DECEMBRIO, Uberto
Nacque a Vigevano intorno alla metà del sec. XIV, o poco dopo (le date proposte, 1350 dal Corbellini e 1370 dal Borsa, non trovano conferma documentaria). Il padre Anselmo apparteneva al ramo dei Decembri Badalla, uno dei gruppi in cui si distingueva l'antica famiglia vigevanesca dei Decembri. Ma non si hanno notizie precise né sulla famiglia del D. né sugli anni della sua giovinezza, sicuramente trascorsa nel paese natale. Non è dato verificare l'ipotesi, avanzata dal figlio dei D. Pier Candido che egli, giovanissimo, abbia avuto rapporti col Petrarca quando questi si trovava a Pavia, città nella quale il D. compì con probabilità i suoi studi, frequentando anche l'astronomo padovano Giovanni Dondi dell'Orologio. A Pavia, comunque, il D. sposò Caterina Marazzi, figlia di un famoso medico, dalla quale ebbe quattro figli: Modesto, Pier Candido, Paolo Valerio, Angelo Camillo.
Intorno all'anno 1390 il D. dovette entrare in contatto con Pietro Filargis (Filargo) detto Pietro di Candia che, teologo ufficiale della corte viscontea, già godeva di grande prestigio presso Gian Galeazzo Visconti, dal quale prima era stato nominato vescovo di Piacenza (1386) e di Vicenza (1388) e poi era stato trasferito a Novara (1389), diocesi a cui apparteneva anche Vigevano. A quest'uffimo periodo risale la nomina del D. a segretario del Filargo: e come segretario e notaio del vescovo la presenza del D. col Filargo nell'isola di San Giulio sul lago d'Orta è attestata nel marzo 1391. Sul finire di quello stesso anno il D. si trasferì a Pavia, sempre col Filargo, lì mandatovi per la soluzione di una causa fra enti ecclesiastici. Costantemente partecipe alle attività politiche del Filargo, il D. si recò al suo seguito, fra l'altro, una prima volta a Firenze nel settembre 1392 quando, in seguito all'accordo di Genova del 30 gennaio di quell'anno, Firenze e Milano si erano riappacificate. Fu nell'occasione di questa permanenza fiorentina che il D. dovette conoscere Coluccio Salutati e molti altri umanisti fiorentini, con cui rimase successivamente in cordiale relazione di amicizia, esternatagli anche con lettere piene di premure e di notizie. Sempre col Filargo il D. ritornò a Firenze in anni successivi (ad esempio nel febbraio 1393) nell'ambito di ambascerie destinate a rendere meno precari i rapporti fra Milano e Firenze.
La più importante missione diplomatica a cui partecipò il D. fu, però, il viaggio a Praga, sempre col Filargo, per ottenere dall'imperatore Venceslao la concessione del titolo di duca per Gian Galeazzo Visconti. Il viaggio per Praga, lungo e pieno di difficoltà, incominciò quasi sicuramente nel 1393 e il soggiorno del D. in quella città è probabile che sia durato fino all'agosto del 1395, quando cioè il Filargo - che nel frattempo era stato insignito del titolo di conte del Sacro Romano Impero dallo stesso imperatore - partì per Milano. D'altra parte sembrerebbe strano, dati i rapporti col Filargo, che il D. (come è sostenuto dal Borsa) fosse rimasto ancora a Praga insieme con l'ambasciatore visconteo Giorgio Cavalli; è comunque da escludere il ritorno del D. in un successivo viaggio. Sicuramente il D. era a Milano il 5 sett. 1395, quando appunto il Visconti venne proclamato duca e il Filargo, che celebrava così il suo trionfo politico, tenne una solenne orazione. Dal Visconti il D., in segno di gratitudine per il suo operato, ricevette il titolo di conte palatino.
Altri successivi fatti testimoniano l'intimità dei rapporti fra il D. e il Filargo. Così il 25 giugno 1399 il D. era presente a Pavia nella casa del Filargo alla stipulazione del contratto matrimoniale fra Lucia Visconti e Federico margravio di Turingia, mentre l'11 settembre successivo il D., sempre insieme col Filargo, come o conte palatino et imperiale notario", rogò l'atto di trasferimento e di possesso della città di Siena da parte del Visconti. Per questa occasione il D. era a Siena già dall'inizio dell'agosto e ancora vi si trovava in ottobre, quando, il 7 di questo mese, a nome del Filargo, indirizzò una dura lettera ai Fiorentini (lettera che provocò una risposta. scritta del Salutati a nome della Signoria il 20 ottobre) nella quale contestava l'avvenuta occupazione del castello di Monteluco. Nel novembre, comunque, il D. insieme col Filargo era di ritorno a Pavia, e in questa città, sede della corte viscontea, rimase poi almeno fino alla prima metà del 1403.
Sempre col Filargo il D. andò, e forse più volte, a Venezia nel corso del 1401: ne sono esplicita testimonianza i suoi ricordi dell'Arsenale e delle gare di tiro inseriti nel quarto libro del suo De Republica. Alla corte dei Visconti il D. lavorò con passione, anche nel diffondere l'ideologia politica lì dominante, all'interno della Cancelleria; ma ciò non gli impedì di frequentare le lezioni universitarie di Manuele Crisolora, col quale strinse una fervida amicizia: a questa amicizia col Crisolora partecipò anche tutta la famiglia del D. e in particolare il giovane figlio Pier Candido, che poi sempre avrebbe ricordato il dotto umanista bizantino.
In seguito all'elezione del Filargo ad arcivescovo di Milano (17 maggio 1402) il D. dovette trasferirsi in quella città, anche se forse solo più tardi vi portò la famiglia (da un atto rogato il 6 apr. 1408 sappiamo che abitava a Porta Romana, nel territorio della parrocchia di S. Giovanni della Croce, ora scomparsa). Ma pochi mesi dopo la morte, avvenuta il 3 sett. 1402, di Gian Galeazzo Visconti - al quale più volte il D. aveva manifestato la sua devozione, anche con scritti che pur esaltando la vittoria a Casalecchio del 1402 fanno trasparire la crudeltà del Visconti nei riguardi dei nemici vinti - si creò a Milano una difficile situazione politica e sociale nella quale, però, mancano dati relativi alla posizione esatta e al comportamento del Decembrio. Comunque nell'anno 1404 il D. passò dal servizio del Filargo alla Cancelleria viscontea, così che l'anno successivo non seguì a Roma l'arcivescovo incaricato da papa Innocenzo VII di continue legazioni, e preferì rimanere a Milano, forse già godendo della protezione dei duca Gian Maria. Col Visconti il D. collaborò soprattutto alla stesura di lettere diplomatiche e politiche, e con lui rimase anche quando il Filargo fu consacrato papa, col nome di Alessandro V, dal concilio di Pisa il 7 luglio 1409; e a Giovanni Visconti (nominato dal già deposto Gregorio XII), suo successore alla cattedra arcivescovile, il D. dedicò un carme in cui auspicava ardentemente il ripristino dell'ordine e il ritorno della pace.
Il suo desiderio di una pacifica convivenza civile il D. non lo affidò soltanto alle lettere e alle poesie: in particolare, quando nel 1410 scoppiarono i dissidi fra il duca Gian Maria e suo fratello Filippo Maria il D. si adoperò tanto per la loro riconciliazione che ne pagò di persona. Infatti, essendo state intercettate, ai primi di gennaio del 1411 alcune sue lettere, egli fu incarcerato da Facino Cane, che si era tirannicamente interposto fra i due contendenti, e rimase chiuso nella torre che sorgeva presso Porta Romana di Milano per un anno e mezzo (come ricorda anche nel prologo al qqarto libro del De Republica), e cioè fino alla morte dello stesso Facino Cane, avvenuta il 16 maggio 1402. Ma i guai per il D. non finirono neppure con l'assassinio di dian Maria e poi l'avvento al potere di Filippo Maria (16 giugno 1412), nella cui Cancelleria il D. riprese a lavorare. In una lettera al Crisolora, databile al 103, il D. appunto si lamenta, oltre che di una malattia che allora lo affliggeva, anche della fatica affrontata per riottenere i suoi beni e della difficoltà che incontrava per sistemare i figlioli. E tali difficoltà sembra che finissero solo nel 1419, quando cioè il figlio Pier Candido, nominato segretario ducale da Filippo Maria, poté garantire anche al padre un'esistenza più serena. Lo stesso D. ottenne ampi riconoscimenti dal duca, anche in cambio della composizione delle sue opere più impegnative. Fra l'altro al D. fu affidato l'incarico di recitare un'orazione De adventu Martini V pontificis in onore appunto di papa Martino V quando questi, dopo la sua elezione a Costanza, si fermò il 5 ott. 1418 a Milano, durante il viaggio di trasferimento a Roma.
Nel 1422 il D. fu nominato podestà di Treviglio per il secondo semestre di quell'anno (forse dopo altre cariche minori), ma la sua salute andò poi peggiorando tanto che propose al figlio Modesto di subentrargli nell'incarico. Ma di questo periodo trascorso a Treviglio e delle riconferme che in quell'ufficio il D. ebbe successivamente (forse per intercessione di Pier Candido) ben poco si conosce.
A Treviglio il D. morì mentre era podestà, il 7 aprile del 1427. La sua salma fu trasferita a Milano e sepolta, come poi quella di Pier Candido, nella chiesa di S. Ambrogio (nelle vicinanze della quale, in via Camminadella, il D. possedeva una casa); sul sepolcro furono scolpite due epigrafi, dettate dallo stesso D., una in latino e una in greco (il cui testo è tratto dai Salmi 41,5; 30,6; 10,7) anche per ricordare il suo impegno di uomo e di letterato.
Figura di rilievo nei circoli della Cancelleria viscontea, ma senza dubbio inferiore a quella -di Antonio Loschi, l'umanista più insigne della corte milanese e suo collega nella Cancelleria, il D. acquistò notorietà essenzialmente per il ruolo che venne da lui svolto, col Filargo e coi Visconti, nell'ambito della politica dei signori di Milano; egli legò il suo nome anche, e soprattutto, alla traduzione della Repubblica di Platone, da lui trasportata in latino insieme col Crisolora. Ma il complesso della sua attività letteraria, nonostante una notevole fecondità, rimase sicuramente di scarsa rilevanza, e la stessa traduzione platonica fu oggetto di violente critiche e forti polemiche, anche se ebbe una certa diffusione, come testimoniano, ad esempio, alcune lettere di Picr Paolo Vergerio (Epistolario, ediz. Smith, p. 238) e di Leonardo Bruni (Epistolae, ediz. Mehus, II, p. 148); a Costanza, al tempo del concilio, il testo del D. circolava per merito di Gerardo Landriani, che lo aveva avuto da Pier Candido. È certo, quindi, che soltanto alla dedizione dei figli Modesto e Pier Candido si deve la raccolta di quasi tutti gli scritti del D. in un manoscritto, per noi fondamentale, della Biblioteca Ambrosiana di Milano, il B. 123 sup.; tale manoscritto, derivato da un accostamento di due manoscritti (le prime 77 carte, infatti, contengono sette libri delle Seniles del Petrarca), dipende molto probabilmente da un esemplare autografo del D. o per lo meno da uno a lui molto vicino, e forse fatto'compilare dal figlio Pier Candido che lo postillò e vi aggiunse anche documenti riguardanti il D. e gli altri suoi fratelli fino quasi al 1460.
La produzione letteraria complessiva del D. può raccogliersi in cinque gruppi: orazioni, trattati, versioni dal greco, poesie, lettere.
Per quanto riguarda le orazioni, oltre a quella ricordata De adventu Martini V pontificis nella quale il papa veniva salutato come pacificatore della Chiesa, giuocando anche sul nome "Oddone" di Martino V, e quindi sul significato di "via" (in greco appunto 0δός), ilD. ne scrisse un'altra rivolta ai cardinali, della quale però sono rimasti solo l'incipit e l'explicit, e non ci è dato saperng la motivazione originaria (forse l'occasione del concilio di Costanza).
Al figlio primogenito Modesto il D. dedicò uno dei suoi primi scritti organici, il breve trattato De modestia, intendendo con "modestia" non tanto "temperanza" quanto piuttosto "moderazione", "misura". Ma lo sviluppo della trattazione è molto più ampio di quanto farebbe pensare il titolo, in quanto al concetto di "moderazione" il D. perviene dopo un esame delle funzioni dei molteplici elementi che compongono sia il globo terrestre (acqua, fuoco, animali) sia l'universo intero (ordine e movimento dei pianeti e delle stelle): proprio tutti questi elementi, che in apparenza sembrano tanto diversi l'uno dall'altro, sono fra loro indissolubilmente legati da una legge che tutti li concilia, e questa legge è proprio la "modestia". Da essa, e dalla provvidenza divina, deriva l'equilibrio generale del mondo e, insieme, l'armonia delle cose contrastanti che sul mondo agiscono, tutte proiettate verso fini di bene. Come per il creato, così anche per l'uomo, del quale il D. studia il corpo in ogni sua parte. E citeste parti, pur avendo ognuna costituzioni e scopi differenti, ubbidiscono tutte al capo e all'animo: e in quest'ultimo caso il significato di "modestia" è proprio quello di temperanza.
Cronologicamente vicino al precedente, dovrebbe essere l'altro trattato dei D., il De candore, dedicato al figlio Pier Candido. Meno vincolato dell'altro allo sfoggio e all'abbellimento erudito, anche questo trattato è distinto in due parti principali: nella prima vengono presentate ed esaminate tutte le cose "candide" esistenti sulla terra (la neve, il marmo, la luna, gli astri) fino agli animali (che hanno pelle e piuma candide) e ai frutti. Ciò consente al D. di aprire un'ampia digressione sul significato che il colore bianco ha sempre avuto nella storia dei mondo; così ricorda, ad esempio, la toga candida e il fatto che la giustizia veniva amministrata dai giudici vestiti di bianco e che bianchi erano i marmi su cui venivano incisi ed esposti gli editti. Nella parte seconda, piuttosto breve, il discorso è trasferito al candore dell'animo, condizione fondamentale perché l'uomo possa raggiungere la virtù.
Di maggiore impegno è il trattato De Republica, composto fra il 1421 e 1422, o poco dopo: nel prologo viene infatti ricordata l'assunzione nella segreteria ducale viscontea del figlio Pier Candido, avvenuta, come già si è detto, nel 1419. L'opera, distinta in quattro libri, e dedicata a Filippo Maria Visconti, è strutturata in forma di dialogo, che s'immagina avvenuto nel periodo pasquale nei giardini annessì alla chiesa di S. Ambrogio, fra il D., Manfredo della Croce, abate della chiesa, e gli amici Leone e Simone Moriggi. Le tesi esposte nel De Republica risentono non poco dello spirito culturale assai vivo nell'Italia settrionale, proteso ad esaltare il sistema politico della tirannide, e quindi il ruolo dei principe come attento artefice e conservatore dello Stato. Sviluppando il suo discorso sulle possibilità dell'essere umano nel valorizzare le proprie doti, e quindi porsi sul piano sociale a cui è stato destinato dalla natura, il D. non si sottrae all'influsso di Platone, ma predilige, in rapporto alle precedenti interpretazionì, un Platone educatore del genere umano e, più specificamente, edificatore di uno Stato nazionale. A ciascuno dei quattro libri è premesso un prologo, di argomento diverso rispetto a quello trattato nel libro stesso: il primo prolbgo è occupato da amare riflessioni sull'assenza di una vera cultura a Milano nell'età contemporanea; nel secondo sono spiegate le ragionì per cui il trattato De Republica non deriva da quello omonimo di Platone e i motivi per cui da esso si distingue (ma a differenza di quanto espresso dal D. e più di quanto si è creduto, il rapporto di dipendenza coi testo di Platone è evidentissimo ed è riconducibile anche alla nuova attenzione di cui in quel tempo fu oggetto il filosofo greco); nel terzo si fa un'esposizione e una trattazione della virtù e del modo in cui essa può esplicarsi; nel quarto il D. si sofferma a narrare fatti della sua vita, e soprattutto quanto aveva sofferto ai tempi della prigionia sotto la tirannide di Facino Cane. I quattro libri del De Republica affrontano, a loro volta, temi diversi, per quanto uniti dalla comune finalità che a quest'opera il D. volle assegnare: cioè dare una serie di precetti utili nella vita morale come nella politica. Così, dopo aver indagato sull'origine e sul concetto stesso di Stato, il D. dedica ampio spazio al tema dei rapporti sociali, che dovrebbero essere regolati da un intimo senso di giustizia, per poi restringere il suo campo d'indagine allo Stato di Milano, studiandone molteplici aspetti: dal significato del nome alla felicità della sua condizione, alle ragioni della superiorità di questa città rispetto a quelle limitrofe. Il discorso si sposta poi sull'analisi delle varie forme di governo, ognuna delle quali (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannia) viene singolarmente valutata. E trattando del governo democratico il D. non rinuncia a criticare Facino Cane e Ottone Terzi, responsabili di sopraffazioni e tumulti, né manca di descrivere le tristi condizioni dello Stato al momento della morte di Gian Galeazzo Visconti. Fra le varie forme di governo il D. dà, comunque, la preferenza al principato, che a lui, purché il principe sia saggio, moderato, giusto, prudente e religioso, sembra la forma migliore. Il D. si sofferma quindi sui modi di elezione dei magistrati, sulle varie specie dei diritto, sia scritto sia orale, sul ruolo dei cittadini e sulla necessità che i giovani, fin dall'ambiente familiare, siano validamente educati nella cultura fisica come in quella militare e in quella letteraria, perché possano divenire cittadini dotati di saldi principi. A maggior ragione il principe, alla cui figura ideale è dedicato l'ultimo libro, non dovrà sottrarsi ad un'educazione il più completa possibile dal campo militare a quello culturale, dalla religione alla medicina che possa poi trasfondere ai cittadini in genere e soprattutto ai suoi più stretti e preziosi collaboratori.
Altra opera, in forma di dialogo al quale intervengono, oltre al D., Beltramino Rigola, Andrea Arese, Lazzarino Resta è il De morali philosophia, anch'essa databile genericamente al periodo che va dal 1419 al 1422. Il libro, che contiene anche un riferimento all'appena terminato De Republica, presenta una significativa componente autobiografica, in quanto il D. vi rievoca fatti e personaggi legati soprattutto al suo fortunato soggiorno pavese. Proprio in questa parte sta l'interesse maggiore del dialogo mentre per il resto si tratta di un compendio assai poco originale delle Epistole a Lucilio di Seneca. Nello sviluppo dei concetti, semplicemente riassunti, il D. fa un continuo confronto con scritti e massime di Cicerone, soffermandosi in una monotona esposizione. Il dialogo, rimasto interrotto dopo i due primi colloqui, avrebbe dovuto comprendere una più ampia sintesi di tutte le opere morali di Cicerone.
Particolarmente importanti sono, nell'insieme dell'attività letteraria dei D., le sue versioni dal greco in latino: il D., del resto, fu uno dei primi e principali conoscitori della lingua greca proprio quando questa era ancora agli inizi della sua diffusione in Italia. Fra tali traduzioni si distingue quella della Repubblica di Platone, la quale, sia pure attuata in un latino piuttosto scolastico, ebbe, come già si è accennato, una larga diffusione e dette grande fama al D. tanto che il figlio Pier Candido, quando ebbe tradotto anch'egli la stessa opera di Platone e diffuso il suo lavoro nel 1439, non raccolse giudizi lusinghieri rispetto al testo del padre, e il Guarino considerò addirittura la nuova traduzione un semplice rifacimento della precedente dei Decembrio. Questa traduzione fu compiuta dal D. mentre si trovava a Pavia anche con l'aiuto e la collaborazione del Crisolora, allora docente nello Studio di quella città. Il Crisolora fece dapprima una traduzione letterale del testo platonico, soprattutto per i suoi fini didattici; quindi il D., spinto dallo stesso Crisolora, realizzò una traduzione più elegante e insieme più fedele al testo. A questa sua versione il D. rimase sempre particolarmente affezionato, soprattutto per il ricordo dell'amicizia col Crisolora, a tal punto che non inviò il manoscritto all'amico arcivescovo Bartolomeo Capra perché era preoccupato per la poca sicurezza delle strade: gli sarebbe sembrato di perdere parte dell'anima sua, diceva, se l'opera fosse andata perduta.
Perdute sono andate, invece, le versioni del D. da orazioni di Demostene, di Lisia e da altri scritti di Platone, riguardo alle quali dà rapide informazioni Angelo Decembrio nella sua Politia litteraria. È rimasto, al contrario, un compendio di storia romana, per niente originale e pieno di erudizione, poi corretto da Pier Candido e da lui dedicato ad Alfonso d'Aragona. Il D. trascrisse anche alcuni codici, soprattutto per suo uso, come gli Erotemata del Crisolora, sulla cui copia studiò poi lo stesso Pier Candido.
In latino il D. scrisse anche poesie; di esse alcune sono andate perdute, mentre altre, in esametri, si sono conservate. Si tratta di versi di limitato valore, e legati, taluni, ad occasioni contingenti, come l'elezione di Giovanni Visconti ad arcivescovo di Milano; in altre composizioni il D. si rivolge ad esaltare personaggi che potevano in qualche modo essergli utili; come Pandolfò Malatesta, signore di Cesena, Giuseppe da Briggio, Antonio Loschi, Antonio Cassarino. In particolare è da segnalare l'epistola metrica al Loschi, la quale testimonia l'antica e salda amicizia intercorsa fra lui e il Decembrio. Da questa epistola si sa che il Loschi ne aveva scritta una, andata poi perduta, in lode del Decembrio.
Scritti latini minori del D. sono conservati, a quel che risulta, nel solo manoscritto della Biblioteca civica di Bergamo A I.20. Sono brevissimi testi: un'epistola consolatoria ad un amico per la morte del padre, scritta durante l'ufficio podestarile di Treviglio nel 1422; un discorso per la prima messa di un sacerdote; un dibattito sulla superiorità fra ia dignità marchionale e quella comitale, per la quale ultima propende il Decembrio. Il codice che contiene anche una redazione dell'epitaffio del D. diversa da quella poi incisa sul suo sepolcro milanese fu probabilmente commissionato nella sua prima parte dallo stesso D., il quale vi raccolse, fra l'altro, oltre ad alcuni estratti petrarcheschi, testi di carattere diplomatico in relazione alla corrispondenza politica fra Milano e Firenze, riconducibili al tempo del suo operato presso il Filargo.
Assai più significative, invece, appaiono le non molte lettere del D., conservate anch'esse nell'ultima parte del manoscritto B. 123 sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Il D., tuttavia, non si era proposto, durante la sua vita, di raccogliere e ordinare il suo epistolario, e questo può spiegare la ragione di un numero (circa una trentina) così esiguo di lettere rimaste, nonostante l'ampio raggio di conoscenze e di relazioni che egli dovette avere con molti suoi contemporanei. Per di più l'attuale sistemazione delle lettere è dovuta, anch'essa, alle cure del figlio Pier Candido, il quale, raccogliendo le missive dei padre a trent'anni di distanza dalla sua morte, si trovò in non poche difficoltà non solo nel reperirle ma anche addirittura nell'attribuirle e nel datarle. Insieme ad alcune lettere indirizzate al D. (ad esempio da Antonio da Vimercate, da Bartolomeo Capra, da Manuele Crisolora), si distinguono quelle da lui scritte in rapporto alle sue funzioni di segretario e cancelliere, e quindi anche a nome di altri (Filargo, Gian Maria Visconti, Bartolomeo Capra). Due lettere sono rivolte al Salutati, piene di artifizi retorici, scritte probabilmente al tempo dell'ambasceria a Firenze del 1393, e piene di ammirazione per la figura e l'opera del Salutati stesso. Altre tre sono scritte ad Antonio Loschi (non espressamente citato nelle intitolazioni, ma ormai non più confondibile con altri personaggi: ad esempio, lo stesso Salutati, col quale era stato nel passato scambiato come destinatario delle missive). Di queste tre lettere, due, scritte da Praga, riferiscono su usi e costumi degli abitanti e sulla bellezza della città, la terza è consolatoria riguardo alle miserie della vita umana. Pochissime sono le altre lettere, strettamente familiari del D.; alcune sono indirizzate al figlio Modesto, o di lui parlano, come quella di raccomandazione presso il Filargo, ormai papa, e altre a personaggi vari come Bonfiglio da Ravenna, Simone e Leone Moriggi, colleghi nella Cancelleria viscontea.
Fonti e Bibl.: Frammentarie notizie sulla vita dei D. si trovano sia in alcune sue lettere, sia in altre del figlio Pier Candido (ad es. nel ms. Riccardiano 827, cc. 9r, 48v),che in più occasioni ebbe modo di parlare del padre. Nell'Arch. di Stato di Milano si trovano non molti documenti riguardanti il D., pubblicati in occasioni diverse da alcuni degli autori citati nella seguente bibliografia: Antiqua Ducum Mediolanensium decreta, Milano 1654, p. 259;Ph. Argelati, Bibliotheca scripi. Mediolanensium, II, Mediolani 1745, coll. 2106-2108;G. A. Sassi, Historia literariatypographica Mediolanensis, ibid., coll. 299 s.; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VI, Modena 1790, p. 734;F. M. Colle, Storia scientifico-letteraria dello Studio di Padova, IV, Padova 1825, pp. 19, 505; C. Morbio, Codice Visconteo Sforzesco, Milano 1846, pp. 3286,C.Giuliani, Memorie, VII,Milano 1857, pp. 282, 285 s.; L. Geiger, Beziehungen zaischen Deutschland und Italien zur Zeit des Humanismus, in Zeitschrift für deutsche Kulturge, chichte, VII (1875), pp. 104-109;A. Hortis, La città di Praca descritta da un umanista, in Archeoerqfo triestino, VII (1880), pp. 5 ss.; G. Voigt, Il risorcimento dell'anrichità classica, I,Firenze 1888, pp. 229, 500 s., V. Forcella, Iscriz. delle chiese e degli altri edifici di Milano, III,Milano 1890, pp. 231 s.; R. Sabbadini, L'ultimo ventennio della vita di Manziele Crisolora, in Giorn. ligustico, XVII (1890), pp. 330 ss.; M. Borsa, Pier Candido Decembrio e l'umanesimo in Lombardia, in Arch. stor. lomb., XX (1893), pp. 358 ss.; Id., Un umanista vigevanasco dei secolo XIV, in Giorn. ligustico, XX (1893) pp. 81-111, 199-215; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci nei secc. XIV e XV, I,Firenze 1905, pp. 60, 76 s.; III ibid. 1914, p. 225; F. Novati, Aneddoti viscontei, I, U. D. e Coluccio Salutati; II, Il viaggio del D. in Boemia e la sua data dell'ambasciata viscontea a Venceslao re de' Romani, in Arch. stor. lomb., XXXV (1908), pp. 1-24; Id., Francesco Petrarca e la Lombardia, Milano 194, p. 57; A. Corbellini, Appunti sull'umanesimo in Lombardia, in Boll. della Soc. pavese di storia patria, XVI (1916), pp. 109-147; F. Fossati, Una lettera di U. D. ai Lodigiani, in Arch. stor. lodigiano, XL (1921), pp. 1-6; C. Santoro, Registri dell'Ufficio di Provvisione e dell'Ufficio dei Sindaci, Milano 1929, ad Ind.; E. Ditt, Pier Candido Decembrio. Contributo alla storia dell'Umanesimo ital. (con una nota di R. Sabbadini), in Memorie d. R. Ist. lombardo di scienze e lettere, XXIV (1931), pp. 22, 30-33; R. Sabbadini, U. D., in Enc. Ital., XII,Roma 1931, pp. 457 s.; Id., Classici e umamsti da codici ambrosiani, Firenze 1933, pp. 85-94; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1933, pp. 27, 41, 97, 128; G. Cammelli, Manuele Crisolora, Firenze 1941, ad Ind.; E. Garin, Ricerche sulle traduz. di Platone nella prima metà del sec. XV, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di B. Nardi, I,Firenze 1955, pp. 345 ss.; Id., La cultura milanese nella prima metà del XV sec., in St. di Milano, VI,Milano 1955, pp. 148, 554-69 passim; H. Baron, The Crisis of the Early Ital. Renaiss., Princeton, N. J., 1955, pp. 30, 368 ss., 628; V. Zaccaria, Pier Candido Decembrio traduttore della "Repubblica" di Platone, in Italia mediev. e umanistica, II (1959), pp. 181-204;G. Resta, Antonio Cassarino e le sue traduzioni da Plutarco e Platone, ibid., pp. 55-69;A. Zanella, U. D. e un codice bergamasco, in Bergomum, XXXVI (1962), 1, pp. 89-124; XXXVII (1963), 3, pp. 69-79; XXXVIII (1964), I, pp. 57-73; D. Bottoni, I Decembrio e la traduzione della "Repubblica" di Platone: dalle correzioni dell'autografo di U. D. alle integrazioni greche di Pier Candido, in Vestigia. Studi in onore di G. Billanovich, Roma 1984, pp. 75-91, M. E. Cosenza, Biographical and Bibliographical Dict. of the Italian Humanists, II,Boston 1962,coll. 1294 s.; P. O. Kristeller, Iter Italicum, ad Indices.