UBERTI, Manente,
detto Farinata degli. – Nacque, forse a Firenze, non più tardi degli anni Venti del Duecento, da messer Iacopo di Schiatta (morto ante 8 maggio 1242: Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico, Firenze, Santa Croce (Minori), 8 maggio 1242; Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, I, 3.6, c. 44v), e da tale Ravenna, di famiglia ignota (Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, I, 3.6, c. 56v).
Il soprannome Farinata, con il quale è maggiormente noto, è dovuto presumibilmente al colore biondo dei capelli. Gli si conoscono due fratelli, ovvero Ranieri, detto Neri Piccolino e Schiattuzza (Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico, Firenze, Santa Croce (Minori), 8 maggio 1242; Santini, 1919).
Quanto al suo nucleo familiare, prima del 1242 (Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico, Firenze, Santa Croce (Minori), 8 maggio 1242) sposò una Adeleta; non si può peraltro avere la certezza che questo sia stato il suo unico matrimonio. Ebbe almeno otto figli, ovvero i maschi Azzolino, Conticino, Federico, Lapo, Maghinardo, Neri Cozza (Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico, Firenze, Santa Maria degli Angioli (Camaldolesi), 25 luglio 1286; Il Libro del Chiodo, a cura di F. Ricciardelli, 1998, p. 197; R. Davidsohn, Forschungen..., 1896-1908, II, pp. 116 nn. 828, 829, 126 n. 889, IV, pp. 187, 256, 570, 574, 579; Davidsohn, 1896-1927, trad. it. 1956-1968, III, pp. 79, 463; Santini, 1919), nonché le femmine Itta (Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, I, 3.6, c. 23r) e Beatrice, detta Bice, maritata al poeta Guido Cavalcanti nel 1267, ossia dopo la sua morte, in occasione di una delle molte pacificazioni tra le parti fiorentine (G. Villani, Nuova cronica, 1990-1991, II, p. 437; Dino Compagni e la sua cronica, a cura di I. del Lungo, 1879-1887, I, parte II, pp. 1102 s., 1113 e nota 2).
Uberti doveva essere adulto e politicamente attivo sin dagli anni a cavallo tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta allorché scampò con il fratello Neri Piccolino all’agguato teso ai capifazione ghibellini dai guelfi a Campi Bisenzio, e di cui erano entrambi bersaglio prestabilito.
Come narra l’anonima duecentesca Cronica fiorentina detta dello Pseudo Brunetto, nell’occasione trovarono la morte, tra gli altri, il padre Iacopo di Schiatta e Odarrigo Fifanti, autori un quarto di secolo prima di quell’omicidio di Buondelmonti Buondelmonti, che è tradizionalmente ritenuto origine della divisione tra guelfi e ghibellini fiorentini (Cronica fiorentina..., a cura di A. Schiaffini, 1954, pp. 119 s.; Davidsohn, 1896-1927, trad. it. 1956-1968, II, pp. 388 s.; Faini, 2006).
Negli anni successivi, la scomparsa dei capifazione anziani fece verosimilmente aumentare l’autorità di Uberti all’interno della parte ghibellina, e ciò dovette riverberarsi anche sui rapporti di forza in città. Gli anni Quaranta furono infatti contraddistinti dal predominio dei ghibellini, ovviamente favoriti e sostenuti dall’imperatore Federico II, che all’uopo aveva nominato vicario imperiale in Toscana e podestà di Firenze il figlio Federico di Antiochia (Davidsohn, 1896-1927, trad. it. 1956-1968, II, pp. 443-448). Nel 1248 Uberti e il fratello Neri Piccolino parteciparono alla (e forse guidarono) vittoriosa difesa delle case e torri della propria famiglia, ubicate nella zona dell’attuale piazza della Signoria, che erano state attaccate dai guelfi insorti, collegatisi a Ottaviano Ubaldini, cardinale di Santa Maria in via Lata allora vicario pontificio per la Lombardia e la Romagna, i quali, sconfitti, dovettero poi esulare (ibid., II, pp. 457-466).
Nel 1250 Uberti riuscì a vincere le forti resistenze dei concittadini a partecipare a una campagna militare contro i guelfi, condotta nell’Aretino dal vicario imperiale, che ne aveva preventivamente omaggiato la casata con la cessione di almeno tre castelli (Davidsohn, 1896-1927, trad. it. 1956-1968, II, p. 503). Ma il successivo fallimento dell’operazione, e la conseguente rivolta cittadina, furono le cause scatenanti della caduta del regime al potere, sostituito da uno di matrice popolare, il cosiddetto Primo popolo. È possibile che Uberti non fosse in grado di opporsi a questo rivolgimento per la sua assenza dalla città, trovandosi in quel periodo in Valdelsa (R. Davidsohn, Forschungen..., cit., p. 80 n. 575). Di certo si impegnò in seguito a mantenere la nuova, difficilissima, convivenza con i guelfi, ritornati dall’esilio dopo aver ceduto le armi ed essersi accordati con il regime popolare: nel 1251, infatti, accettò di consegnare il figlio Lapo in ostaggio al podestà di Firenze come garanzia di pace tra le fazioni, salvaguardia dell’ordine pubblico, sicurezza personale dell’ufficiale e dei suoi uomini (Documenti dell’antica costituzione..., a cura di P. Santini, 1952, pp. 30-37; Davidsohn, 1896-1927, trad. it. 1956-1968, II, pp. 535-537).
Conviene sottolineare come su un totale di diciassette ostaggi richiesti dal podestà, quelli appartenenti a famiglie cittadine fossero tredici, e di questi due Uberti, a riprova dell’importanza politica di Farinata e del suo lignaggio in quegli anni.
Lo stato di non belligeranza con i guelfi e la subordinazione dei ghibellini fiorentini al regime popolare, comunque, durarono poco: nel giugno del 1251 un sindaco rappresentante delle più importanti famiglie di parte della città e del territorio incontrò segretamente vicino Monteriggioni un suo omologo rappresentante il Comune di Siena, ancora fedele agli Svevi, e assieme stipularono un patto militare e politico in nome e per conto dei rispettivi rappresentati (Il Caleffo vecchio..., a cura di G. Cecchini, 1934, pp. 744-747; Davidsohn, 1896-1927, trad. it. 1956-1968, II, pp. 543-545).
Due mesi dopo la ratifica del patto con Siena molti esponenti delle principali famiglie ghibelline fiorentine abbandonarono la città in esilio volontario: Uberti e il fratello Neri Piccolino si rifugiarono a Siena, mentre altri si portarono a Poggibonsi o presso i conti Guidi (ibid., pp. 547 s.).
La successiva polarizzazione delle città, dei castelli e dei potentati toscani a favore o contro Firenze provocò uno stato di guerra continuo e generalizzato in tutta la regione, protrattosi per alcuni anni. Inizialmente Uberti ne fu uno dei condottieri più prestigiosi, ottenendo anche un buon successo allorché, assieme al conte Guido Novello, nel 1252 si impadronì di Figline (ibid., p. 562). Ma benché le operazioni militari mostrassero il consueto andamento altalenante, in breve la superiorità di Firenze apparve netta, e in quello stesso anno, sempre assieme al conte Guido Novello, grazie all’intervento diplomatico del pontefice e alla mediazione di Pierre de Colmieu, cardinale di Albano, di Guglielmo Fieschi, cardinale diacono di Sant’Eustachio, e di Ottaviano Ubaldini, cardinale di Santa Maria in via Lata, Uberti strinse un accordo di pace separata con il regime popolare, in buona sostanza barattando il rientro in città dei ghibellini con la consegna di Figline ai popolani e ai guelfi (Davidsohn, 1896-1927, trad. it. 1956-1968, II, pp. 563-565).
Il decennio tra il 1250 e il 1260 vide il predominio di Firenze e del suo regime popolare in Toscana, e solo l’incoronazione di Manfredi a re di Sicilia (1258) rianimò lo schieramento ghibellino. Peraltro, gli Uberti allora intrinseci non avevano neppure atteso il ritorno in auge degli Svevi per tentare di rovesciare il regime popolare.
In quello stesso anno infatti si erano accordati con il cardinale Ottaviano degli Ubaldini – la cui famiglia nel frattempo era stata sconfitta militarmente e privata di parte dei possedimenti avìti per mano dei popolani fiorentini – per far entrare in città di notte gruppi di armati provenienti da Roma, ma furono scoperti e accusati pubblicamente di sedizione, rifiutarono di essere processati e si difesero armi alla mano, finché, sconfitti, fuggirono nuovamente in esilio, rifugiandosi ancora a Siena con molti esponenti delle più importante famiglie ghibelline (ibid., pp. 646-652).
Uberti, nuovamente fuoruscito a Siena, svolse un ruolo essenziale per il consolidamento della sua parte in esilio: nel 1259 ne fu rappresentante prima inviato dal re di Sicilia a chiederne il sostegno militare, e di seguito al governo fiorentino per intavolare false trattative allo scopo di guadagnare tempo (ibid., pp. 662-667, 678 s.). Secondo il cronista Giovanni Villani, la cui narrazione è ripresa anche in Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani (a cura di N. Rodolico, 1903, pp. 45 s.), fu soprattutto grazie alla sua furbizia se un riluttante Manfredi inviò un numero sufficiente di armati a Siena.
Egli avrebbe in primo luogo esortato gli ambasciatori, perplessi per la modesta offerta di Manfredi (che promise di inviare 100 cavalieri, invece dei 600 attesi), ad accettare comunque l’aiuto di Manfredi, purché il piccolo contingente fosse provvisto dell’insegna imperiale («Non vi sconfortate, e non rifiutiamo niuno suo aiuto, e sia piccolo quanto si vuole; facciamo che di grazia mandi co·lloro la sua insegna, che venuti a Siena, noi la metteremo in tale luogo, che converrà ch’egli ce ne mandi anche», G. Villani, Nuova cronica, cit., II, p. 371).
Successivamente, dovendo fronteggiare un’incursione dei fiorentini nei pressi di Siena, avrebbe suggerito di «avinazzare e innebbriare i cavalieri tedeschi [...] per fargli assalire l’oste de’ Fiorentini, promettendo loro grandi doni e paga doppia», mandandoli di fatto allo sbaraglio e al massacro: «e di quanti n’uscirono di Siena non ne scampò niuno vivo, che tutti furono morti e abbattuti, e la ’nsegna di Manfredi presa e strascinata per lo campo, e recata in Firenze; e ciò fatto, poco appresso si tornò l’oste de’ Fiorentini in Firenze» (ibid.).
La sconfitta dei cavalieri tedeschi destò grande sensazione, come aveva previsto l’astuto Uberti, inducendo da un lato il governo senese a raccogliere denaro, accendendo prestiti e rilasciando pegni, per destinarlo all’ingaggio di nuovi armati, e dall’altro il re di Sicilia a concedere l’invio di un secondo contingente, questa volta forte di ben 800 cavalieri tedeschi, e a pagarne addirittura parte del soldo, pur di vedere riscattati il suo onore e l’offesa portata alla sua bandiera (ibid., pp. 372 s.; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, cit., p. 46).
In seguito, secondo il cronista, Uberti insieme con Gherardo Ciccia Lamberti avrebbe messo a frutto anche le sue doti diplomatiche intavolando di nuovo false trattative con il governo fiorentino, convincendo i popolani ̶ ma non i guelfi ̶ del fatto che alcuni maggiorenti senesi sarebbero stati pronti a consegnare la loro città in cambio di una somma di denaro, purché inviassero subito una spedizione armata verso Siena (G. Villani, Nuova cronica, cit., II, pp. 373-376; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, cit., pp. 46 s.). Questo stratagemma aveva lo scopo di provocare una subitanea battaglia campale, al fine di sfruttare la momentanea superiorità militare dell’esercito senese rafforzato dai cavalieri di Manfredi, prima che spirasse il loro periodo di ferma, e comprendeva anche il celebre accordo segreto con i ghibellini intrinseci arruolati nell’esercito fiorentino perché lo disertassero e lo tradissero sul campo di battaglia.
Uberti e Lamberti , definiti «maestri del trattato» da Villani,̶ inviarono a Firenze alcuni frati per accordarsi con «certi grandi e popolani ghibellini» messi a ruolo nell’exercitus fiorentino affinché disertassero sul campo di battaglia passando nelle fila di quello senese «per isbigottire l’oste de’ Fiorentini, parendo a·lloro avere poca gente a comparazione de’ Fiorentini; e così fu fatto» (per tutti i passi citati vedi G. Villani, Nuova cronica, cit., II, p. 377).
E sempre secondo Villani, la furbizia e l’abilità di Uberti e di Lamberti nel raggirare i nemici fu rivolta anche verso gli amici, nell’intento di infondere coraggio e forza d’animo negli alleati senesi. Durante la marcia dell’esercito fiorentino «uno grande popolare di Firenze di porte San Piero, ch’era Ghibellino, e avea nome il Razzante» aveva disertato per correre a Siena e avvertire quanto quell’esercito fosse potente e ben organizzato, e però giuntovi e incontrati i due «maestri del trattato» ne ebbe una risposta allarmata, ovvero, nelle parole di Uberti o di Lamberti: «Tu ci uccideresti, se tu ispandessi queste novelle per Siena, imperciò che ogni uomo faresti impaurire, ma vogliamo che dichi il contrario; imperciò che se ora ch’avemo questi Tedeschi non si combatte, noi siamo morti, e mai non ritorneremo in Firenze; e per noi farebbe meglio la morte e d’essere isconfitti, ch’andare più tapinando per lo mondo». Razzante fu quindi costretto a mentire al popolo senese radunato in parlamento, dicendo che la spedizione fiorentina era disorganizzata e tanto mal condotta da risultare un facile obiettivo, «e fatto il falso rapporto per Razzante, a grido di popolo si mossono tutti ad arme dicendo: “Battaglia, battaglia!”» (ibid., II, pp. 377 s.).
Va detto peraltro che l’intera narrazione lascia quantomeno adito a dubbi, soprattutto nei particolari: la figura di Farinata vi appare enfatizzata, quasi una sorta di deus ex machina capace di indirizzare il corso degli avvenimenti. E in assenza di conferme documentarie, giocano a sfavore della piena credibilità di Villani anche la distanza temporale dagli avvenimenti,̶ almeno mezzo secolo,̶ e il fatto che la cronistica fiorentina del Trecento fosse tutta di tradizione genuinamente guelfa.
Come che sia, dopo la vittoria senese di Montaperti (4 settembre 1260, sulla quale: Balestracci, 2017), e il rientro dei ghibellini in Firenze (16 settembre, tre giorni dopo la fuga dei guelfi: G. Villani, Nuova cronica, cit., II, pp. 380 s.), Uberti avrebbe partecipato al ‘concilio’ o ‘parlamento’ di Empoli, ricordato anche da Dante Alighieri (Inferno X, 91-93), nel quale i potentati e le città confinanti con Firenze manifestarono la volontà di abbatterne le mura, per eliminarne definitivamente il pericolo (Faini, in Tra storia e letteratura, 2012). Tali progetti sarebbero stati contrastati con decisione da Farinata, il quale avrebbe dichiarato di essere pronto ad abbandonare la sua parte e a combatterla pur di salvare la città natale: nella sua allocuzione fuse i proverbi ‘Com’asino sape, così minuzza rape’ e ‘Vassi capra zoppa, se ’l lupo no·lla ’ntoppa’, ammonendo «Com’asino sape, sì va capra zoppa; così minuzza rape, se ’l lupo no·lla ’ntoppa», e più concretamente minacciando che «mentre ch’egli avesse vita in corpo, colla spada in mano la difenderebbe» (G. Villani, Nuova cronica, cit., II, p. 385; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, cit., p. 48).
Del ‘concilio’ o ‘parlamento’ di Empoli tuttavia non vi sono riscontri documentari. Se davvero ebbe luogo, la difesa di Firenze fu certamente il punto più alto dell’azione politica di Uberti: una presa di posizione ferma e risoluta per la salvezza della città, che per certo gli guadagnò la stima dei posteri, sebbene di idee politiche diverse, naturalmente a partire dall’Alighieri.
Negli anni successivi a Montaperti egli fu senz’altro il cittadino fiorentino più autorevole (Canaccini, 2010, p. 68). Va anche ricordato che in particolare dall’inizio degli anni Sessanta (ma anche in precedenza) esercitò una sorta di patronato verso il Comune di San Gimignano, ed è possibile che agisse allo stesso modo anche per altre comunità, per le quali tuttavia non è sopravvissuta documentazione (R. Davidsohn, Forschungen..., cit., II, pp. 67 n. 475, 72 n. 503-504, 506, 508, 77 n. 538, 80 n. 575, 108 n. 788e, 110 n. 796e, 120 n. 846e, IV, p. 165).
L’ultima citazione in vita di Farinata risale all’estate del 1263, allorché partecipò a una spedizione in territorio lucchese, durante la quale catturò un Buondelmonti, caricandolo poi sulla groppa del suo cavallo, con ogni probabilità per salvarlo, ma senza riuscirvi perché «messer Piero Asino degli Uberti gli diede d’una mazza di ferro in testa, e in groppa del [cugino] l’uccise; onde furono assai ripresi» (G. Villani, Nuova cronica, cit., II, p. 390; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, cit., p. 49; Davidsohn, 1896-1927, trad. it. 1956-1968, II, pp. 758 s.).
Morì il 27 aprile 1264, secondo l’obituario di Santa Maria del Fiore, e fu sepolto nel cimitero presso il Dduomo (Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, I, 3.6, c. 20v; Davidsohn, 1896-1927, trad. it. 1956-1968, II, pp. 758 s.).
Sia pure in negativo, un riconoscimento alla sua statura politica gli venne anche dalla Chiesa, poiché in vita subì la scomunica da papa Urbano IV (1261-64),̶ in verità comminata qualora non avesse interrotto i rapporti con lo scomunicato Manfredi, cosa che effettivamente non fece mai,̶ scomunica poi rinnovata in morte da papa Clemente IV nel 1265 (ibid., II, p. 796 e nota 2). Sembra invece aver scampato in vita un processo per eresia, benché avesse fama di essere epicureo, ovvero di negare la sopravvivenza dell’anima, secondo l’accezione del tempo. Non fu altrettanto fortunato però in morte: nel 1283, infatti, l’inquisitore dell’eretica pravità lo condannò assieme alla moglie Adeleta, all’epoca anch’essa defunta,̶ ordinandone la confisca di tutti i beni mobili e immobili, la loro sottrazione all’asse ereditario e di conseguenza ai patrimoni dei discendenti in vita, infine l’esumazione delle ossa se riconoscibili (Ottokar, 1919; Canaccini, 2010, pp. 210 s.). Si può naturalmente discutere sulla veridicità di questa sua professione di fede, ripresa dalla propaganda politica di parte guelfa, e di conseguenza dalla cronistica fiorentina posteriore. Ma conviene anche sottolineare come Uberti sia universalmente noto proprio perché immortalato dall’Alighieri nella Commedia come eretico condannato al fuoco eterno della città di Dite, nel VI cerchio dell’Inferno, e interlocutore del poeta in un dialogo che si dipana per gran parte del canto X (vv. 22-51, 73-120). Della fama terrena, goduta anche fuori dalla Toscana ̶ e forse persino della preminenza del suo nucleo familiare all’interno del lignaggio ̶ fa invece fede un documento della fine del secolo: quando nel 1296 il figlio messer Lapo divenne podestà di Mantova, fu registrato come «dominus Lappus de Farinatis» (R. Davidsohn, Forschungen..., cit., IV, p. 570).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico, Firenze, Santa Croce (Minori) (8 maggio 1242); Santa Maria degli Angioli (Camaldolesi) (25 luglio 1286); Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, I, 3.6, cc. 20v, 23r, 44v, 56v.
Dino Compagni e la sua cronica, a cura di I. del Lungo, I-III, Firenze 1879-1887, ad ind.; R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, I-IV, Berlin 1896-1908, II e IV, ad ind.; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, a cura di N. Rodolico, in RIS, XXX, 1, Città di Castello 1903; Il Caleffo vecchio del Comune di Siena, a cura di G. Cecchini, Firenze 1934; Documenti dell’antica costituzione del Comune di Firenze. Appendice, a cura di P. Santini, Firenze 1952, pp. 30-37; Cronica fiorentina del sec. XIII, in Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, a cura di A. Schiaffini, Firenze 1954, pp. 82-150; G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, I-III, Parma 1990-1991, ad ind.; Il Libro del Chiodo, a cura di F. Ricciardelli, Roma 1998.
R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, I-IV, Berlin 1896-1927 (trad. it. Storia di Firenze, introduzione di E. Sestan, Firenze 1956-1968); N. Ottokar, Intorno a Farinata e alla sua famiglia. II. La condanna postuma di Farinata degli Uberti, in Archivio storico italiano, LXXVII (1919), 295-296, pp. 155-163; P. Santini, Intorno a Farinata e alla sua famiglia. I. Parentadi infelici e odio di parte nella famiglia di Farinata, ibid., pp. 127-154; M. Sansone, Farinata, in Enciclopedia Dantesca, II, Cim-Fo, Roma 1970, pp. 804-809; Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze 1978, ad ind.; E. Faini, Il convito del 1216. La vendetta all’origine del fazionalismo fiorentino, in Annali di storia di Firenze, I (2006), pp. 9-36, https://www. storiadifirenze.org/pdf_ex_eprints/ 01_SdF_1_2006_Faini_saggi.pdf (23 gennaio 2020); F. Canaccini, Ghibellini e Ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino. (1260-1289), Roma 2010; E. Faini, I sei anni dimenticati. Spunti per una riconsiderazione del governo ghibellino di Firenze: 1260-1266, in Tra storia e letteratura. Il parlamento di Empoli del 1260, Atti della giornata di studi in occasione del 750° anniversario, a cura di V. Arrighi - G. Pinto, Firenze 2012, pp. 29-49; D. Balestracci, 1260. La battaglia di Montaperti, Bari-Roma 2017, ad indicem.