UBERTINO LANDI
Appartenne a una famiglia piacentina di grandi proprietari fondiari e di antichi vassalli del vescovo di Piacenza e di Bobbio, inurbata nella seconda metà dell'XI sec. e stabilitasi nel settore nordoccidentale della città. Giudici e consoli durante il primo comune aristocratico, i Landi (o "de Andito") intrattennero precoci rapporti con mercanti e banchieri cittadini. U., figlio di Giannone e nipote di Guglielmo, succedette al nonno come capo della consorteria nel 1236 quando questi, che dal 1221 era capo del popolo per contrastare i nobili della parte avversa, fallì nel tentativo di consegnare Piacenza all'imperatore e fu cacciato dalla città. Titolare di grandi proprietà, di numerosi diritti e giurisdizioni dalla montagna al Po, U. seguì la tradizione funzionariale della famiglia (nel primo venticinquennio del Duecento i Landi furono podestà a Milano, Padova, Asti). Lo ritroviamo infatti podestà forestiero a Bergamo (1247 e 1248), a Firenze (1249), a Siena (1250) e da ultimo ad Alessandria (1262). Durante le sue podesterie affrontò e risolse con successo situazioni complesse; a Bergamo varò il primo statuto della città; a Firenze dovette gestire il difficile periodo successivo alla cattura di re Enzo, mentre vicario imperiale in Tuscia era Federico d'Antiochia; a Siena, dove fu raggiunto dalla notizia della morte di Federico II, si confrontò con una intensa attività legislativa (è l'anno dell'emanazione della Charta bannorum e dei Breves officialium, nonché dell'avvio di una revisione dei testi normativi che porterà allo statuto del 1262). Incrollabile fu la sua fedeltà al partito ghibellino, che restò salda fin oltre la morte di Corradino. Ancora nel 1262 lo vediamo podestà ad Alessandria, datasi a Manfredi; scelto con l'approvazione di intrinseci ed estrinseci, riuscì a garantire alla città un periodo di pace interna (con il rientro dei fuoriusciti) ed esterna (grazie a un trattato stipulato con la città di Pavia).
Tornato in Piacenza nel 1251 con l'appoggio del marchese Uberto Pallavicini (v.), già padrone di Cremona e vicario imperiale in Lombardia, manifestò grande sete di rivincita. Suoi nemici erano sia gli aristocratici guelfi che stavano perdendo potere, sia i nobili ghibellini come Fontana e Pallastrelli che vedevano in lui un pericoloso rivale. I primi alla fine dovettero rifugiarsi nei loro castelli e contrastare dall'esterno la città, aiutati dagli eserciti messi a disposizione del legato del papa, cardinale Ottaviano Ubaldini (v.), i secondi ambiguamente lo appoggiarono e lo contrastarono fino a determinarne il definitivo insuccesso. La podesteria perpetua del Pallavicini in Piacenza (1253), la morte di Innocenzo IV (1254) e l'ascesa al trono di Manfredi, cui era strettamente legato, furono eventi per lui favorevoli; U. ne approfittò per aumentare il suo patrimonio e i suoi poteri nel contado, soprattutto nell'alta Val Taro e a Bardi. Riuscì per esempio ad acquistare in quelle zone tutti i diritti e le giurisdizioni sottratte dal comune ai Malaspina; nel frattempo coltivava rapporti di interesse con compagnie commerciali cittadine (Turano, Nigrobono, Bigoli, Tadi e Scotti). Poteva contare perfino su di un castello in città, situato sulle mura nel sestiere di Porta Nuova e già appartenuto ai conti di Lomello, segno emblematico di un forte potere di fatto, anche se non giuridicamente formalizzato.
La sua posizione entrò in crisi una prima volta nel 1257 quando, accanto ai tradizionali nemici, dovette fare fronte alle contestazioni delle famiglie mercantili, tra cui gli Scotti, nei confronti delle sue pesanti imposizioni fiscali. Cacciato da Piacenza nel 1257, si rifugiò a Cremona per poi recarsi presso Manfredi, in Puglia, che lo assoldò insieme a estrinseci piacentini (1258); infatti, nel 1259, sarà impegnato con costoro e con truppe teutoniche sotto Soncino. Non è escluso che partecipasse alla grande corte di Barletta, in cui Manfredi investì i suoi fedeli di beni feudali; in quell'occasione, forse, U. fu investito della contea di Venafro nel Molise. I due, d'altronde, erano parenti e forse cugini (l'Anonimo, nella sua cronaca, dice che i loro figli erano "consanguinei germani"). Nella moglie Isabella alcuni hanno visto un'Aragona (ma si tratterebbe di una leggenda seicentesca per intrecciare più saldamente le genealogie dei Landi con quelle degli Svevi), mentre altri una figlia naturale di Manfredi; gli storici sono ora propensi a ritenerla sorella di Bianca Lancia (v.). Certo è che con la moglie condivise il titolo di conte di Venafro. Si trattava di una vasta contea dotata di cospicue rendite e di diritti giurisdizionali, che anche Corradino gli avrebbe confermato (1268). Dopo la caduta degli Svevi U. non ebbe più contatti con Venafro, anche se "conte di Venafro" è il titolo di cui si fregia nel testamento rimasto. Valutazioni pessime sull'esercizio di questi poteri comitali ci sono state tramandate da Enrico di Isernia, panflettista duecentesco vissuto alla corte di Ottocaro II di Boemia, che dalla corte dei Landi, gestita in sua assenza dalla moglie di U. e dal giudice comitale Roberto di Morrone, aveva subito gravi torti. Enrico lamenta episodi di rapacità e di crudeltà, soprattutto della contessa che in tal modo conferma la sua appartenenza alla società meridionale, contro nemici politici e personali. La rapacità è d'altronde comprovata dalle cospicue somme donate a U. dalla comunità di Isernia e da lui trasferite a mercanti lombardi (piacentini), suoi agenti a Messina (1264). Sposò in seconde nozze Adelasia di Guido dei conti di Biandrate, legandosi dunque a una importante famiglia ghibellina milanese.
A seguito della sconfitta di Ezzelino III da Romano (v.) a Cassano d'Adda e del conseguente rafforzamento dei Pallavicini (1259), U. poté ritornare in Piacenza e tentare nuovamente la scalata politica. Non fidandosi più della città, si concentrò comunque sul territorio, cercando di costruire, sul vasto dominio appenninico, uno stato territoriale. Alla discesa di Carlo d'Angiò in Italia (1265) non mutò schieramento e fu presente a Benevento coi suoi figli Galvano e Corrado, che in quella battaglia furono fatti prigionieri (1266). La seguente restaurazione guelfa in Piacenza determinò la cacciata del Pallavicini e la sottomissione della città al pontefice e a Carlo d'Angiò (1267), che prometteva buoni affari ai mercanti piacentini nel Regno di Sicilia. U., che in queste novità si vide confiscati i beni, si ritirò, deluso anche per l'insuccesso di Corradino a Tagliacozzo, a Bardi (che il comune di Piacenza conquisterà nel 1269) e quindi si consegnò all'Angiò nel desiderio di liberare i figli (1271). Dopo alcuni accordi tra Landi e comune guelfo (sempre più monopolizzato dagli Scotti) mediati dal papa piacentino Gregorio X (1276), U. recuperò parte dei beni confiscatigli nel 1267 e vide il figlio Galvano, sopravvissuto alla prigionia, finalmente liberato (1280). In questi anni di tregua U. donò una vasta area nella vicinia piacentina di S. Maria del Cario ai Francescani che su di essa costruirono la chiesa e il convento; ma la tregua durò poco, perché alla fine la determinazione di Alberto Scotti sollecitò la reazione di U., insofferente del potere di quello. La lotta divampò nuovamente e alla fine U., rifugiandosi ancora una volta nelle sue rocche, lasciò campo libero alla signoria dello Scotti (1290). Nei suoi testamenti (1277, 1297-1298) U. privilegiò enti religiosi e attività benefiche: diversi ospedali di Piacenza, il monastero di Chiaravalle della Colomba in cui voleva essere sepolto, i conventi di Minori, Eremitani e Predicatori, nonché le domus gerosolimitane e dei Templari (alle quali donò le sue armi e i suoi cavalli). Le sue vicende sono ben documentate dalla cronaca piacentina dell'Anonimo (Annales placentini, 1863), nel quale sembra si debba ravvisare un notaio impegnato nelle attività amministrative che a U. facevano capo.
Fonti e Bibl.: Annales placentini (1012-1284), a cura di G.H. Pertz, in M.G.H., Scriptores, XVIII, 1863, pp. 411-457 (in cui si trova la cronaca dell'Anonimo); R. Vignodelli Rubrichi, Il fondo Landi. Archivio Doria Landi Pamphili. Carteggio, Parma 1974; Il "Registrum Magnum" del Comune di Piacenza, a cura di E. Falconi-R. Peveri, I-IV, Milano 1984-1988. G.A. Mariani, Dichiaratione dell'arbore e discendenza di casa Landi […], Milano 1603; P.M. Campi, Dell'Historia ecclesiastica di Piacenza, Piacenza 1651-1662; A. Corna, Profili di piacentini illustri, ivi 1914; A. Samoré, Gregorio X ed Ubertino Landi, "Archivio Storico per le Province Parmensi", 30, 1978, pp. 43-64; P. Castignoli, Dalla podesteria perpetua di Oberto Pallavicino al governo dei mercanti, in Storia di Piacenza, II, Dal Vescovo conte alla signoria (996-1313), Piacenza 1984, pp. 277-298; G. Morra, Storia di Venafro dalle origini alla fine del Medioevo, Montecassino 2000; I podestà dell'Italia comunale, I, 1, Reclutamento e circolazione degli ufficialiforestieri (fine XII sec.-metà XIV sec.), a cura di J.-C. Maire Vigueur, Roma 2000 (i saggi di G.L. Battioni per Bergamo, di G. Albini per Piacenza, di A. Zorzi per Firenze e di O. Redon per Siena).