Vedi Ucraina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Ucraina, indipendente dal 1991, ha costantemente risentito del retaggio del periodo sovietico che ha condizionato le sue relazioni tanto con la Russia e gli altri paesi emersi dalla dissoluzione sovietica, tanto con gli interlocutori euro-atlantici. La quasi totalità dell’attuale territorio ucraino è appartenuta per secoli prima all’Impero russo, poi all’Urss nella forma istituzionale di Repubblica socialista sovietica.
I legami con la Russia hanno continuato a condizionare il modo in cui Kiev ha guardato alla politica internazionale. Le ragioni sono molteplici: in primo luogo, il territorio ucraino ospita consistenti minoranze di etnia russa e di lingua russofona, in Crimea e nell’Ucraina sud-orientale, e, infine, l’Ucraina è un importante hub energetico di transito verso l’Europa occidentale. D’altra parte, l’approfondimento delle relazioni in ambito bilaterale e multilaterale con i paesi dell’Unione Europea (Eu) e gli Stati Uniti rappresentano un tentativo di acquisire maggiore indipendenza dall’influenza russa. L’orientamento filoccidentale dell’Ucraina è emerso da ultimo con le proteste anti-governative della Maidan Nezalezhnosti (Piazza dell’Indipendenza) a Kiev nel novembre del 2013. Le proteste hanno acuito e fatto emergere le profonde divisioni sociali ed etniche presenti all’interno del paese ed è considerata la più grave crisi diplomatica tra Russia e Occidente dalla fine della Guerra fredda.
All’origine della crisi vi è stata la decisione del presidente Viktor Janukovyč, il 21 novembre 2013, di sospendere la firma dell’Accordo di associazione e di stabilizzazione (Asa) con l’Eu prevista a Vilnius il 29 novembre successivo e di rivolgersi invece a Mosca per un sostegno finanziario e uno sconto sull’importazione di gas del 30%. Nei tre mesi successivi, un numero crescente di manifestanti ha occupato le piazze di Kiev chiedendo sia un ripensamento dell’esecutivo circa il mancato accordo con l’Eu, sia le dimissioni del governo e del presidente stesso. Nel gennaio 2014, con l’approvazione parlamentare di una legge restrittiva della libertà di manifestazione, sono nuovamente esplose le violenze. Di fronte al crescente numero di scontri (che ha portato alla morte di circa 100 persone), di manifestazioni filo-europeiste e a un fallito tentativo di mediazione con l’opposizione e i ministri degli esteri europei, si è assistito alle dimissioni del governo e alla fuga del presidente Janukovyč nel febbraio 2014, prima a Kharkiv, nell’est russofono dell’Ucraina, e poi a Rostov, nella Russia meridionale. A seguito di ciò, la Rada ha conferito le funzioni presidenziali ad interim all’ex direttore dei servizi segreti ucraini Oleksandr Turčinov. Si insediava poi a Kiev un governo transitorio non riconosciuto dalla Russia ma supportato dall’Occidente e presieduto dal primo ministro Arsenij Jacenjuk. Tra i primi atti, il nuovo governo ha votato la scarcerazione dell’ex premier Julia Tymošenko, il mandato di cattura nei confronti dell’ex presidente, il ritorno alla Costituzione del 2004 e ha indetto elezioni presidenziali anticipate per il 25 maggio 2014. In risposta, la Russia ha avviato operazioni militari nella regione autonoma a maggioranza russa e russofona della Crimea; parallelamente, i filo-russi hanno occupato il parlamento locale e indetto per il 16 marzo un referendum sulla secessione dall’Ucraina e l’annessione alla Russia. A seguito del voto favorevole del 96,77% degli elettori, la Russia ha annesso unilateralmente - senza il consenso del governo ucraino – la regione. L’atto non è stato riconosciuto dalla comunità internazionale.
L’annessione della Crimea ha causato da fine marzo forti contrapposizioni tra Russia e Occidente a livello sia militare, sia economico, ancora lungi dall’essere risolte. La diversità di vedute tra Washington e Mosca si è in particolare dimostrata troppo ampia, con la prima non intenzionata a riconoscere l’esito del referendum, la seconda non preoccupata delle minacce di sanzioni dell’Occidente ed ertasi a protettrice delle rivendicazioni etno-linguistiche della Crimea e di tutte le popolazioni russofone in Ucraina e nello spazio ex-sovietico.
Fallita la soluzione diplomatica in Crimea, il governo Jacenjuk ha continuato a promuovere a tappe forzate un’agenda riformista in senso liberale e occidentalista. Allo stesso tempo, l’Eu e gli Usa hanno accresciuto la loro pressione diplomatica sulla Russia approvando diversi pacchetti di sanzioni, dapprima indirizzati a singole personalità vicine all’entourage del presidente Putin (tra le misure, il congelamento di capitali privati in Europa e limitazioni della libertà personale di movimento), in seguito estesi alle banche, ai servizi finanziari, alle aziende, all’importazione di tecnologie occidentali. Mosca ha replicato con delle controsanzioni, vietando in particolare l’ingresso in Russia di moltissimi beni alimentari occidentali e ucraini.
Nell’aprile del 2014, quando la situazione nel paese sembrava indirizzarsi verso un congelamento della crisi, si è assistito a una ripresa degli scontri nelle regioni orientali ucraine a maggioranza russofona, spostando in maniera lenta ma costante il focus delle tensioni dalla Crimea verso l’est del paese. Nuove proteste scoppiavano nelle città russofone di Kharkiv, Luhans’k, Donets’k, Sloviansk, Kramatorsk e Mariupol, dove i manifestanti filo-russi richiedevano non solo una maggiore autonomia ma anche un referendum, come aveva fatto la Crimea, sullo status del bacino del Donbass. Rapidamente si è passati da un quadro politico fortemente polarizzato a uno scenario da guerra civile, nel quale neanche i tentativi diplomatici – come per esempio la conferenza quadripartita tra Usa, Russia, Eu e Ucraina di Ginevra e la road map proposta dall’Osce – sono riusciti a ricondurre la crisi nell’alveo della benché minima distensione.
Di fronte all’escalation di violenze e alle dichiarazioni di Putin circa le rivendicazioni russe sui territori sud-orientali ucraini, Kiev ha provato a dare una sterzata allo stallo politico interno, con le già citate elezioni presidenziali del maggio 2014. Le consultazioni hanno visto l’affermazione di Petro Porošenko, oligarca ucraino proprietario della più grande industria cioccolatiera nazionale, la Rošen. La vittoria al primo turno con quasi il 55% dei consensi è stata ufficialmente riconosciuta anche dalla Russia. Porošenko è un personaggio camaleontico all’interno dello spettro politico ucraino: nell’arco di un decennio è stato dapprima sostenitore della Rivoluzione arancione e poi tra i fondatori del Partito delle regioni di Janukovyč; ministro degli esteri (2009-10) sotto la presidenza di Juščenko, ministro del commercio e dello sviluppo economico (marzo-dicembre 2012) nel governo Azarov e, infine, tra i principali fautori delle proteste della Maidan (novembre 2013). Fin dalle prime settimane della sua presidenza, Porošenko si è distinto per una duplice azione diplomatica votata sia al proseguimento del percorso di integrazione europea – firmando il 27 giugno 2014 la parte economica dell’Accordo di associazione con Bruxelles che era stato all’origine della crisi ucraina – sia a riprendere il dialogo con la Russia, nel tentativo di giungere a una tregua più o meno permanente attraverso un processo graduale di de-escalation. Allo stesso tempo, Porošenko ha perseguito una politica di sicurezza mirata all’integrazione territoriale del paese. Si spiega in questi termini l’avvio all’operazione anti-terrorismo delle forze di sicurezza nazionali (supportate da gruppi di volontari e dalla guardia nazionale integrata nell’esercito) nelle regioni sud-orientali.
Nel frattempo, sul piano interno, il primo ministro Jacenjuk minacciava nel luglio 2014 le dimissioni – poi rientrate dopo il voto contrario della Rada – a seguito sia dell’uscita dalla coalizione di governo dell’Udar e di Svoboda, sia della bocciatura del parlamento della legge per finanziare l’offensiva dell’esercito regolare contro i separatisti filo-russi nel Donbass (misura poi introdotta sotto forma di tassa di guerra). Sebbene momentaneamente rientrata, la crisi è riemersa nell’agosto dello stesso anno quando Porošenko ha sciolto il parlamento per indire elezioni legislative anticipate (26 ottobre 2014) che hanno decretato la vittoria dei filo-europeisti riuniti in una coalizione di governo penta-partitica (tra cui il Blocco Porošenko, Patria della Tymošenko e il Fronte popolare) guidata ancora una volta dal premier uscente Jacenjuk. Il nuovo esecutivo ha posto tra le sue priorità l’abolizione della norma costituzionale che prescrive lo status di ‘paese neutrale’, in modo tale da accelerare i processi di integrazione nell’Eu e nella Nato.
Parallelamente, sul piano della sicurezza, i ribelli dell’est sono riusciti ad aprire, con il sostegno delle armi giunte dalla Russia, un nuovo fronte nel sud dell’Ucraina a Novoazovsk, sul Mar d’Azov, a est di Mariupol, ridando nuova linfa alla crisi ucraina. Mentre il presidente Porošenko denunciava l’invasione russa, la Nato, riunita nel vertice di Newport in Galles, diffondeva immagini satellitari che certificavano la presenza di circa un migliaio di soldati russi in territorio ucraino. I nuovi scontri nel sud del paese hanno reso inutili, di fatto, gli sforzi diplomatici che avevano portato nel settembre 2014 alla firma del protocollo di Minsk da parte dei separatisti e del governo di Kiev, sotto mediazione di Osce e Russia. Nell’accordo le parti avevano stipulato una tregua e la creazione di una buffer zone nell’est del paese, immediatamente violata.
Nonostante l’ennesima escalation di tensioni avesse prodotto un nuovo round di sanzioni nei confronti della Russia, la situazione militare sul campo è sembrata indirizzarsi verso una cristallizzazione delle posizioni acquisite. Sul piano politico, sebbene prima del 26 ottobre il governo di Kiev avesse approvato un disegno di legge che garantiva uno status speciale (‘distretti autonomi’) per tre anni alle regioni del Donbass, le autorità delle due autoproclamate repubbliche di Donets’k e Luhans’k hanno spinto per l’organizzazione di proprie elezioni indipendenti, fissate per il 2 novembre. Le elezioni, rispettate da Mosca (ma non ufficialmente riconosciute), non hanno fatto evolvere la situazione, e anzi hanno radicalizzato le posizioni rendendo ancora più difficile un accordo tra le parti.
Il 2015 è stato segnato dalla firma del cosiddetto Minsk II nel mese di febbraio da parte di Germania, Francia, Russia e Ucraina per il rispetto del Protocollo sul cessate il fuoco nel Donbass siglato nel settembre precedente. Nonostante l’apparente congelamento del conflitto durante l’intero anno, le Repubbliche autoproclamate di Donets’k e Luhans’k hanno inaspettatamente deciso di rimandare le elezioni locali (previste inizialmente quasi in contemporanea a quelle locali svoltesi nel resto del territorio nazionale il 25 ottobre) al 2016. La decisione di prendere tempo si comprende anche a causa del minore coinvolgimento delle forze russe, le cui priorità militari, dal settembre 2015, si sono concentrate nell’intervento in Siria.
Tra i paesi dell’ex Unione Sovietica, l’Ucraina è il secondo stato più popoloso dopo la Russia. Tuttavia, rispetto ai 51,5 milioni del 1990, la popolazione si compone oggi di poco più di 45 milioni di abitanti, una riduzione demografica dovuta al peggioramento delle condizioni economiche e sociali e quindi alla massiccia emigrazione.
La Banca mondiale ha stimato che nel 2010 il numero di emigrati sia stato di circa 6,5 milioni (equivalente al 14,4% della popolazione). I flussi sono stati diretti prevalentemente verso Russia, Polonia, Stati Uniti, Kazakistan, Israele, Germania, Moldavia, Italia, Bielorussia e Spagna. I corridoi delle migrazioni tra Russia e Ucraina e viceversa sono rispettivamente il secondo e il terzo più grande al mondo, con rispettivamente 3,7 e 3,6 milioni di migranti.
Oltre alle comunità rumena, polacca e ungherese, la più rilevante minoranza etnica del paese è quella russa, che rappresenta il 18% della popolazione (corrispondente a più di 8 milioni di cittadini).
La popolazione russofona e di etnia russa è prevalentemente concentrata nelle regioni sud-orientali dell’Ucraina, al confine con la Russia. Molti vivono in Crimea, in particolare a Sebastopoli, dove la popolazione russa arriva a più del 60% del totale. In queste regioni i rapporti tra ucraini e russi sono divenuti di recente piuttosto tesi. Proprio la questione etno-linguistica in Crimea e nel Donbass è stata usata strumentalmente dalla Russia – dietro pressioni delle popolazioni locali che non riconoscevano il governo insediatosi all’indomani della fuga di Janukovyč nell’est russofono del paese – per annettere la penisola ed ergersi a protettrice delle popolazioni russe e russofone delle province orientali ucraine.
Dall’epoca sovietica, Kiev ha ereditato un sistema educativo relativamente solido. Nonostante l’impatto negativo della recessione economica dei primi anni Novanta, il tasso di alfabetizzazione è oggi del 99,7% e la scolarizzazione primaria del 97,4%. Inoltre, si registra una crescita sostenuta del numero di studenti universitari.
L’indipendenza e l’efficienza del sistema giudiziario sono in parte compromesse dall’influenza che esercita la politica, dalla corruzione diffusa (tema non a caso al centro delle rivendicazioni della ‘Maidan’ fin dall’inizio delle manifestazioni antigovernative nel 2013) e dalle limitazioni alla libertà di stampa: nella storia post-sovietica ucraina sono stati frequenti gli attacchi intimidatori e violenti ai giornalisti e le cause intentate davanti ai tribunali da funzionari politici contro le critiche della stampa.
Dopo la Russia, l’Ucraina è stata la regione economica più importante dell’ex Unione Sovietica. Ricca di terreno fertile, ha contribuito per più di un quarto del totale della produzione agricola sovietica. Le sue fattorie fornivano ingenti quantitativi di carne, latte, grano e verdure alle altre repubbliche. Nel periodo di transizione dal sistema pianificato sovietico all’economia di mercato, l’Ucraina ha attraversato una profonda fase recessiva. L’innescarsi di una spirale inflattiva aveva compresso i redditi reali, già in via di riduzione in termini nominali. Il pil pro capite crollò del 60% in dieci anni (da oltre 8000 dollari nel 1989 a meno di 3557 nel 1998). Malgrado l’avvio della ripresa e il ritorno a una decisa crescita economica dai primi anni del Duemila, oggi il reddito medio è poco al di sopra dei livelli del 1989. Il pil pro capite per il 2013 è di circa 7423 euro.
L’economia ucraina è ancora fortemente concentrata nel settore industriale, comparto sul quale gravano tuttavia tare storiche e strutturali: in particolare, una diffusa corruzione e un’eccessiva ingerenza da parte dello stato. Tra le risorse più importanti figurano le riserve di metalli ferrosi. Particolarmente sviluppata è l’industria chimica nella produzione del carbon coke e dei fertilizzanti. I beni manifatturieri includono invece aerei, turbine, locomotive diesel e trattori. Dopo un periodo di decisa crescita economica, nel 2009 la crisi internazionale ha pesantemente colpito l’economia ucraina provocando una contrazione del pil del 15% in un anno. Per far fronte alla crisi, il presidente Janukovyč si vide costretto ad adottare alcune misure impopolari scontrandosi con il forte dissenso dell’opinione pubblica. Dal 2010, tuttavia, il paese ha ripreso lentamente a crescere fino allo scoppio della crisi ucraina, che ha determinato un crollo del pil, sceso nel 2015 del -9%.
La dipendenza dalle importazioni di energia costituisce un tradizionale peso per l’economia nazionale, contribuendo a mantenere la bilancia commerciale ucraina in passivo per un valore attorno al 6-9%. Benché il sottosuolo ucraino racchiuda grandi quantità di carbone (il 3,9% delle riserve mondiali) e il paese produca energia nucleare (il 3,4% della generazione elettrica nucleare mondiale), il peso degli idrocarburi nel mix energetico implica la necessità di approvvigionamento dall’estero e, in particolare, dalla Russia.
La totale dipendenza da Mosca per le importazioni energetiche è temperata dal fatto che l’Ucraina è un importante stato di transito per il gas russo diretto verso l’Europa occidentale: circa tre quarti del totale annuo. L’interdipendenza tra Kiev e Mosca ha creato negli ultimi anni frequenti dispute, le cosiddette ‘guerre del gas’, legate all’indebitamento di Kiev e al tradizionale obiettivo russo di acquisire il controllo della rete ucraina.
Se per aggirare la strozzatura del transito attraverso l’Ucraina la Russia ha predisposto un progetto di gasdotto attraverso il Mar Nero, il Blue Stream, al contempo Kiev ha avviato un ambizioso piano di riduzione delle importazioni di gas, e della conseguente vulnerabilità nei confronti della Russia. Pilastri della strategia energetica nazionale approvata nel luglio 2012 – che punta a ridurre le importazioni da 40,5 miliardi di metri cubi del 2011 a 5 entro il 2030 – sono la razionalizzazione dei consumi interni, lo sfruttamento dei depositi di gas non convenzionale recentemente individuati e la diversificazione degli importatori, anche grazie alla costruzione di impianti di rigassificazione in grado di consentire la più flessibile importazione di gas liquefatto. Le importazioni del gas hanno visto un drastico calo nel 2014: non per la strategia governativa, ma per la crisi ucraina che ha portato alla chiusura delle fabbriche e delle industrie pesanti soprattutto nell’est dell’Ucraina. L’economia ucraina soffre una grave recessione, con il rapporto debito pubblico/pil di cui l’Imf ha previsto un aumento esponenziale entro la fine del 2015 dal 40,7% del 2013 al 94,4%. Il blocco delle attività produttive nelle regioni orientali potrebbe avere conseguenze gravi. Secondo un rapporto dell’Un, i danni causati dall’offensiva dell’esercito ucraino contro le repubbliche popolari di Lugans’k e Donets’k negli ultimi mesi di guerra civile ammonterebbero a circa mezzo miliardo di dollari.
L’Unione Europea è già intervenuta in aiuto dell’Ucraina con un pacchetto di aiuti finanziari da 11 miliardi di euro, cui si affianca un programma di finanziamento di 17 miliardi di dollari erogato in successive tranche dal Fondo monetario internazionale a partire dal 30 aprile 2014. L’Ucraina e la Commissione europea hanno firmato il 27 giugno 2014, e poi ratificato in settembre, l’Accordo di associazione e libero scambio. L’entrata in vigore della parte economica che prevede l’introduzione del libero commercio tra l’Ucraina e l’Eu è stata posticipata al 1° gennaio 2016, sotto una forte pressione della Russia.
Dal 1992 a oggi le forze convenzionali ucraine sono state ridotte in maniera esponenziale, passando da più di 600.000 a meno di 130.000 soldati. Ciononostante, quello ucraino è il maggiore esercito tra i paesi europei non membri della Nato. La spesa militare si attesta oggi al 3,15% del pil, registrando un lieve calo rispetto alla seconda metà degli anni Novanta. L’Ucraina è parte del programma Partnership for Peace della Nato dal 1994 e contribuisce alla missione Kfor in Kosovo, alla missione Resolute Support in Afghanistan, alle operazioni marittime anti-terroristiche nel Mediterraneo e ha contribuito alla missione in Iraq.
La presidenza Juščenko aspirava a un maggior avvicinamento all’Europa e alla Nato, con la quale aveva avviato nel 2005 un Dialogo intensificato sull’adesione che avrebbe dovuto precedere il Piano d’azione per l’adesione (Map). Nel giugno 2010, sotto la presidenza Janukovyč, è stata adottata una legge costituzionale in base alla quale il paese non può aderire ad alleanze militari, sancendo la distanza dalla Nato. Questo provvedimento è una clausola sullo status di neutralità dell’Ucraina. Mosca, infatti, ha sempre guardato con diffidenza l’allargamento della Nato verso i propri confini e, se non ha potuto evitare l’ingresso nell’Alleanza atlantica di Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e dei tre paesi baltici, ha considerato la neutralità dell’Ucraina come la condizione minima per la propria sicurezza strategica. L’annessione della Crimea alla Russia e più in generale i recenti sviluppi nella parte sud-orientale del paese collegati alla crisi ucraina vanno inseriti in questo quadro politico che spiega, solo in parte, la distanza diplomatica che si è venuta a creare nei rapporti tra Russia e Nato, e più in generale con l’Occidente.
L’Ucraina è parte dell’Organizzazione per la democrazia e lo sviluppo economico (Guam) con le altre ex repubbliche sovietiche di Georgia, Azerbaigian e Moldavia. Il Guam è stato fondato nel 1996 come un’alleanza politica, economica e strategica per rafforzare l’indipendenza dei membri ed è diventato un forum per la cooperazione in materia di sicurezza. Anche per effetto della crisi nel paese, Kiev non è più membro della Comunità degli stati indipendenti (Cis) dal 19 marzo 2014.
Nel maggio 2015 l’ex presidente della Georgia Mikheil Saakašvili è stato nominato dal presidente ucraino Porošenko nuovo governatore della regione di Odessa. Il centro amministrativo del territorio è l’omonima e famosa città portuale sul Mar Nero, popolata da un milione di abitanti con un’importante comunità russofona. Ufficialmente, la scelta di Saakašvili è in linea con la strategia lanciata dal governo del dopo-Maidan per combattere la corruzione dilagante nel paese. In effetti, in assenza di una reale epurazione e sostituzione dell’élite precedente – di cui è prova tra tutti lo stesso Porošenko – il governo ha assegnato importanti incarichi politici a stranieri conosciuti per loro specifiche expertise: oltre a Saakašvili, Natalie Jaresko (di origini ucraine ma nata negli Stati Uniti e diplomata ad Harvard prima di lavorare a Kiev) è stata nominata ministro delle finanze; Aivaras Abromavicius, lituano, è diventato ministro dello sviluppo economico e del commercio; Aleksander Kvitašvili, georgiano, è ora ministro ucraino della salute. Se tutte le nomine sono state criticate da chi le ha viste come un’incapacità del paese di governare ‘da sé’– il caso di Saakašvili è indubbiamente quello che ha destato le reazioni più accese. Michail Saakašvili ha guidato la Georgia dal 2004 al 2013, caratterizzandosi per l’efficacia delle sue radicali politiche contro la corruzione nel paese, per il suo filo-occidentalismo e per il suo forte nazionalismo antirusso. Nel 2014, dopo che nel 2012 era andato al governo il partito d’opposizione, la procura georgiana ha avviato un processo penale nei suoi confronti per abuso di potere e appropriazione indebita di fondi statali, e Saakašvili ha rinunciato alla cittadinanza. Ha accettato quindi quella ucraina, la quale, ai sensi della Costituzione, vieta l’estradizione. Se ci sono quindi anche ragioni personali – a cui si aggiunge l’amicizia con il presidente ucraino – la scelta di Odessa, regione economicamente molto importante e una delle più corrotte del paese, non è casuale. Il carisma e il decisionismo di Saakašvili sono tra i motivi per cui il presidente ha deciso di nominarlo. Politicamente, nel pieno della crisi ucraina, la regione ha vissuto momenti di forte instabilità dovuta a episodi violenti scoppiati tra le forze di sicurezza e i filorussi. Proprio la presenza di una forte comunità di filorussi, oltre che russofona, è l’elemento che ha sollevato le maggiori critiche riguardo alla nomina di di Saakašvili.
La penisola di Crimea è situata in una posizione strategica tra il Mar Nero e il Mar d’Azov ed è fondamentale negli equilibri della regione. Storicamente la Crimea ha avuto grande rilievo per la Russia, essendo stata parte dell’Impero russo e poi dell’Unione Sovietica (fino al 1954 parte della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e, da quell’anno, trasferita a quella ucraina). La base militare navale di Sebastopoli era fondamentale per la flotta russa e il controllo dei traffici commerciali: la permanenza della flotta russa nella base è stata oggetto di un ulteriore accordo nel 2010, in cui a Mosca si garantiva tale diritto fino al 2042. Inoltre la penisola è stata luogo di battaglie importanti: già nel Diciannovesimo secolo, durante la guerra di Crimea (1853-56), l’Impero russo combatté contro l’Impero ottomano per il controllo dei Balcani e del Mediterraneo. Durante la Seconda guerra mondiale l’Armata rossa si scontrò con i tedeschi che avevano occupato la Crimea. Con il crollo dell’Unione Sovietica e l’indipendenza dell’Ucraina, la penisola è passata sotto la sovranità ucraina. Tuttavia l’influenza russa è ancora sensibile, dato che la maggior parte della popolazione è russa, politicamente vicina a Mosca e in parte sostenitrice di tendenze separatiste. In più Sebastopoli continuerà per i prossimi trent’anni a ospitare la flotta russa del Mar Nero, già schierata in epoca sovietica. La Crimea è oggi una repubblica autonoma, nella quale i russi rappresentano il 60% della popolazione (circa un milione), seguiti da ucraini (circa 600.000) e tatari di Crimea (circa 250.000). Questi ultimi sono una minoranza turcofona e prevalentemente musulmana che fu deportata in Asia Centrale all’epoca di Stalin. I tatari hanno però cominciato a ritornare in patria tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Continuano ad aumentare, benché siano vittime di discriminazioni etniche. La stabilità della Repubblica autonoma di Crimea - annessa il 21 marzo 2014 alla Federazione Russa quando la Duma ha approvato un disegno di legge per l’adesione della penisola dopo la sua dichiarazione unilaterale d’indipendenza dall’Ucraina avvenuta con il referendum dell’11 marzo dello stesso anno - dipende dunque in gran parte dalle relazioni tra Russia e Ucraina e, indirettamente, dalle relazioni tra Europa occidentale e Ucraina che influenzano l’andamento dei rapporti tra Kiev e Mosca.
Approfondimento
Il conflitto armato in Ucraina Orientale, noto anche come guerra del Donbass, è iniziato come conseguenza della Rivoluzione di Majdan a Kiev nel novembre 2013, cui seguì la deposizione del leader filo-russo Viktor Janukovyč, con un conseguente avvicinamento di Kiev all’Occidente. Le risposte di Mosca aprirono ulteriori fasi di forte instabilità, e si rivolsero verso due principali teatri geopolitici ucraini. La prima reazione prese di mira la Crimea, che tramite un’incruenta operazione militare e un referendum (illegittimo per la comunità internazionale), venne annessa alla Federazione Russa. La seconda riguardò l’area russofona dell’Ucraina sud-orientale, principalmente attorno alle due regioni a vocazione indipendentista di Donets’k e Luhans’k. Nell’aprile 2014, sulla scia degli eventi che portarono all’annessione della Crimea, gruppi di attivisti pro-russi diedero inizio, in queste regioni, all’occupazione di vari edifici amministrativi. Di fronte a questa situazione, e con movimenti di truppe russe ai confini, Kiev decise di intervenire manu militari per scongiurare una replica dello scenario crimeano e riprendere il controllo delle regioni centrifughe. Nell’aprile 2014 è iniziato così il conflitto armato che, con momenti di diversa intensità, è durato per oltre 18 mesi: da un lato le forze armate ucraine e il governo Porošenko, dall’altra le formazioni ribelli delle due repubbliche comandate da Alexander Zakarchenko e Igor Plotnitsky, con un bilancio totale di oltre 7000 vittime, di cui oltre 2600 soldati ucraini, 2200 separatisti, e 2500 civili. Nonostante l’evidente influenza diretta del Cremlino sulle repubbliche separatiste, e le reiterate accuse di Kiev e dell’Occidente al Cremlino di aver invaso a più riprese l’Ucraina, Mosca ha tuttavia negato il coinvolgimento diretto del proprio esercito, ritraendosi come parte terza al conflitto. Il conflitto è stato segnato da due principali armistizi: gli accordi di Minsk I sottoscritti il 6 settembre 2014, seguiti da quelli di Minsk II dell’11 febbraio 2015. Gli accordi di Minsk I, che tra i vari punti istituivano come priorità un cessate il fuoco e la creazione di una buffer zone tra il territorio sotto il controllo di Kiev e quello in mano ai separatisti, furono in seguito pesantemente violati. I negoziati sono stati anche causa diretta di decisivi scontri militari sul campo. In effetti, gli accordi di Minsk I, si sono resi necessari in seguito a una pesante battuta d’arresto dell’esercito ucraino con la violenta battaglia per la strategica città di Ilovaisk, dove reparti paramilitari e dell’esercito, in seguito a un’iniziale offensiva, dovettero ritirarsi dopo essere stati accerchiati e decimati dai ribelli. Stesso scenario, ma su scala maggiore, si verificò nei mesi successivi agli accordi di Minsk I, quando tra gennaio e febbraio 2015, oltre ai prolungati scontri per il controllo dell’aeroporto di Donets’k, che si risolsero con la sua conquista da parte delle forze ribelli, si verificò la battaglia chiave di Debaltseve. Questo scontro, che ebbe nuovamente l’effetto di accelerare la ripresa dei negoziati, si concluse con un nuovo assedio da parte delle forze separatiste che causò cospicue perdite tra i reparti ucraini, che furono in seguito costretti a ritirarsi dalla città il 18 febbraio, quattro giorni dopo la firma degli accordi di Minsk II. Questi ultimi, che hanno di fatto rafforzato le misure già approntate negli accordi del settembre 2014, hanno esercitato una maggiore pressione sulle parti per un cessate il fuoco immediato e per il ritiro degli armamenti pesanti dalla linea di demarcazione. L’impegno diplomatico sotto la supervisione dell’Osce, con la presenza della cancelliera tedesca Merkel, del presidente francese Hollande, insieme al presidente russo Putin, a quello ucraino Porošenko, e ai leader separatisti, ha certamente influito sull’implementazione di un cessate il fuoco più duraturo. Nel settembre 2015, l’azione diplomatica del Gruppo di Contatto (Mosca, Osce, Kiev e leader separatisti) ha ottenuto il ritiro effettivo degli armamenti dal fronte e la creazione di una zona di sicurezza demilitarizzata. A causa della tregua e del sorgere di altre crisi internazionali, la copertura mediatica e l’interesse generale sul conflitto sono scemati. Ad oggi, la situazione nel Donbass a livello politico-militare è in una fase di stallo, e l’area rischia di divenire un ennesimo ‘conflitto congelato’ post-sovietico (analogamente ai casi della Transnistria, Ossezia del Sud e Abkhazia), utilizzabile da Mosca come leva di influenza politica sugli equilibri regionali e su quelli interni all’Ucraina. Tuttavia il Cremlino, sia per ragioni di natura economica che per le conquiste dell’esercito ucraino di varie zone nell’area, sembra per ora aver rinunciato alla creazione della cosiddetta Novorossya, che avrebbe dovuto creare una continuità territoriale nelle aree ucraine russofone da Donets’k fino alla Transnistria. Il rinvio al 2016 del pacchetto di riforme politiche per l’Ucraina (tra cui la questione chiave delle elezioni nei territori indipendentisti), deciso nel novembre 2015 dal ‘Formato Normandia’, composto dai ministri degli esteri di Russia, Francia, Germania e Ucraina, indica che nonostante la riduzione della tensione militare, una soluzione politica del conflitto che affronti le cruciali questioni di un assetto federale del paese e dello status speciale per le regioni pro-russe, è per ora ancora lontana.
di Giorgio Cella