato le agenzie portando a casa cifre considerevoli: merito di una squadra organizzata sugli stilemi del classico calcio all’italiana tutto solidità difensiva e contropiede, dei 24 gol di Jamie Vardy, della fisicità della retroguardia garantita dagli ultratrentenni Wes Morgan – il capitano – e Robert Huth, dell’esplosione di Danny Drinkwater e Riyad Mahrez e dello strapotere di N’Golo Kanté in mediana. Una sorpresa, quasi una favola, ma non un miracolo, perché sarebbe fuorviante considerare il Leicester City, manzonianamente, vaso di coccio tra vasi di ferro: è di metallo anche il vaso delle Foxes, magari non pregiato ma certo robusto, forgiato da un’opera di consolidamento finanziario e sportivo che ha inizio con la cessione del club dalle mani di Milan Mandarić, nel 2010, a quelle appunto di Srivaddhanaprabha, proprietario del colosso dei duty free aeroportuali King Power.
Il Leicester City era in seconda divisione quando venne rilevato dalla holding thailandese, che iniziò l’opera di risanamento, completata nel 2013, con la conversione in azioni di 103 milioni di sterline di debito e il ritorno dello stadio – che nel 2002, con il club in amministrazione controllata, era entrato a far parte dei cespiti di un fondo assicurativo statunitense – tra gli asset della società. A quel punto, il Leicester City si è scoperto ricco, ha lanciato l’assalto alla promozione, ottenuta nel 2014, e programmato lo stanziamento di 180 milioni in 3 anni per raggiungere la partecipazione in Champions league. Con un anno di anticipo, è andata già molto meglio di quanto ci si potesse aspettare, mentre nel contempo il patrimonio di Srivaddhanaprabha continuava ad aumentare e, secondo le stime di Forbes, ad agosto 2016 si aggirava sui 3,3 miliardi di dollari.
Al resto hanno contribuito l’attrattività della Premier league, la peculiare distribuzione delle straordinarie risorse garantite dai diritti televisivi (l’accordo triennale 2016-19 porterà complessivamente 7 miliardi di sterline, il 71% in più rispetto al contratto precedente) e la consolidata superiorità del torneo a livello commerciale e di riconoscibilità globale. Ecco perché, nonostante non possa contare sui numeri e sui fatturati di Manchester United o Chelsea, il Leicester City è stato capace di inserirsi fra gli attori più competitivi all’interno di un sistema virtuoso, investendo per migliorare il proprio status sportivo che si è rivelato, di conseguenza, un volano per il rafforzamento della figura di businessman di successo di Srivaddhanaprabha.
Poco importa se non vi sono motivi ‘romantici’ alla base delle operazioni che, nel corso degli anni, hanno visto le proprietà di numerosi club europei entrare nel portafoglio di svariate holding internazionali. Così, mentre Manchester United, Arsenal e Liverpool (oltre a Crystal Palace, Sunderland e Swansea, per restare in Inghilterra) vivono di capitali statunitensi, poco alla volta si è assistito a uno spostamento verso Est delle proprietà dei club del Vecchio continente.
Prima è stata la volta degli oligarchi russi, ben esemplificati da Roman Abramovič e dalle partecipazioni della galassia Gazprom, quindi è toccato ai petroldollari degli sceicchi dell’area del Golfo. Ecco allora l’emiratino Mansour controllare il Manchester City, i qatarioti al-Thani al comando del Paris Saint-Germain e un altro ceppo della dinastia del Qatar alla guida del Malaga.
Infine, l’emergere dei nuovi mercati e del vorace capitalismo del Sud-Est Asiatico e dell’Estremo Oriente ha portato i tycoon locali a entrare prepotentemente in scena. Tra i pionieri Thaksin Shinawatra, ex premier thailandese che riempì di denaro le casse del Manchester City, ritrovandosi all’improvviso tra i big spender del calciomercato già prima dell’era Mansour e ricavando da quell’esperienza una notorietà decisamente superiore a quella ottenuta dalla sua discussa e discutibile esperienza politica. Il City era ai tempi una nobile decaduta, ed è proprio questa la tipologia di club prediletta dagli investitori asiatici: società di storia e tradizione, ma con bacheche pressoché sguarnite o in cui l’era dei trionfi si perde lontana nei decenni, perché iniettando denaro in certi contesti è più facile incidere. Così, per esempio, oggi hanno proprietari asiatici anche Queens Park Rangers, Blackburn Rovers, Reading, Sheffield Wednesday e Cardiff City.
Logicamente, non bastano i denari asiatici per emulare il caso Leicester: come non riuscì nell’intento Shinawatra, hanno fallito pure Carson Yeung (tycoon di Hong Kong travolto dai guai finanziari) a Birmingham e, in fondo, persino Erick Thohir, primo patron asiatico della nostra Serie A, all’Inter.
Senza contare che Medio Oriente e Asia si sono caratterizzate in tempi recenti anche come vere e proprie potenze della sponsorizzazione: si veda, per esempio, l’esperienza del fondo Qatar sports investments che, per primo, è stato capace di violare l’immacolata maglia del Barcellona. Sponsorizzare, a certe cifre, significa valorizzare presso centinaia di milioni di appassionati un determinato marchio e stabilire rapporti e sinergie capaci di penetrare in nuovi e significativi spazi commerciali: questo perché la penetrazione del calcio nel tessuto sociale europeo rende appetibile l’ingresso nel business soprattutto a coloro che mirano ad ampliare il proprio posizionamento e la propria riconoscibilità nei rispettivi mercati.
Allo stesso modo ora tocca ai magnati cinesi, spinti dal presidente Xi Jinping che vede nel calcio uno strumento fondamentale per lo sviluppo in termini di immagine e di soft power della nuova Repubblica Popolare, e che fra l’altro ha lanciato, nell’aprile 2016, un piano di sviluppo educativo e strutturale per il calcio cinese mirante ad aumentare il numero di tesserati e appassionati insegnando il gioco già nelle scuole, e a posizionare il paese entro il 2050 nell’élite calcistica tanto come attività di base quanto come risultati della nazionale. Considerata la benedizione dall’alto, non è pertanto casuale, nell’ultimo biennio, la proliferazione delle acquisizioni di club europei da parte di capitali provenienti dalla Cina, tanto che oggi Aston Villa, Birmingham City e Wolverhampton Wanderers in Inghilterra, Espanyol e Granada (e un 20% dell’Atlético Madrid) in Spagna, Inter e Milan in Italia, sono finite nelle mani di holding con base e management cinesi. La conseguenza? Un cambio di prospettiva che rende l’Europa sempre meno centrale negli scenari futuri del suo sport più amato e popolare.
Il calcio in Cina: la scommessa di Xi Jinping
Ai vertici del calcio asiatico entro il 2030 e tra le grandi nazionali a livello mondiale entro il 2050, perché quando si è una potenza geopolitica globale pensare in grande è un imperativo.
È questo il sogno del presidente della Cina – e grande appassionato di calcio – Xi Jinping, che può già fare sfoggio di atleti che primeggiano in diverse discipline sportive – dai Giochi estivi del 2000 la Cina occupa stabilmente una delle prime 3 posizioni nel medagliere olimpico – ma che evidentemente non si accontenta. Le risorse ci sono, e un piano ‘di medio e lungo periodo’ per raggiungere l’obiettivo è già stato definito: entro il 2020, la Cina potrà contare su 20.000 accademie calcistiche per formare i giovani campioni, e sempre entro questa data saranno ben 50 milioni i cittadini cinesi che praticheranno lo sport del calcio, tra cui 30 milioni di bambini delle scuole elementari e ragazzi delle scuole medie. Nei prossimi 4 anni, 50 città cinesi dovranno poi mettere a punto tornei di livello amatoriale, e perché il programma sia rispettato, sarà anche necessario raddoppiare il numero degli arbitri. Dal punto di vista infrastrutturale, il grande obiettivo è quello di arrivare a disporre entro il periodo 2021-30 di un campo da calcio ogni 10.000 abitanti, passando per il traguardo intermedio di 0,5-0,7 campi entro il 2016-20 e adoperandosi, già nei prossimi 4 anni, per la ristrutturazione o la costruzione ex-novo di 60.000 impianti. Per chi contribuirà al piano, poi, il governo ha già predisposto una serie di agevolazioni fiscali. È soprattutto la nazionale maschile a doversi impegnare a fondo per raggiungere gli ambiziosi obiettivi fissati nel piano: nel ranking stilato dalla FIFA nel settembre 2016, la rappresentativa occupava infatti il 78° posto su 210 nazionali, e l’unico risultato di una certa rilevanza nel recente passato è stato il secondo posto nella Coppa delle nazioni asiatiche disputata in casa nel 2004. Quanto ai campionati mondiali, l’unica partecipazione nel 2002 è stata un flop: 0 punti nel girone ed eliminazione immediata, senza neanche un goal segnato.
Va meglio alle donne, che nel ranking FIFA di settembre 2016 occupavano la 13ª posizione, nel 2006 hanno vinto la Coppa delle nazioni asiatiche e nell’ultima edizione della competizione sono giunte terze, fermandosi invece ai quarti di finale nei Mondiali del 2015. Anche a loro sarà chiesto di migliorare nei prossimi anni.
Il piano riguarda però anche i club, e mira a far sì che 2-3 squadre cinesi raggiungano i vertici del calcio asiatico e siano riconosciute anche a livello mondiale. Sotto questo profilo, alcuni risultati interessanti sono già stati raggiunti negli ultimi anni, con il Guangzhou Evergrande che nel 2013 e nel 2015 ha vinto la Champions league asiatica, sotto la guida prima di Marcello Lippi e poi di Felipe Scolari, 2 allenatori campioni del mondo. Grazie alla notevole disponibilità di risorse, la Cina sta diventando un mercato sempre più interessante, e nei prossimi anni non avrà difficoltà ad attirare calciatori alla ricerca di contratti milionari.
Il Qatar verso i Mondiali 2022
Un paese che galleggia su gas e petrolio, e che oggi conta sul PIL pro capite più alto del mondo. Una dinastia regnante, quella degli al-Thani, eccezionalmente dinamica e capace di diversificare i suoi investimenti, puntando con forza anche sul mondo dello sport. Nel 2010, l’allora presidente della FIFA Sepp Blatter sorprese tutti annunciando che i Mondiali del 2022 si sarebbero tenuti in Qatar, attore geopolitico emergente ma totalmente marginale sotto il profilo calcistico, tanto da essere a oggi l’unico paese che – a meno di un’improbabile qualificazione a Russia 2018 – ospiterà un campionato del mondo senza essere mai riuscito a qualificarsi alla competizione.
■ Investimenti da capogiro. L’evento sportivo rappresenterà per il Qatar un’occasione unica per mostrarsi al mondo, e per questo gli emiri non intendono lasciare nulla al caso. 200 miliardi di dollari: è questo il valore dell’ambizioso programma di investimenti che Doha ha avviato in vista del torneo, così da garantire al paese una rete stradale e un sistema ferroviario completamente rinnovati, un nuovo aeroporto, linee della metropolitana e strutture recettive di altissimo livello per accogliere i tanti turisti che raggiungeranno il paese. Per gli stadi – 12, di cui 9 da costruire – la spesa dovrebbe invece attestarsi tra gli 8 e i 10 miliardi, mentre a Doha sperano che la Aspire Academy – che forma i talenti sportivi del Qatar – riesca a produrre in tempo qualche giovane campione pronto a calcare i campi nel 2022.
■ Le immancabili polemiche. Attorno all’evento non sono mancate le polemiche. La prima questione ha riguardato il clima, vista l’impossibilità per gli atleti di giocare in un paese in cui, d’estate, si superano con costanza i 40 °C: per ovviare al problema, nonostante le difficoltà a livello organizzativo legate all’interruzione dei calendari delle squadre di club, il mondiale dovrebbe giocarsi tra novembre e dicembre. In secondo luogo, con lo scoppio dello scandalo corruzione all’interno della FIFA, sono stati avanzati molti dubbi sulla trasparenza dell’assegnazione della competizione allo Stato emiratino. Infine, alcune ong per la tutela dei diritti umani hanno denunciato lo sfruttamento degli operai immigrati – provenienti soprattutto da Bangladesh, India e Nepal – che lavorano alle infrastrutture destinate ai Mondiali. Secondo i calcoli della Confederazione sindacale internazionale, a fine 2015 ben 7000 operai erano morti in quei cantieri, una cifra impressionante che però Doha nega con fermezza.