Vedi Ucraina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Ucraina, indipendente dal 1991, ha costantemente risentito del retaggio del periodo sovietico che ha condizionato le sue relazioni tanto con la Russia e gli altri paesi emersi dalla dissoluzione sovietica, tanto con gli interlocutori euro-atlantici. La quasi totalità dell’attuale territorio ucraino è appartenuta per secoli prima all’Impero russo, poi all’Urss nella forma istituzionale di Repubblica socialista sovietica. I legami con la Russia hanno continuato a condizionare il modo in cui Kiev ha guardato alla politica internazionale. Le ragioni sono molteplici: in primo luogo, il territorio ucraino ospita consistenti minoranze di etnia russa e di lingua russofona, in Crimea e nell’Ucraina sud-orientale, e, infine, l’Ucraina è un importante hub energetico di transito verso l’Europa occidentale. D’altra parte, l’approfondimento delle relazioni in ambito bilaterale e multilaterale con i paesi dell’Unione Europea (Eu) e gli Stati Uniti rappresentano un tentativo di acquisire maggiore indipendenza dall’influenza russa. Il suo orientamento occidentalista è emerso con le proteste anti-governative della Maidan Nezalezhnosti (Piazza dell’Indipendenza) a Kiev nel novembre del 2013. La crisi ha acuito e ha fatto emergere le profonde divisioni sociali ed etniche presenti all’interno del paese ed è considerata la più grave crisi diplomatica tra Russia e Occidente dalla fine della Guerra fredda. All’origine della crisi vi è stata la decisione del presidente Viktor Janukovyč, il 21 novembre 2013, di sospendere la firma dell’Accordo di associazione e di stabilizzazione (Asa) con l’Eu prevista a Vilnius il 29 novembre successivo e di rivolgersi invece a Mosca per un sostegno finanziario e uno sconto sull’importazione di gas del 30%. Nei tre mesi successivi, un numero crescente di manifestanti ha occupato le piazze di Kiev chiedendo sia un ripensamento dell’esecutivo circa il mancato accordo con l’Eu, sia le dimissioni del governo e del presidente stesso. Nel gennaio 2014, con l’approvazione parlamentare di una legge restrittiva della libertà di manifestazione, sono nuovamente esplose le violenze. Di fronte al crescente numero di scontri (che ha portato alla morte di circa 100 persone) e di manifestazioni filo-europeiste e a un fallito tentativo di mediazione con l’opposizione e i ministri degli esteri europei, si è assistito alle dimissioni del governo di Mykola Azarov e alla fuga del presidente Janukovyč nel febbraio 2014, prima a Kharkiv, nell’est russofono dell’Ucraina, e poi a Rostov, nella Russia meridionale. A seguito di ciò, la Rada ha conferito le funzioni presidenziali ad interim all’ex direttore dei servizi segreti ucraini e braccio destro della Tymošenko, Oleksandr Turčinov. Negli stessi giorni si insediava a Kiev un nuovo governo transitorio non riconosciuto dalla Russia ma supportato dall’Occidente e presieduto dal primo ministro Arsenij Jatsenjuk. Parallelamente venne formata una nuova coalizione ‘La scelta europea’, composta da 250 deputati delle principali formazioni filo-europeiste come Batkovshina (‘Patria’) di Julia Tymošenko, Udar (‘Pugno’) dell’ex pugile e attuale sindaco di Kiev, Vitalij Kličko, e Svoboda di Oleg Tjagnibok. Appena insediato, il nuovo governo ad interim ha votato la scarcerazione dell’ex premier Tymošenko, il mandato di cattura nei confronti dell’ex presidente, il ritorno alla Costituzione del 2004 e ha indetto elezioni presidenziali anticipate per il 25 maggio 2014. In risposta, la Russia ha avviato operazioni militari nella regione autonoma della Crimea; parallelamente i filo-russi hanno occupato il parlamento locale e hanno indetto per il 16 marzo un referendum sulla secessione dall’Ucraina e a favore dell’annessione alla Russia.
Gli strascichi politico-diplomatici della crisi in Crimea hanno fornito il terreno di scontro tra Russia e Occidente a livello sia militare, sia economico. La diversità di vedute tra Washington e Mosca si è dimostrata infatti troppo ampia, con la prima non intenzionata a riconoscere l’esito del referendum, la seconda non preoccupata delle minacce di sanzioni dell’Occidente ed ertasi a protettrice delle rivendicazioni etno-linguistiche della Crimea e di tutte le popolazioni russofone in Ucraina e nello spazio ex-sovietico.
Fallita pertanto la soluzione diplomatica in Crimea e non riconosciuto l’esito del referendum da parte di Kiev, il governo Jatsenjuk ha continuato a promuovere a tappe forzate un’agenda riformista in senso liberale e a ricercare un sempre più marcato shift diplomatico verso l’Eu e gli Usa. In questo contesto, è avvenuta la firma della parte politica dell’Asa con Bruxelles (la cui sospensione nel novembre 2013 aveva scatenato la prima ondata di proteste popolari). Allo stesso tempo, l’Eu e gli Usa hanno accresciuto la propria pressione diplomatica sulla Russia iniziando una guerra di sanzioni economiche contro le aziende di stato russe e le persone più o meno vicine all’inner circle putiniano.
Nell’aprile del 2014, quando la situazione nel paese sembrava indirizzarsi verso un congelamento della crisi, si è assistito a una ripresa degli scontri nelle regioni orientali ucraine a maggioranza russofona, spostando in maniera lenta ma costante il focus delle tensioni dalla Crimea verso l’est del paese. Nuove e vibranti proteste scoppiavano nelle città russofone di Kharkiv, Luhans’k, Donets’k, Sloviansk, Kramatorsk e Mariupol, dove i manifestanti filo-russi richiedevano non solo una maggiore autonomia ma anche un referendum, come la Crimea, sullo status del bacino del Donbass. Rapidamente si è passati da un quadro politico fortemente polarizzato a uno scenario da guerra civile, nel quale neanche i tentativi diplomatici – come per esempio la conferenza quadripartita tra Usa, Russia, Eu e Ucraina di Ginevra e la road map proposta dall’Osce – sono riusciti a ricondurre la crisi nell’alveo della benché minima distensione.
Di fronte all’escalation di violenze e alle dichiarazioni di Putin circa le rivendicazioni russe sui territori sud-orientali ucraini, Kiev ha provato a dare una sterzata allo stallo politico interno andando a elezioni presidenziali anticipate sul finire di maggio 2014. Le consultazioni hanno visto l’affermazione di Petro Porošenko, oligarca ucraino proprietario della più grande industria cioccolatiera nazionale, la Rošen. La vittoria al primo turno con quasi il 55% dei consensi è stata ufficialmente riconosciuta anche dalla Russia. Porošenko è un personaggio camaleontico all’interno dello spettro politico ucraino poiché nell’arco di un decennio è stato dapprima sostenitore della Rivoluzione arancione, tra i fondatori del Partito delle regioni di Janukovyč, ministro degli esteri sotto la presidenza di Juščenko (2009-10), ministro del commercio e dello sviluppo economico nel governo Azarov (marzo-dicembre 2012) e, infine, tra i principali fautori delle proteste della Maidan (novembre 2013). Fin dalle prime settimane della sua presidenza, Porošenko si è distinto per una duplice azione diplomatica votata sia al proseguimento del percorso di integrazione europea – firmando il 27 giugno 2014 anche la parte economica dell’Asa con Bruxelles –, sia a riprendere il dialogo con la Russia nel tentativo di giungere a una tregua più o meno permanente attraverso un processo graduale di de-escalation. Allo stesso tempo, Porošenko ha perseguito una politica di sicurezza mirata all’integrazione territoriale del paese. Si spiega in questi termini il rifiuto di Kiev di riconoscere l’annessione della Crimea alla Russia e di dare avvio all’operazione anti-terrorismo delle forze di sicurezza nazionali (supportate da gruppi di volontari e dalla guardia nazionale integrata nell’esercito) nelle regioni sud-orientali.
Nel frattempo, sul piano interno, il primo ministro Jatsenjuk minacciava nel luglio 2014 le dimissioni – poi rientrate dopo il voto contrario della Rada – a seguito sia dell’uscita dalla coalizione di governo dell’Udar e di Svoboda, sia della bocciatura del parlamento della legge per finanziare l’offensiva dell’esercito regolare contro i separatisti filo-russi nel Donbass (misura poi introdotta sotto forma di tassa di guerra). Sebbene momentaneamente rientrata, la crisi è riemersa nell’agosto dello stesso anno quando Porošenko ha sciolto il parlamento per indire elezioni legislative anticipate (26 ottobre 2014) che hanno decretato la vittoria dei filo-europeisti riuniti in una coalizione di governo penta-partitica (tra cui il Blocco Porošenko, Patria della Tymošenko e Fronte popolare) guidata ancora una volta dal premier uscente Jatsenjuk. Il nuovo esecutivo ha posto tra le sue priorità l’abolizione della norma costituzionale che prescrive lo status di ‘paese neutrale’ in modo tale da accelerare i processi di integrazione nell’Eu e nella Nato.
Parallelamente, sul piano della sicurezza, i ribelli dell’est sono riusciti ad aprire, con l’aiuto di armi giunte dalla Russia, un nuovo fronte nel sud dell’Ucraina a Novoazovsk, sul Mar d’Azov, a est di Mariupol, ridando nuova linfa alla crisi ucraina. Mentre il presidente Porošenko denunciava l’invasione russa, la Nato, riunita nel vertice di Newport in Galles, diffondeva immagini satellitari che certificavano la presenza di circa un migliaio di soldati russi in territorio ucraino. I nuovi scontri nel sud del paese hanno reso inutili, di fatto, gli sforzi diplomatici che si erano tenuti nelle stesse settimane a Minsk tra separatisti e governo di Kiev, sotto mediazione di Osce e Russia, dove comunque le parti avevano stipulato una tregua immediatamente violata per la creazione di una buffer zone nell’est del paese.
Nonostante l’ennesima escalation di tensioni avesse prodotto un nuovo round di sanzioni nei confronti della Russia, la situazione militare sul campo è sembrata tuttavia indirizzarsi verso una cristallizzazione delle posizioni acquisite mentre, dal punto di vista politico, la decisione dei leader separatisti orientali di boicottare il voto dell’ottobre 2014 si è spiegata anche in termini di opportunità politica. Sebbene prima del 26 ottobre il governo di Kiev avesse approvato un disegno di legge che garantiva uno status speciale (‘distretti autonomi’) per tre anni alle regioni del Donbass, le autorità delle due autoproclamate repubbliche di Donets’k e Luhans’k hanno spinto per l’organizzazione di proprie elezioni indipendenti, fissate per il 2 novembre, con l’obiettivo di farle divenire una sorta di referendum sulla propria indipendenza dall’Ucraina e trovando di fatto l’immediato riconoscimento di Mosca. Una dimostrazione di forza da parte dei secessionisti che ha dimostrato ancora una volta la continuità della crisi, alla quale le parti non sembrano riuscire a trovare una reale soluzione nell’immediato.
Tra i paesi dell’ex Unione Sovietica, l’Ucraina è il secondo stato più popoloso dopo la Russia. Tuttavia, rispetto ai 51,5 milioni del 1990, la popolazione si compone oggi di poco più di 45 milioni di abitanti, una riduzione demografica dovuta al peggioramento delle condizioni economiche e sociali e quindi alla massiccia emigrazione.
La Banca mondiale ha stimato che nel 2010 il numero di emigrati sia stato di circa 6,5 milioni (equivalente al 14,4% della popolazione). I flussi sono stati diretti prevalentemente verso Russia, Polonia, Stati Uniti, Kazakistan, Israele, Germania, Moldavia, Italia, Bielorussia e Spagna. I corridoi delle migrazioni tra Russia e Ucraina e viceversa sono rispettivamente il secondo e il terzo più grande al mondo, con rispettivamente 3,7 e 3,6 milioni di migranti.
Oltre alle comunità rumena, polacca e ungherese, la più rilevante minoranza etnica del paese è quella russa, che rappresenta il 18% della popolazione (corrispondenti a più di 8 milioni di cittadini).
La popolazione russofona e di etnia russa è prevalentemente concentrata nelle regioni sud-orientali dell’Ucraina, al confine con la Russia. Molti vivono in Crimea, in particolare a Sebastopoli, dove la popolazione russa arriva a più del 60% del totale. In queste regioni i rapporti tra ucraini e russi sono divenuti di recente piuttosto tesi, anche per via dell’annessione – non riconosciuta dall’Ucraina – della penisola da parte della Russia il 18 marzo 2014. Proprio la questione etno-linguistica in Crimea e nel Donbass è stata usata strumentalmente dalla Russia – dietro pressioni delle popolazioni locali che non riconoscevano il governo insediatosi all’indomani della fuga di Janukovyč nell’est russofono del paese – per annettere la penisola ed ergersi a protettrice delle popolazioni russe e russofone delle province orientali ucraine.
Dall’epoca sovietica, Kiev ha ereditato un sistema educativo relativamente solido. Nonostante l’impatto negativo della recessione economica dei primi anni Novanta, il tasso di alfabetizzazione è oggi del 100% e la scolarizzazione primaria del 98%. Inoltre, si registra una crescita sostenuta del numero di studenti universitari.
L’indipendenza e l’efficienza del sistema giudiziario sono in parte compromesse dall’influenza che esercita la politica, dalla corruzione diffusa (il paese è al 144° posto su 177 nella classifica dell’indice di corruzione percepita) e dalle limitazioni alla libertà di stampa: sono frequenti gli attacchi intimidatori e violenti ai giornalisti e le cause intentate davanti ai tribunali da funzionari politici contro le critiche della stampa.
Dopo la Russia, l’Ucraina è stata la regione economica più importante dell’ex Unione Sovietica. Ricca di terreno fertile, ha contribuito per più di un quarto del totale della produzione agricola sovietica. Le sue fattorie fornivano ingenti quantitativi di carne, latte, grano e verdure alle altre repubbliche. Nel periodo di transizione dal sistema pianificato sovietico all’economia di mercato, l’Ucraina ha attraversato una profonda fase recessiva. L’innescarsi di una spirale inflattiva aveva compresso i redditi reali, già in via di riduzione in termini nominali. Il pil pro capite crollò del 60% in dieci anni (da oltre 8000 dollari nel 1989 a meno di 3500 nel 1998). Malgrado l’avvio della ripresa e il ritorno a una decisa crescita economica dai primi anni del Duemila, oggi il reddito medio è poco al di sopra dei livelli del 1989. Il pil pro capite per il 2013 è di circa 7423 euro.
L’economia ucraina è ancora fortemente concentrata nel settore industriale, comparto sul quale gravano tuttavia tare storiche e strutturali: in particolare, una diffusa corruzione e un’eccessiva ingerenza da parte dello stato. Tra le risorse più importanti figurano le riserve di metalli ferrosi. Particolarmente sviluppata è l’industria chimica nella produzione del carbon coke e dei fertilizzanti. I beni manifatturieri includono invece aerei, turbine, locomotive diesel e trattori. Dopo un periodo di decisa crescita economica, nel 2009 la crisi internazionale ha pesantemente colpito l’economia ucraina provocando una contrazione del pil del 15% in un anno. Per far fronte alla crisi, il presidente Janukovyč si vide costretto ad adottare alcune misure impopolari scontrandosi con il forte dissenso dell’opinione pubblica. Dal 2010, tuttavia, il paese ha comunque ripreso lentamente a crescere, e si prevede che nel triennio 2014-17 il pil possa crescere con un tasso superiore all’1% annuo. Tuttavia le previsioni di crescita rimangono fortemente condizionate dalla situazione di aperto conflitto nell’est del paese.
La dipendenza dalle importazioni di energia costituisce un tradizionale peso per l’economia nazionale, contribuendo a mantenere la bilancia commerciale ucraina in passivo per un valore attorno al 6-9% del pil. Benché il sottosuolo ucraino racchiuda grandi quantità di carbone (il 3,9% delle riserve mondiali) e il paese produca energia nucleare (il 3,4% della generazione elettrica nucleare mondiale), il peso degli idrocarburi nel mix energetico implica la necessità di approvvigionamento dall’estero e, in particolare, dalla Russia.
La totale dipendenza da Mosca per le importazioni energetiche è temperata dal fatto che l’Ucraina è un importante stato di transito per il gas russo diretto verso l’Europa occidentale: circa tra quarti del totale annuo. L’interdipendenza tra Kiev e Mosca ha creato negli ultimi anni frequenti dispute, le cosiddette ‘guerre del gas’, legate all’indebitamento di Kiev e al tradizionale obiettivo russo di acquisire il controllo della rete ucraina.
Se per aggirare la strozzatura del transito attraverso l’Ucraina, la Russia ha predisposto un progetto di gasdotto attraverso il Mar Nero, il Blue Stream, al contempo Kiev ha avviato un ambizioso piano di riduzione delle importazioni di gas, e della conseguente vulnerabilità nei confronti della Russia. Pilastri della strategia energetica nazionale approvata nel luglio 2012 – che punta a ridurre le importazioni da 40,5 miliardi di metri cubi del 2011 a 5 entro il 2030 – sono la razionalizzazione dei consumi interni, lo sfruttamento dei depositi di gas non convenzionale recentemente individuati e la diversificazione degli importatori, anche grazie alla costruzione di impianti di rigassificazione in grado di consentire la più flessibile importazione di gas liquefatto. Le importazioni del gas hanno visto un drastico calo nel 2014 non per la strategia governativa, ma per la crisi ucraina che ha portato alla chiusura delle fabbriche e delle industrie pesanti soprattutto nell’est dell’Ucraina. L’economia ucraina soffre una grave recessione, con il rapporto debito pubblico/ pil che passerà dal 41,3% nel 2014 al 56,3% nel 2015. Si stima che la sola perdita della Crimea possa implicare una contrazione del pil pari al 3,7%. Il blocco delle attività produttive nelle regioni orientali potrebbe avere conseguenze gravi. Secondo un rapporto dell’Un, i danni causati dall’offensiva dell’esercito ucraino contro le repubbliche popolari di Lugans’k e Donets’k negli ultimi mesi di guerra civile ammonterebbero a circa mezzo miliardo di dollari.
L’Unione Europea è già intervenuta in aiuto dell’Ucraina la scorsa primavera con un pacchetto di aiuti finanziari da 11 miliardi di euro, cui si affianca un programma di finanziamento di 17 miliardi di dollari erogato in successive tranche approvato dal Fondo monetario internazionale il 30 aprile 2014.
Come segno di un nuovo riavvicinamento l’Ucraina e la Commissione europea hanno contemporaneamente firmato il 27 giugno 2014, e poi ratificato in settembre, l’Accordo di associazione e libero scambio. L’entrata in vigore della parte economica che prevede l’introduzione del libero commercio tra l’Ucraina e l’Eu è stata posticipata al 1° gennaio 2016, sotto una forte pressione della Russia.
Dal 1992 a oggi le forze convenzionali ucraine sono state ridotte in maniera esponenziale, passando da più di 600.000 a meno di 130.000 soldati. Ciononostante, quello ucraino è il maggiore esercito tra i paesi europei non membri della Nato. La spesa militare si attesta oggi al 2,9% del pil, registrando un lieve calo rispetto alla seconda metà degli anni Novanta. L’Ucraina è parte del programma Partnership for Peace della Nato dal 1994 e contribuisce alla missione Kfor in Kosovo, alla missione Isaf in Afghanistan, alle operazioni marittime anti-terroristiche nel Mediterraneo e ha contribuito alla missione in Iraq.
Il governo Juščenko aspirava a un maggior avvicinamento all’Europa e alla Nato, con la quale aveva avviato nel 2005 un Dialogo intensificato sull’adesione che avrebbe dovuto precedere il Piano d’azione per l’adesione (Map). Nel giugno 2010, sotto il governo Janukovyč, è stata adottata una legge costituzionale in base alla quale il paese non può aderire ad alleanze militari, sancendo la distanza dalla Nato. Questo provvedimento è una clausola sullo status di neutralità dell’Ucraina. Mosca, infatti, ha sempre guardato con diffidenza l’allargamento della Nato verso i propri confini e, se non ha potuto evitare l’ingresso nell’Alleanza atlantica di Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e dei tre paesi baltici, ha considerato la neutralità dell’Ucraina come la condizione minima per la propria sicurezza strategica. L’annessione della Crimea alla Russia e più in generale i recenti sviluppi nella parte sud-orientale del paese collegati alla crisi ucraina vanno inseriti in questo quadro politico che spiega, solo in parte, la distanza diplomatica che si è venuta a creare nei rapporti tra Russia e Nato, e più in generale con l’Occidente.
L’Ucraina è parte dell’organizzazione per la democrazia e lo sviluppo economico (Guam) con le altre ex repubbliche sovietiche Georgia, Azerbaigian e Moldavia. Il Guam è stato fondato nel 1996 come un’alleanza politica, economica e strategica per rafforzare l’indipendenza dei membri ed è diventato un forum per la cooperazione in materia di sicurezza. Anche per effetto della crisi nel paese, Kiev non è più membro della Comunità degli stati indipendenti (Cis) dal 19 marzo 2014.
Nel marzo 2005, a pochi mesi dalla Rivoluzione arancione Mosca avanzò le prime richieste di pagamento del debito accumulato dalla compagnia nazionale ucraina del gas (Naftogaz), accusandola di prelevare illegalmente il gas destinato all’esportazione verso i paesi europei. A seguito di tali rivendicazioni i rapporti diplomatici tra i due paesi andarono progressivamente deteriorandosi. La contesa culminò l’anno successivo, provocando la completa interruzione delle forniture russe di gas verso l’Ucraina per tre giorni nel gennaio 2006 e conducendo alla rapida stipula di un nuovo contratto di fornitura tra i due paesi, più favorevole alla Russia. Un secondo contenzioso sorse nell’ottobre 2007 riguardo ai debiti ucraini nei confronti delle compagnie energetiche russe. Nel marzo 2008 Gazprom, l’azienda leader dell’energia russa, tornò ad adottare la strategia della riduzione delle forniture di gas quale strumento di pressione e negoziale. La disputa si protrasse per tutto il 2008, finché, a inizio 2009, la più pesante sospensione delle forniture russe di gas paralizzò il comparto industriale ucraino, con pesanti ripercussioni anche sull’approvvigionamento europeo. Furono 18 i paesi europei che, legati al transito del gas sul territorio ucraino, sperimentarono forti cali o complete interruzioni degli approvvigionamenti. La crisi ebbe due importanti conseguenze: da un lato spinse l’Unione Europea ad accelerare i processi di diversificazione delle rotte energetiche, troppo dipendenti dalla Russia; dall’altro indusse Gazprom a predisporre i primi progetti di aggiramento delle rotte ucraine. Con l’arrivo al potere di Janukovyč, le controversie energetiche tra Mosca e Kiev hanno preso un nuovo corso. La firma nell’aprile 2010 dell’accordo di Kharkiv, per regolare i rapporti energetici tra i due paesi, ha permesso a Kiev di beneficiare di una riduzione pari al 30% sul prezzo di mercato del gas, ma ha mantenuto la formula di formazione del prezzo del gas più favorevole agli interessi russi, lasciando che nel 2012 superasse i 400 dollari per mille metri cubi. Nel 2011 e 2012 entrambi i paesi hanno avviato una lunga stagione di diplomazia energetica, ancora in corso. Alla richiesta di Kiev di uno sconto considerevole sul prezzo del gas, Mosca ha risposto offrendo una scelta tra l’adesione dell’Ucraina all’Unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan e la cessione da parte dell’Ucraina del controllo totale del suo sistema di trasporto del gas. Di fronte al rifiuto di Kiev di vendere la rete distributiva, considerata un asset nazionale strategico, Mosca ha accelerato il ritmo di costruzione di gasdotti alternativi, quali il Nord Stream e il South Stream, che possano portare il gas russo verso l’Europa non attraversando il territorio ucraino. Tuttavia, Kiev si è dimostrata contraria anche a far parte dell’unione doganale, per il timore di rendersi troppo dipendente dalle politiche regionali russe e per preservare l’autonomia in politica estera. Più che una vera e propria membership nell’unione doganale, Kiev ha suggerito la formula di una collaborazione di 3+1, oppure di ottenere lo status di osservatore presso il comitato economico euroasiatico, ossia l’organo di governo dell’unione doganale. Entrambi i suggerimenti sono stati respinti da Mosca. A luglio 2014 Gazprom ha annunciato che il debito ucraino per il gas già fornito ammontava a 5,3 miliardi di euro e che il colosso energetico russo avrebbe annullato tutti gli sconti sul gas concessi all’Ucraina in passato. Dopo una serie di incontri trilaterali Ucraina-Russia-Eu (tra questi anche il bilaterale Putin-Porošenko a Milano, in occasione del vertice dell’Asem), il 31 ottobre 2014 le parti riuscirono a trovare un accordo: secondo il cosiddetto Winter Package mediato dal Commissario europeo uscente all’energia, il tedesco Günther Oettinger, e i cui termini sono fissati fino a marzo del 2015, Kiev pagherà a Mosca i primi 4 miliardi di metri cubi di oro blu al prezzo di 378 dollari ogni mille metri cubi fino alla fine del 2014 e di 365 dollari ogni mille metri cubi nel primo trimestre 2015. A Gazprom sarà inoltre saldato un debito di 3,1 miliardi di dollari attraverso un pagamento in due tranche, la prima da 1,45 miliardi da pagare subito e la seconda da 1,65 miliardi da saldare entro la fine dell’anno 2014 con Eu e Imf che si faranno garanti di tale impegno. Ciononostante Gazprom continua a reclamare vecchi debiti che ammontavano a 4,5 miliardi di dollari e nel giugno 2014 aveva fatto un appello alla Corte internazionale di giustizia per chiedere il pagamento dei crediti dovuti. Mentre la decisione della Corte non è stata ancora presa, la questione del gas, almeno per l’inverno 2015, è stata chiusa.
La penisola di Crimea è situata in una posizione strategica tra il Mar Nero e il Mar d’Azov ed è fondamentale negli equilibri della regione. Storicamente la Crimea ha avuto grande rilievo per la Russia, essendo stata parte dell’Impero russo e poi dell’Unione Sovietica. La base militare navale di Sebastopoli era fondamentale per la flotta russa e il controllo dei traffici commerciali. Inoltre la penisola è stata luogo di battaglie importanti: già nel Diciannovesimo secolo, durante la guerra di Crimea (1853-56), l’Impero russo combatté contro l’Impero ottomano per il controllo dei Balcani e del Mediterraneo. Durante la Seconda guerra mondiale l’Armata rossa si scontrò con i tedeschi che avevano occupato la Crimea. Con il crollo dell’Unione Sovietica e l’indipendenza dell’Ucraina, la penisola è passata sotto la sovranità ucraina. Tuttavia l’influenza russa è ancora sensibile, dato che la maggior parte della popolazione è russa, politicamente vicina a Mosca e in parte sostenitrice di tendenze separatiste. In più Sebastopoli continuerà per i prossimi trent’anni a ospitare la flotta russa del Mar Nero, già schierata in epoca sovietica. La Crimea è oggi una repubblica autonoma, nella quale i russi rappresentano il 60% della popolazione (circa un milione), seguiti da ucraini (circa 600.000) e tatari di Crimea (circa 250.000). Questi ultimi sono una minoranza turcofona e prevalentemente musulmana che fu deportata in Asia Centrale all’epoca di Stalin. I tatari hanno però cominciato a ritornare in patria tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Continuano ad aumentare, benché siano vittime di discriminazioni etniche. La stabilità della Repubblica autonoma di Crimea - annessa il 21 marzo 2014 alla Federazione Russa quando la Duma ha approvato un disegno di legge per l’adesione della penisola dopo la sua dichiarazione unilaterale d’indipendenza dall’Ucraina avvenuta con un referendum dell’11 marzo dello stesso anno - dipende dunque in gran parte dalle relazioni tra Russia e Ucraina e, indirettamente, dalle relazioni tra Europa occidentale e Ucraina che influenzano l’andamento dei rapporti tra Kiev e Mosca.
Il conflitto scaturito inizialmente dalle proteste contro il sistema corrotto di governo e successivamente contro la decisione di Janukovyč di non firmare l’accordo di associazione con l’Eu, ha vissuto la sua fase più acuta nella parte orientale dell’Ucraina. Tre fattori in particolare hanno caratterizzato le sue dinamiche e determineranno il suo futuro. In primo luogo, si tratta di un conflitto non tanto locale quanto di una contrapposizione tra la Russia e l’Occidente atta a risolvere la spinosa questione della riorganizzazione dello spazio post-sovietico, definito vitale per Mosca. L’esito dalla crisi quindi dipenderà in primis dagli accordi raggiunti tra la Russia e l’Occidente. Un primo passo in questa direzione è stato compiuto con l’intesa di sospendere, fino alla fine del 2015, la parte dell’accordo di associazione relativa all’implementazione dell’area di libero scambio per permettere a Bruxelles e Mosca di superare le incompatibilità tra i loro modelli di integrazione economica. In secondo luogo, il conflitto si è sviluppato sul non riconoscimento del proprio interlocutore istituzionale con l’effetto di delegittimarlo (per esempio, il sud-est dell’Ucraina e la Crimea vis-à-vis Kiev e viceversa) e di rendere il raggiungimento di una soluzione condivisa un obiettivo illusorio. Infine, il mancato riconoscimento è stato accompagnato dalle interpretazioni contrastanti che le parti fornivano agli eventi con il conseguente rifiuto delle parti stesse a cedere dalle proprie posizioni. Kiev con il presidente Porošenko, spinto da logiche populiste in vista delle elezioni parlamentari, ha dichiarato che non scenderà a compromessi con l’integrità territoriale del paese. L’unica concessione di Porošenko – la decentralizzazione del potere – prevede l’introduzione nei prossimi tre anni e soltanto nel 30% del territorio delle regioni di Donets’k e Luhans’k di un regime di auto-governo da coordinare con Kiev. È inoltre garantito l’uso della lingua russa nella vita privata e istituzionale senza, tuttavia, attribuirle lo status di lingua di stato. Contemporaneamente Porošenko ha ribadito la scelta europea, una scelta obbligata visto il potere, sempre più circoscritto, di cui egli dispone di fronte alle crescenti necessità finanziarie del paese la cui unica soluzione è l’Occidente. Dal canto loro i ribelli hanno fatto intendere che soltanto la piena e incondizionata indipendenza dall’Ucraina potesse corrispondere ai loro interessi. Mosca invece vorrebbe eliminare l’eventualità di una propagazione di tendenze sovversive alla Russia ed è quindi interessata a rendere il conflitto controllabile nelle sue dinamiche giocando il ruolo di super partes senza però auspicare il collasso dello stato ucraino o l’annessione del Donbass alla Russia. Mantenere un’influenza sull’area attraverso la formula della federalizzazione che preserverebbe i rapporti istituzionali con Kiev, oppure attraverso la lingua russa o tramite una presenza militare russa che impedisce l’adesione alla NATO, risulta più conveniente per il Cremlino che un’operazione di annessione. L’Occidente, infine, persiste nelle sue politiche accusatorie e punitive contro la Russia ma appare anche privo di strumenti per contrastarla (le sanzioni si sono rivelate altrettanto dannose per l’economia europea) e incapace di offrire una soluzione praticabile di ricostruzione del tessuto sociale, istituzionale ed economico-industriale del paese. Nonostante gli aiuti finanziari, l’attenzione dell’Occidente ora è incentrata su altri scenari internazionali nei quali una partnership con la Russia si rivelerebbe vantaggiosa. Con ogni probabilità il conflitto rimarrà in un limbo tra la guerra e la pace, tra vecchi disaccordi e trattative protratte. Nel breve periodo prevarrà l’approccio improntato alle situazioni d’urgenza come quella di assicurare gli approvvigionamenti di gas russo. Il timore di una crisi energetica ha spinto Bruxelles per la prima volta a unirsi ai negoziati, sinora condotti in formato bilaterale, sul prezzo e sulla formula del pagamento del gas con il probabile intento di farsi da garante dei debiti ucraini. Nel medio-lungo periodo, il quadro si presenta più complesso e incerto. Luhans’k e Donets’k non potranno sopravvivere senza l’appoggio esterno, ma la Russia non ha l’interesse a fornirglielo senza garantirsi l’influenza sulla totalità del paese. Altrettanto improbabile appare l’adesione nei prossimi anni all’eu e alla NATO da usare come leva contro i ribelli. Al contrario, Kiev si troverà da sola a risolvere i propri problemi con due alternative entrambe basate sul compromesso per porre fine all’impasse mantenendo l’integrità territoriale. La prima opzione vede l’attuazione di una federalizzazione trattenendo l’est all’interno dei confini nazionali, mentre la seconda presume la dichiarazione di neutralità dello stato declinata in senso politico, economico e di sicurezza. Un’Ucraina neutrale ma stabile sarebbe un ponte che collega e non contrappone i due vicini.