LANDI, Ubertino
Nacque prima del 1220 da Giannone figlio di Guglielmo.
Stirpe di antica nobiltà fondiaria, già vassalla dei vescovi piacentino e bobbiese e titolare di cospicui beni allodiali e feudali, con molti castelli nell'Appennino piacentino, la famiglia piacentina detta de Andito e poi Landi rappresenta la classica espressione di quel ceto nobiliare radicato nel contado delle città comunali ma profondamente inurbato (suoi esponenti furono consoli nel primo Comune aristocratico piacentino), e quindi proiettato alla conquista del governo cittadino, nel contesto più generale dello scontro tra i partiti filopapale e filoimperiale.
Con Guglielmo, podestà di Milano nel 1211, i Landi si erano distinti per la fedeltà alla causa dell'Impero fin dalla discesa di Federico II in Italia nel 1220; anche questa circostanza aveva contribuito all'espulsione da Piacenza dello stesso Guglielmo nel 1236 e alla conseguente morte in esilio di lui e del figlio Giannone. Soltanto con la coniuratio d'impronta popolare, promossa da Antolino Saviagata nel 1250 e prontamente strumentalizzata dai ghibellini, e con la cacciata degli aristocratici guelfi e l'ascesa al potere a Piacenza nel luglio 1250 di Oberto Pelavicino, già signore di Cremona e rettore imperiale della Lombardia, si crearono le condizioni per il ritorno in città, il 24 marzo 1251, dei fuorusciti ghibellini piacentini. Il L. era già la loro guida riconosciuta, con incarichi prestigiosi come la podesteria di Siena tenuta nel 1250 per conto di Federico II: da questo si deduce che all'epoca dovesse essere almeno trentenne e si ricava per ipotesi la sua data di nascita.
Dopo un nuovo tentativo di pacificazione senza successo, lo stesso L. assunse la guida delle operazioni militari contro i capisaldi dei fuorusciti guelfi (esponenti delle famiglie Fontana, Pallastrelli e Figlioddoni) nel territorio piacentino, conquistando nel corso del 1252 i castelli di Fontana Pradosa, Olubra, Rivergaro, Rivalta, Chero e San Lorenzo. Mentre si rafforzava la presa dei ghibellini su Piacenza, con la podesteria perpetua riconosciuta a Oberto Pelavicino nel 1253, il L. consolidò la propria posizione personale acquistando cospicui beni allodiali - con una disponibilità economica che derivava sia dalla gestione degli appalti fiscali sia da operazioni commerciali e di prestito bancario - ed estendendo i propri possessi feudali a Borgotaro, a Bardi e a Compiano. Nel 1256 fece impiantare fuori dalle mura, lungo il corso del torrente Fodesta, una tenuta agricola celebrata per il suo "jardinus" (un giardino pensile o un frutteto ornamentale) realizzato a imitazione di modelli arabi, evidentemente mutuati dalla corte sveva di Palermo; ma soprattutto il L. acquistò vaste aree anche all'interno della città di Piacenza e attorno al castello cittadino, divenuto sua residenza fortificata, tra cui la parte a essa limitrofa delle stesse fosse urbane, cedutagli dal Comune nel 1257. Sempre nel 1257, il 27 febbraio, il L. ricevette dal Comune, per opera di Oberto Pelavicino, il diritto di esazione del pedaggio sul Po, un'entrata di grandissimo rilievo dato il ruolo strategico di quel punto di passaggio per il commercio di tutta l'Italia del Nord e anche per i mercati al di là delle Alpi.
In parallelo a questa ascesa economica non sembra che il L. abbia ricoperto cariche pubbliche significative, pur detenendo un solido potere di fatto all'interno del predominio del Pelavicino; potere che era evidentemente divenuto minaccioso per tutti, giacché la prima violenta interruzione della sua ascesa si ebbe nello stesso anno 1257, quando una rivolta fomentata proprio dai suoi tradizionali alleati, dai mercanti che ne avevano favorito l'ascesa (Giovanni e Rinaldo Scotti) ad alcuni suoi parenti (Flamengo e Villano Landi), portò all'assedio del castello dove il L. dimorava e lo costrinse alla resa e all'esilio, dopo aver pattuito il 24 luglio 1257 che avrebbe avuto salva la vita se si fosse allontanato. A Piacenza fu così richiamato il suo più acerrimo nemico, il guelfo Alberto Fontana, mentre il L. si rifugiò presso Manfredi, che fu incoronato re di Sicilia nell'agosto 1258.
A questo proposito la cronachistica piacentina coeva concordemente accredita l'esistenza di una stretta parentela tra il L. e Manfredi, affermando che i figli del L., Galvano e Corrado, erano a vario titolo consanguinei di Manfredi, ovvero che il L. avrebbe addirittura sposato la figlia di Manfredi. La tradizione familiare dei Landi e le genealogie encomiastiche successive hanno proseguito su questa strada, preferendo però forzare l'identità di quell'Isabella che fu indubbiamente la prima moglie del L., fino a sovrapporla alla figura di Isabella d'Aragona, ritenuta a sua volta erroneamente imparentata con gli Svevi. L'ipotesi più probabile rimane quella per cui, essendo Manfredi figlio naturale di Federico II e di una Bianca Lancia, l'Isabella moglie del L. e madre di Galvano e Corrado sarebbe sorella di Bianca, per cui i figli del L. e Manfredi sarebbero stati tra loro cugini (e in effetti i nomi di Corrado e Galvano sono ricorrenti nella famiglia Lancia).
Durante la sua permanenza alla corte di Manfredi il L. fu investito della importante contea di Venafro, su cui il potere sarebbe stato poi esercitato concretamente da sua moglie Isabella, residente in loco mentre il marito si trovava nell'Italia settentrionale. Il contemporaneo cronista molisano Enrico d'Isernia traccia un quadro negativo, anche per coinvolgimento personale, dell'esosità del governo di Isabella: per esempio nel 1264 è documentato un donativo agli stessi L. e Isabella di ben 300 once d'oro dell'Universitas di Isernia, che fu trasferito a Messina per essere gestito da mercanti piacentini legati ai Landi.
Tornato al Nord il L. riprese la lotta insieme con gli altri capi ghibellini: sempre grazie ai successi di Oberto Pelavicino, che controllava pressoché tutta la Lombardia, si crearono le condizioni perché nel 1261 fosse cacciato da Piacenza Alberto Fontana, il cui governo tirannico aveva creato diffuso scontento, e perché il L. fosse aiutato a rientrare in città dagli stessi uomini che lo avevano espulso.
Negli anni seguenti il L. condusse i tentativi più coerenti di dare una solida base territoriale al suo potere, in funzione della creazione di una signoria personale: senza contare troppo sulla realtà urbana, si rivolse piuttosto al contado, di nuovo acquistando beni allodiali, investiture da famiglie aristocratiche in decadenza (come i conti di Lomello) e beni fiscali dal Comune di Piacenza e dal vescovo bobbiese Alberto Landi, suo familiare. Queste operazioni, sempre condotte con ampie disponibilità economiche, lo portarono a controllare quasi tutto l'Appennino piacentino - in particolare le zone avite della Val di Taro e della Val di Ceno con l'appoggio delle famiglie di vassalli dei Lusardi e dei Granelli - e la bassa pianura tra la via Romea e il Po.
Negli stessi anni il quadro politico generale tornò però a volgere a netto sfavore del partito ghibellino: a seguito dell'intervento in Italia di Carlo d'Angiò, dopo che Clemente IV l'aveva investito del Regno meridionale, il L. - che non aveva abbandonato la tradizionale posizione filoimperiale - si trovò a condividere gli effetti negativi della disfatta di Manfredi a Benevento, perdendo la contea di Venafro e soprattutto vedendo i suoi due figli catturati dallo stesso Carlo, di cui rimasero a lungo prigionieri.
Abbandonato dai suoi finanziatori e sollecitato anche dai membri della sua cerchia familiare e feudale a venire a più miti consigli, il L. lanciò segnali di disponibilità alla sottomissione nei confronti del papa: nel giugno del 1266 il L. riuscì ancora a respingere un tentativo guelfo di far rientrare a Piacenza Alberto Fontana; nel luglio seguente la città accolse i legati pontifici Bernardo Castagnet e Bartolomeo, abate di San Teodoro di Trevi, che - dopo l'abbandono della città da parte di Oberto Pelavicino - imposero la normalizzazione pontificia per mezzo del governo di un Consiglio in cui, ai ghibellini capitanati dal L., andava un terzo dei seggi contro i due terzi destinati alla parte guelfa.
Questo fragilissimo equilibrio era destinato a rompersi ben presto: il L. fu invitato dai due legati papali a un incontro a Romano presso Bergamo organizzato con l'intenzione di catturarlo, ma riuscì a sottrarvisi e il 10 apr. 1267 lasciò Piacenza per ritirarsi nel castello di Bardi, da dove iniziò una lotta senza quartiere contro la città in mano al partito guelfo.
Il L. partecipò pienamente delle speranze sollevate nel partito ghibellino dalla discesa in Italia di Corradino di Svevia: nel febbraio del 1268 si recò a rendergli omaggio a Pavia e si assunse in prima persona il compito di guidarne l'esercito nel trasferimento da Pavia a Pisa attraverso territori ostili, compiendo azioni contro i castelli di Olubra, Fontana Pradosa, Borgonovo, Sarmato, ed espugnando Massa; ma dovette assistere alla definitiva catastrofe di Tagliacozzo e, mentre i suoi figli erano ancora prigionieri di Carlo d'Angiò, si ridusse a condurre una vera e propria guerriglia fatta di continui movimenti e attacchi diversivi sull'Appennino piacentino contro il Comune di Piacenza. Nell'estate del 1269 Piacenza produsse lo sforzo maggiore per sradicare la resistenza del L., riuscendo il 17 ottobre a sottrargli anche la roccaforte di Bardi e costringendolo a difendersi nelle rocche di Gravago e di Zavattarello, ma senza ottenere il successo definitivo.
Contemporaneamente il Comune decise la propria sottomissione all'Angiò: questi resse la città quasi "in condominio" con il ceto economico della "Società dei mercanti e dei paratici" e offrì la possibilità di un ampio condono agli estrinseci che avessero deciso di abbandonare la lotta, ottenendo la resa di molti vassalli del L., costretto così a rifugiarsi con i più fedeli esponenti della famiglia Lusardi nei castelli di Compiano e di Montarsiccio.
In questo quadro si inserì come elemento di novità l'elezione, nel settembre 1271, di papa Gregorio X, il piacentino Tedaldo Visconti: questi si applicò a un tentativo di pacificazione tra le parti della sua città d'origine, che si snodava attraverso un percorso a ostacoli tra gli interessi del Comune, in mano ai mercanti capitanati da Rinaldo Scotti, e l'irriducibilità del Landi. Il papa alternò minacce di più severe sanzioni e offerte di salvacondotti per accedere a ulteriori trattative, che furono condotte in particolare durante il suo viaggio verso il concilio di Lione; tuttavia, dopo ripetute offerte di incontro personale tra il L. (che comprensibilmente non si fidava a comparire davanti al pontefice) e lo stesso papa, dopo una prima tregua firmata l'11 genn. 1274 e una scomunica del L. l'11 apr. 1275, soltanto successivamente alla morte di Gregorio X fu sottoscritto - il 20 genn. 1276 - l'accordo di pace tra il Comune e il L., spinto a ciò anche dal fatto che sul tavolo delle trattative si pose l'eventuale liberazione di Galvano, l'unico suo figlio ancora vivo e prigioniero di Carlo d'Angiò. La pace che scaturì da questi accordi consentì il rientro del L. a Piacenza il 13 marzo seguente.
Risale a questa epoca il primo testamento noto del L., redatto il 17 luglio 1277 a Piacenza ed edito da Nasalli Rocca (pp. 82-89), che risentiva del timore del L. per l'estinzione della sua famiglia, essendo egli rimasto vedovo e perdurando la prigionia del figlio Galvano. Questi infatti in tale occasione fu designato come erede universale, unico figlio nominato (per cui si deduce che Corrado doveva essere già morto), ma fu anche deciso puntualmente il destino di tutti i beni e diritti - divisi tra pochi parenti fidati e soprattutto tra i seguaci più fedeli delle famiglie Lusardi e Granello - nel caso che Galvano "decederet sine liberis ex legiptimo matrimonio ex se nactis".
Seguirono anni in cui il L., oramai ultrasessantenne, sembrò dedicarsi essenzialmente alla gestione del patrimonio e alle opere di munificenza (il 13 maggio 1278 donò ai francescani l'ampia area urbana su cui sarebbe sorto il loro convento piacentino, gesto che assunse però anche un forte significato di segnale lanciato nei confronti della Chiesa); la mutata situazione portò in effetti alla liberazione di Galvano nel maggio del 1280, dopo ben 14 anni di detenzione, grazie anche ai buoni uffici dei francescani e alla mediazione di Rinaldo Scotti, con cui furono concordati adeguati patti matrimoniali, mandati a effetto con il matrimonio tra lo stesso Galvano e Marsignina, figlia di Rinaldo Scotti.
Tuttavia le tensioni causate dalle sempre più chiare aspirazioni alla signoria cittadina di Alberto Scotti, nipote di Rinaldo, portarono a nuovi scontri a partire dal 1283, quando il L. si ritirò nelle sue piazzeforti montane, in particolare a Compiano, ma ne fu via via cacciato, finché non fu stipulata una nuova tregua sotto gli auspici dello stesso Scotti. Questi si applicò a creare le condizioni grazie alle quali, nel giugno 1290, avrebbe preso l'effettiva signoria su Piacenza, e quindi chiuso per quanto possibile le vecchie partite ancora aperte: non per caso dunque il 2 dicembre dello stesso anno a Genova, a opera dei capitani del Comune genovese Oberto Spinola e Corrado Doria precedentemente designati come arbitri, fu emesso un lodo che prescriveva da parte del Comune di Piacenza la remissione di ogni bando e condanna già pronunciati contro il L., il figlio Galvano, i Lusardi e i Granello; l'annullamento di ogni confisca dei beni detenuti dai Landi nel territorio piacentino; il riconoscimento agli stessi di esenzioni e moratorie fiscali.
Non si hanno altre notizie del L., oramai anziano e isolato, fino alla sua morte, avvenuta nell'agosto 1298, sicuramente poco dopo il 15 del mese.
Il L. aveva di nuovo disposto per le sue ultime volontà con un terzo testamento, rogato in Pavia il 15 genn. 1297 (anch'esso edito da Nasalli Rocca, pp. 89-99): in esso furono designati eredi in parti uguali i quattro figli di Galvano, che era premorto al padre, all'epoca ancora tutti minori, e furono disposti numerosi lasciti - tra cui quelli per la seconda moglie Adalasia e per i figli naturali Federico e Filippo, di cui qui si ha la sola menzione - e donazioni pie; nel testamento sono inoltre riaffermati anche i diritti e i beni dei fedeli Lusardi e Granello. Un codicillo aggiunto il 15 ag. 1298, redatto in Montarsiccio, costituisce il terminus più prossimo per la data della morte del L., assegnata genericamente all'agosto del 1298 dalla cronachistica, e che perciò potrebbe essere avvenuta proprio in quel castello.
Il L. ebbe in moglie la già ricordata Isabella, verosimilmente del casato dei Lancia, che dovrebbe avere sposato verso il 1240 e che risulta morta alla data del primo testamento del 1277; si risposò in seconde nozze con Adelasia, per alcuni figlia del conte Guido di Biandrate, da cui non ebbe figli. Da Isabella ebbe una figlia, Bianca, poi monaca, e i due figli maschi, Corrado (morto in prigionia sempre prima del 1277 senza eredi) e Galvano. Quest'ultimo ebbe da Marsignina Scotti quattro figli maschi (Ubertino e - a testimonianza di significativa tradizione imperiale - Corrado, Manfredo e Federico) e una figlia femmina, Bianchina, e morì nel 1296. Il L. ebbe anche almeno due figli naturali, Federico e Filippo.
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