ZANETTI, Ubaldo
– Nacque a Bologna il 16 maggio 1698, figlio di Pellegrino, che nel 1691 aveva ottenuto la licenza di esercizio alla professione di speziale, e di Anna Giacoma Martinelli, veneziana, andata sposa con la dote di lire 6000 a Pellegrino nel 1695, dopo aver partorito nell’anno precedente Pietro, frutto di una relazione con il conte Vincenzo Bargellini.
Grazie alla cospicua dote della moglie Pellegrino acquistò un capitale di spezieria nella bottega all’insegna del Melone, situata nel Torresotto di San Martino, che accumulò un passivo e rivendette nel 1697.
Zanetti frequentò a Bologna le Scuole pie ove apprese a leggere, scrivere e far di conto, senza proseguire gli studi in forma ufficiale, anche se gradualmente acquisì da autodidatta una considerevole formazione culturale umanistica. Seguì comunque le orme del padre ed entrò fra 1715 e 1716 in qualità di apprendista nella spezieria dei fratelli Trebbi, in via degli Orefici, all’insegna del Pomo d’oro. Nel 1720 superò con successo la prova di garzone e l’anno seguente quella di maestro, divenendo, come egli stesso si definì, uno «speciale medicinalista o sia spargirico» (R. De Tata, All’insegna della Fenice, 2007, p. 28). Nell’anno successivo morì il padre, e Zanetti, dopo un breve periodo alla spezieria di S. Paolo, passò nel 1723 a quella del Sole, gestita da Giacomo Mazzanti, in via Galliera (nel frattempo anche il fratello minore Giuseppe venne avviato alla stessa attività). Nel 1727 acquistò con un socio il capitale «vivo morto ad uso di speciaria» della medesima bottega per lire 8000, spesa che coprì parzialmente con la dote materna (ibid., p. 37). In seguito ad alcune divergenze con il socio, spostò il suo esercizio in un nuovo locale che recava l’insegna della Fenice, nei pressi dell’orfanotrofio di S. Bartolomeo di Reno. Nel 1750 si verificò un ulteriore trasloco e Zanetti gestì la sua attività in una bottega allestita al pianoterra di palazzo Fibbia, sempre in via Galliera.
Nel settembre del 1748 Zanetti, in seguito a denuncia di parte (ma la notitia criminis perveniva da un informatore segreto), fu fermato mentre sedeva su una panca alla porta della sua spezieria e portato nelle carceri da un notaio del tribunale del Torrone, un cancelliere e sei sbirri: perquisizioni ripetute e accurate dell’abitazione e della bottega portarono al sequestro di libri e soprattutto di manoscritti, fra cui satire in versi e scritture ritenute offensive della buona fama di dame e di cavalieri della città, ma soprattutto lesive del governo cittadino. Una di esse, alludendo al legato Giorgio Doria, recitava: «Che Cardinal coglion regge Bologna»; in un’altra il vicelegato era qualificato dell’epiteto di «Vera faccia d’impiccato»; una terza si apriva con le parole «Governo ecclesiastico di Bologna che disgrazia maledetta» e si concludeva «Quella anch’io tengo nel c...». In un’altra scrittura si invitava ironicamente chi avesse ritrovato il cervello perduto dal legato a portarlo all’Opera dei mendicanti, dove verrà esposto «in un camerino per curiosità» (Archivio di Stato di Bologna, Torrone, 8108/3, f. 95; Frati, 1907, pp. 81, 84 s.). Il possesso di materiali così scottanti comportò ripetuti interrogatori nel corso dei quali il detenuto cercò di sfumare le sue responsabilità, invocando l’attenuante di aver licenza di tenere e leggere libri proibiti e negando di aver fatto circolare le carte infamanti contestate. Zanetti non mancò di menzionare ripetutamente le sue frequentazioni in alto loco, nonché le relazioni culturali intessute con Girolamo Baruffaldi e Francesco Saverio Quadrio, e alluse anche ai pareri che, richiesto, aveva fornito ai ‘superiori’ (ad esempio, trovando i precedenti sulla procedura da adottare nella consegna di un condannato a morte dal S. Uffizio al tribunale laico).
Dopo oltre due mesi trascorsi in carcere, il 1° dicembre 1748 fu condotto al forte Urbano nei pressi di Castelfranco, dove trascorse un anno di relegazione prima di sollecitare la grazia che gli fu rapidamente concessa. Il regime detentivo non dovette essere particolarmente rigido: Zanetti fra l’altro ricevette numerosi ospiti fra nobili, ecclesiastici e colleghi speziali; riuscì a farsi inviare da Bologna carte e libri sia di chimica sia di devozione; s’ingegnò a indagare la storia del forte. Non dimenticava però quella che riteneva un’ingiustizia subita se, con scarsa prudenza, scriveva al musicista padre Giambattista Martini un commento sulla «giustizia (che si puol dire veramente tirannica) che si usa nel dominio de preti» (R. De Tata, All’insegna della Fenice, cit., p. 150). Uscì dunque da forte Urbano e trascorse i primi tre mesi di libertà ospite del marchese Giuseppe Nicola Spada nel suo palazzo. Si è ipotizzato che, colpendo Zanetti, si volesse in realtà colpire Spada, amico e protettore dello speziale, ma anche in aperto dissidio con il cardinale Doria (ibid., p. 136).
Le affermazioni taglienti sul governo ecclesiastico, che trovano riscontro in una missiva diretta da Venezia a Zanetti in cui si auspicano provvedimenti «per impedire che li lupi rapaci mascherati da frati non usurpano maggiormente la robba del povero laico» (ibid., p. 216), convivevano con l’appartenenza a una confraternita (S. Ambrogio della Savenella) e con forme di religiosità tradizionale: così la perquisizione al momento dell’arresto nel 1748 rivelò nelle tasche della giubba un Agnus Dei di Pio V in argento, una corona e diverse devozioni; si era altresì procurato, come oggetto di culto, la lettera di una religiosa morta in odore di santità, sottratta con destrezza da parte di una suora (Archivio di Stato di Bologna, Torrone, 8108/3, f. 95; R. De Tata, All’insegna della Fenice, cit., p. 107).
L’appoggio e la sintonia con esponenti della nobiltà bolognese e l’ampio raggio dei contatti intellettuali consentirono a Zanetti di raggiungere un livello sociale e culturale più elevato rispetto allo standard di uno speziale del suo tempo. L’incartamento processuale documenta, oltre ai legami consolidati con il ceto senatorio bolognese, anche le forme della sociabilità che avevano luogo nella bottega di Zanetti. Questi infatti dichiarò che nella sua farmacia entravano e vi si trattenevano galantuomini, cavalieri e amici, coltivando ora «discorsi indifferenti», ora «discorsi di nove della città», relativamente a nascite, morti, matrimoni e pranzi, ma anche si parlava delle «nove del mondo», specialmente dell’ultima pace (in realtà il trattato di Aquisgrana non era stato ancora siglato), senza però trascurare qualche «discorso virtuoso» (Archivio di Stato di Bologna, Torrone, 8108/3, f. 95).
Fu eletto per tre volte tribuno della Plebe, la magistratura cittadina competente per i problemi annonari, nel 1741, 1748 e poi nel 1755; dunque la macchia del procedimento penale e il periodo di detenzione a Bologna e al forte Urbano non ebbero conseguenze rilevanti sulla sua vita pubblica, probabilmente grazie alle relazioni sociali coltivate in maniera costante con i Bargellini, gli Spada e, meno intensamente, con altre famiglie dell’élite cittadina (Gozzadini, Lambertini, Pepoli, Bolognini).
Zanetti morì il 25 ottobre 1769 a Bologna, dove aveva sempre vissuto salvo la parentesi della prigionia a forte Urbano e alcuni soggiorni a Venezia.
Non aveva mai contratto matrimonio (non andò a buon termine nel 1728 la trattativa per sposare la figlia di un militare ferrarese), i suoi beni, decedendo intestato, pervennero al fratello Giuseppe.
La sua biblioteca era ricca di oltre 3300 volumi, fra cui fogli volanti, copie di avvisi e opuscoli dedicati a eventi prodigiosi, nascite mostruose, fatti militari, casi criminali e presunti miracoli; i diversi campi del sapere erano egualmente rappresentati nel cospicuo fondo librario, anche se vi prevalevano la scienza, la storia e le arti, con anche uno sguardo aperto sulla grande letteratura di viaggio, da Jonathan Swift a Daniel Defoe. I manoscritti erano circa 700, fra cui più di un centinaio di cronache cittadine, oltre alle opere prodotte dall’autore che spaziavano dalla narrazione cronachistica degli eventi contemporanei della sua città alle memorie sui cardinali originari di Bologna, sino alle genealogie familiari e alle liste nominative di medici e speziali, a copie di inventari di corredi nuziali, a liste di libri prestati (Frattarolo, 1982, p. 91). Redasse anche, a uso professionale, due dettagliati inventari dei farmaci e delle droghe conservati nella sua bottega.
Dopo la sua morte il complesso di libri (fra cui 18 incunaboli e oltre 500 cinquecentine), stampe, manoscritti, monete e altri oggetti raccolti nel corso di una vita fu esaminato da un perito; la stima, riferita nel 1770 all’assunteria dell’Istituto delle scienze, ascendeva al valore di circa 13.000 lire, di cui la metà computata per le medaglie e le antichità varie. Ma solo nel 1779 si chiuse la trattativa con un privato, al quale l’erede aveva nel frattempo venduto, e con sole 4000 lire il patrimonio fu acquisito dall’istituto dell’Accademia delle scienze per poi confluire nei fondi della Biblioteca universitaria di Bologna. La collezione di ritratti, raccolti in 33 volumi, componeva una galleria di personaggi storici, laici ed ecclesiastici (non vi mancava Martin Lutero) e di persone comuni, tra cui anche creature mostruose come l’irsuta Antonietta Gonzales o il gigante Bernardo Gigli (Solacini, 2012, pp. 93-95). Questi materiali transitarono in larghissima parte nel 1881 nel patrimonio dell’Accademia di belle arti, per poi passare alla Pinacoteca nazionale di Bologna. Della raccolta di monete, oggetti antichi e reperti di storia naturale si sono invece perdute le tracce.
Ricchissimo il carteggio di Zanetti che vanta le missive di circa seicento corrispondenti e attesta la rete di relazione intessuta con collezionisti ed eruditi, quali Filippo Argelati, i veneziani Pietro Gradenigo e Amedeo Svajer, il fiorentino Domenico Maria Manni e i già ricordati Baruffaldi e Quadrio; un contatto avviato per incontrare Ludovico Antonio Muratori fallì per la morte del modenese.
Si conservano un disegno a penna che ritrae Zanetti diciottenne (Bologna, Pinacoteca nazionale, Gabinetto disegni e stampe, Miscellanea di ritratti, vol. XXI, c. 31) e un altro disegno a matita anonimo, forse di mano di Luigi Crespi, che raffigura l’«aromatario bolognese» in età adulta (Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio, Gabinetto disegni e stampe, cart. Gozzadini 16)
Fonti e Bibl.: L’incartamento processuale è in Archivio di Stato di Bologna, Tribunale criminale del Torrone, 8108/3. Per i manoscritti redatti da Zanetti o da lui posseduti è essenziale il riferimento a R. De Tata, All’insegna della Fenice. Vita di Ubaldo Zanetti speziale e antiquario bolognese (1698-1769), Bologna 2007.
L. Frati, Il processo di un bibliomane, in Il libro e la stampa, I (1907), pp. 81-87; C. Frati, Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e bibliofili italiani dal sec. XIV al XIX, Firenze 1933, pp. 578 s.; L. Frattarolo, U. Z. bibliofilo e speziale. Appunti per una biografia, in Il magnifico apparato. Pubbliche funzioni, feste e giuochi bolognesi nel Settecento, a cura di S. Camerini, Bologna 1982, pp. 91 s., 97; Una città in piazza. Comunicazione e vita quotidiana a Bologna tra Cinque e Seicento, a cura di P. Bellettini - R. Campioni - R. Zanardi, Bologna 2000, passim; C. Solacini, La collezione dei ritratti di U. Z. (1698-1769), in Il Carrobbio, XXXVIII (2012), pp. 87-97.