UBERTO PALLAVICINI
Tra i più noti esponenti della famiglia marchionale dei Pallavicini, uno dei rami derivati dal ceppo obertengo, U. nacque da Guglielmo, probabilmente nel 1197. I vasti possessi dei Pallavicini, cui erano connessi diritti di signoria, erano concentrati nel triangolo tra Cremona, Piacenza e Parma. Nel 1198 nel tratto piacentino della strada, che univa queste ultime due città, fu aggredito e depredato il cardinale legato Pietro di Capua. In seguito a questo episodio, anticipatore della politica di ostilità nei confronti del papato che U. avrebbe in seguito sviluppato, Guglielmo Pallavicini venne bandito da Piacenza, timorosa di ritorsioni da parte della Sede Apostolica.
Le prime notizie riguardanti U. lo vedono, alleato del comune di Cremona, intervenire in qualità di condottiero contro i milites piacentini, cui inflisse una sconfitta militare a Gravago in Val Ceno (1234). Nominato podestà di Piacenza nel 1236, venne poi espulso dalla città insieme a Guglielmo dell'Andito, capo della parte popolare, per volontà del legato papale Giacomo da Pecorara. Nel 1239 tenne la carica podestarile a Pavia e contestualmente fu nominato vicario generale dell'imperatore per i territori della Lunigiana, della Versilia e della Garfagnana. Negli anni successivi fu podestà a Reggio Emilia (1243) e a Como (forse 1246), per il cui territorio "partibus comacinis" risultava già essere vicario generale dell'imperatore nel 1243 (v. Vicariati generali). La sempre più stretta collaborazione con lo schieramento imperiale fruttò a U. la conferma, nel 1249, dei diritti feudali nel comitato dell'Aucia (come era storicamente definito il territorio sotto la giurisdizione dei Pallavicini) e, l'anno successivo, l'immunità ‒ trasmissibile ai successori ‒ da qualsiasi onere per le persone e i beni relativamente all'area aucense, alle città di Piacenza, Cremona, Parma e a quelle di Lombardia e Toscana, sebbene in quest'ultima regione i beni del marchese fossero ormai poca cosa. Nello stesso 1249 assunse il titolo di "signore perpetuo" di Cremona, dove gli fu di grande vantaggio l'appoggio di Buoso da Dovara, uno dei maggiori esponenti dello schieramento ghibellino locale (detto dei 'barbarasi'). Negli anni seguenti Buoso divenne un vero e proprio luogotenente, poiché U. era impegnato a consolidare il proprio potere in altre città. In questo torno di tempo il marchese concentrò la propria azione contro i parmigiani, che sconfisse, nuovamente con l'aiuto dei cremonesi, in una battaglia campale nei pressi del luogo in cui era sorta Vittoria; si adoperò anche per riorganizzare il partito imperiale a Bologna. La morte di Federico II nel dicembre del 1250 vanificò in gran parte la portata delle concessioni imperiali, cui tuttavia il marchese continuò ad appellarsi. In ogni modo il favore della casa sveva non venne meno: nel 1251 Corrado IV nominò U. vicario regio per la Lombardia orientale (più precisamente il territorio lungo l'intero corso del Lambro), accanto a Marino da Eboli (v.; per l'area a nord di Pavia) e al marchese Manfredi Lancia (per l'area a sud di Pavia); tale concessione fu nuovamente confermata due anni dopo. Le principali basi dell'azione di U. continuavano ad essere Cremona e Busseto, quest'ultimo centro fortificato verso l'Emilia; la sua influenza aumentava in modo rilevante anche a Piacenza, di cui divenne 'podestà perpetuo' tra il 1252 e il 1253; ma anche a Pavia, Parma, Vercelli, Novara, Alessandria, Tortona, Bergamo e Milano. Sul finire degli anni Cinquanta l'estendersi progressivo della potenza di U., che puntava ormai in modo chiaro all'egemonia su un vasto territorio, creò, seppure temporaneamente, forti contrasti a Piacenza e portò alla rottura con Ezzelino da Romano, a lungo suo alleato, della cui sconfitta a Cassano d'Adda (1258) fu uno degli artefici. Nel novembre del 1259 accettò la carica di 'capitano generale' di Milano, dove procedette a destituire il podestà in carica e a sostituirlo con un suo parente; negli anni successivi altri esponenti della famiglia Pallavicini tennero la carica podestarile: Guglielmo di Scipione nel 1261, Ubertino nel 1262, Uberto detto Pellegrino nel 1264. Il carattere politico del potere acquisito da U. trova testimonianza, per quanto riguarda Milano, nell'imposizione di tasse agli enti ecclesiastici della diocesi, impiegate per finanziare le casse comunali e le spese militari. Più in generale, in un quadro di assetti precari, la costante capacità di recuperare influenza e controllo sia nelle città dove aveva già a lungo operato, sia in altre, come Brescia, Bobbio, Pontremoli, dove la sua azione si era inserita più di recente, era il segno che U. andava realizzando il proposito di creare una vasta compagine territoriale su cui esercitare la signoria. Nel 1261 U. reimpose il proprio potere egemonico a Piacenza ‒ dove il malgoverno di Alberto da Fontana aveva scontentato i suoi stessi sostenitori ‒, attraverso il rientro in città di Ubertino Landi (v.), quando anche altrove, ad esempio a Firenze, i ghibellini segnavano punti a proprio vantaggio; di nuovo insignito della signoria di Piacenza, per quattro anni, egli nominò in qualità di vicario il nipote Visconte. Il quadriennio tra il 1262 e il 1266 avvia la fase finale della potenza di U., la cui posizione era comunque ancora fortissima a Piacenza e a Parma. Il capovolgimento delle fortune del marchese avvenne con la discesa in Italia dell'esercito di Carlo d'Angiò, che si avvalse del decisivo appoggio del marchese del Monferrato, dei della Torre e del marchese d'Este, tradizionali sostenitori degli Svevi; nella battaglia di Benevento morì Arrigo Pallavicini, altro esponente della famiglia, mentre Oberto Pallavicini di Scipione venne sconfitto in Piemonte: per il marchese U., costretto a ritirarsi nel territorio aucense e abbandonato dai cremonesi, fu l'inizio della fine. Distrutti il palazzo Pallavicini a Parma e la rocca di Soragna nel 1267, l'ultima resistenza si consumò tra Borgo San Donnino e Busseto, poi il marchese si chiuse nel castello di Gusaliggio in Val Mozzola (una laterale della Val di Taro), dove morì, fortemente amareggiato e senza avere avuto i conforti religiosi, l'8 maggio 1269. Di U. ci è giunto il testamento, datato in Gusaliggio, lunedì 29 aprile 1267. Eredi erano nominati il figlio Manfredino (che portava nel nome il segno della fedeltà agli Svevi) e quattro figlie, di cui al momento della morte una soltanto era sposata; le altre tre ebbero 1.000 lire imperiali e gli alimenti fino alle eventuali nozze. La tutela del patrimonio veniva affidata alla seconda moglie Sofia ‒ la prima, Berta, figlia del conte Ranieri di Pisa, era stata ripudiata perché non poteva avere figli ‒ e ai nipoti Uberto, Visconte e Guido; di ulteriori lasciti beneficiarono, tra gli altri, il monastero cistercense di Fontevivo e comunità religiose di Parma, Piacenza e Cremona.
La Cronica di Salimbene de Adam tratteggia l'aspetto fisico del marchese in modo poco rispondente a quello che si ritiene proprio di un condottiero: precocemente invecchiato, gracile, cagionevole di salute, e per di più privo di un occhio che un gallo gli aveva strappato quando era ancora in culla. Quanto al carattere, era quello di persona assetata di potere e quindi disposta, per conseguire nuovi successi, a sacrificare anche chi aveva condiviso con lui tante esperienze; tuttavia capace di pensare in grande (dotato "magnifici cordis"), tale da suscitare un'indiscutibile ammirazione.
Sul piano storiografico la vicenda di U. ‒ in particolare la posizione che seppe raggiungere a Milano ‒ è stata letta come esempio di precoce esperienza signorile in un quadro perfettamente comunale, in quanto si realizzò nell'ambito del mondo politico cittadino (Tabacco, 1979, pp. 355-360). A Milano infatti il sorgere del potere dei della Torre, che affondava le proprie radici nelle istituzioni comunali, si alternò e coesistette con la signoria personale di U.: contestualmente alla nomina di Martino della Torre ad 'anziano del popolo' (1259), U., che continuava a detenere la signoria su parecchie città, fu proclamato 'capitano generale del popolo' per un quinquennio. In tal modo negli organismi amministrativi cittadini agivano in sintonia esponenti della parte torriana, di tradizione antimperiale, e il condottiero filoimperiale, che non svolgeva soltanto compiti di protezione militare, ma si avvaleva anche di un potere di natura politica, tradotto ad esempio nella nomina del podestà. Allo scadere del quinquennio del capitanato generale di U., i della Torre avrebbero trovato nuove forme di coordinamento con gli angioini.
Fonti e Bibl.: Acta Imperii inedita, I, nr. 368, p. 325; Conradi IV Constitutiones, a cura di L. Weiland, in M.G.H., Leges, Legum sectio IV, X, II, 1896, pp. 450-451; Codex Diplomaticus Cremonae, a cura di L. Astegiano, II, Torino 1898, pp. 216-217; Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, I-II, Bari 1966, passim e pp. 504, 595-597; Il Registrum magnum del comune di Piacenza, a cura di E. Falconi-R. Peveri, III, Piacenza 1986, nrr. 762, 763, 786; Gli atti del comune di Milano nel secolo XIII, a cura di M.F. Baroni, IV, Alessandria 1997, nrr. CXLII, CLXIV. I. Affò, Storia della città di Parma, II, Parma 1792, pp. 384-387; G. Franceschini, La vita sociale e politica nel Duecento, in Storia di Milano, IV, Dalle lotte contro il Barbarossa al primo signore (1152-1310), Milano 1954, pp. 113-392; U. Gualazzini, Aspetti giuridici della signoria di Uberto Pelavicino su Cremona, "Archivio Storico Lombardo", 83, 1956, pp. 20-28; E. Nasalli Rocca, La signoria di Oberto Pellavicino nella formulazione dei suoi atti di governo, ibid., pp. 29-43; Id., La posizione politica dei Pallavicino dall'età dei comuni a quella delle signorie, "Archivio Storico per le Province Parmensi", 20, 1968, pp. 93 s. (pp. 65-113); G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 1979; P. Castignoli, Dalla podestaria perpetua di Oberto Pallavicino al governo dei mercanti, in Storia di Piacenza, II, Dal vescovo conte alla signoria (996-1313), Piacenza 1984, pp. 277-298; P. Racine, La discordia civile, ibid., pp. 235-276; E. Voltmer, Personaggi attorno all'imperatore: consiglieri e militari, collaboratori e nemici di Federico II, in Politica e cultura nell'Italia di Federico II, a cura di S. Gensini, Pisa 1986, pp. 71-93; E. Voltmer-F. Menant, Bovara, Buoso da, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLI, Roma 1992, pp. 566-569.