Ufficialità della lingua italiana
L’assenza nel dettato costituzionale di una norma che espressamente sancisca l’ufficialità della lingua italiana ha contribuito a sollevare una serie di problematiche e interrogativi circa il ruolo primario che ad essa deve essere riconosciuto all’interno del nostro ordinamento. Tali problematiche sono emerse soprattutto in materia di bilanciamento del relativo valore con la tutela delle minoranze linguistiche e gli obiettivi di internazionalizzazione, che vengono perseguiti in un contesto sempre più aperto alla globalizzazione. Con il presente contributo si intende mettere in luce la centralità che ancora oggi viene riconosciuta alla lingua nazionale, in particolare nel campo dell’istruzione universitaria, soprattutto alla luce dei limiti riconosciuti dalla più recente giurisprudenza costituzionale all’autonomia dei singoli atenei.
3.1 Considerazioni conclusive
La lingua ufficiale di una Nazione rappresenta il simbolo di un’identità sociale comune e condivisa, nonché il veicolo del suo patrimonio storico e culturale. L’importanza che ad essa è stata tradizionalmente riconosciuta si avverte attualmente con maggiore forza alla luce del crescente fenomeno delle migrazioni e della globalizzazione, insieme con i problemi di civile convivenza che ne possono conseguire. Ciononostante – e nonostante le diverse proposte di costituzionalizzazione ripetutamente avanzate –, a differenza delle Carte fondamentali di altri Paesi europei, la Costituzione italiana manca di una norma che espressamente statuisca l’ufficialità della lingua italiana e che dia formale riconoscimento alla sua centralità1. Invero, in passato, l’art. 62 dello Statuto albertino riconosceva la lingua italiana quale lingua ufficiale delle Camere, pur ammettendo l’utilizzo della lingua francese per gli interventi dei membri appartenenti ai Paesi in cui questa era in uso (o per le relative risposte), ma, dopo la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia, tale norma cadde in disuso. Successivamente, con l’avvento del periodo fascista e la sua politica di snazionalizzazione delle minoranze, fu introdotto l’obbligo della lingua italiana per tutti gli affari civili e penali da trattarsi negli uffici giudiziari del regno. Tuttavia, con la fine della guerra e la liberazione del Paese, tale indirizzo è stato rovesciato, con l’affermazione dell’esigenza di rispettare il diritto degli appartenenti alle minoranze ad avvalersi della propria lingua. Probabilmente, la scelta di non introdurre nel testo della Costituzione del 1948 un’apposita norma che sancisse l’ufficialità della lingua italiana all’interno del territorio della Repubblica, è probabilmente riconducibile anche al periodo storico in cui la Carta è stata redatta, volendo i Costituenti evitare che la formale statuizione dell’esistenza di una “lingua di Stato” potesse assumere un’impronta nazionalistica2. Al contrario, nella Costituzione viene espressamente positivizzato il principio del riconoscimento e della tutela delle minoranze alloglotte («La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche», art. 6 Cost.; mentre, l’art. 3 Cost., vieta che la lingua possa costituire una causa di discriminazione). In ogni caso, l’italiano era la lingua stabilmente e comunemente utilizzata nel territorio nazionale, la sola in uso per la redazione delle leggi e della Costituzione stessa; appariva pertanto evidente che fosse la lingua nazionale.
È proprio in attuazione dell’art. 6 Cost. che il legislatore nazionale ha infine adottato la l. 15.12.1999, n. 482, «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche», ove l’art. 1 espressamente statuisce che «la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano», immediatamente seguito da una norma che indica le minoranze linguistiche meritevoli di tutela (art. 2), senza tuttavia dare una definizione di “minoranza linguistica”. In ogni caso, la giurisprudenza costituzionale è più volte intervenuta in materia, al fine di chiarire il rilievo che alla lingua italiana deve essere riconosciuto nei diversi ambiti della vita e dell’ordinamento in generale.
Dal punto di vista prettamente giuridico, la lingua ufficiale è lo strumento mediante il quale viene espressa la volontà dei pubblici poteri e che, ai fini della certezza giuridica, deve essere utilizzata non soltanto tra i funzionari, ma altresì nei rapporti di questi con i cittadini e, in generale, con tutti i soggetti dell’ordinamento. In un contesto multiculturale e globalizzato, tale funzione diventa fondamentale, in quanto consente di evitare che l’opportunità di consacrare e tutelare specifiche appartenenze storico-culturali o etniche si risolva in un pregiudizio per il buon funzionamento delle amministrazioni e per l’intera comunità. Del resto, appare impossibile – e in un certo senso anche indesiderata – l’esistenza di un ordinamento che sia autenticamente mononazionale, monolinguistico e monoculturale3. Le minoranze etniche costituzionalmente riconosciute hanno come connotato essenziale – tra gli altri – una lingua propria e il diritto all’utilizzo di questa si ricollega ai principi supremi del nostro ordinamento, quali il principio pluralistico (art. 2 Cost.), il principio di eguaglianza dinanzi alla legge (art. 3, co. 1, Cost.), il principio della giustizia sociale e il pieno sviluppo della personalità umana nella vita comunitaria (art. 3, co. 2, Cost.).
Il riconoscimento costituzionale della tutela delle minoranze linguistiche è stato sovente fonte di problematiche legate, da una parte, al diritto di utilizzare la propria lingua materna e, dall’altra parte, all’obbligo di ricorrere alla lingua italiana negli ambiti giuridicamente rilevanti. Giova innanzitutto premettere che la mancata definizione della nozione di minoranza linguistica comporta un’ampia discrezionalità in capo al legislatore, chiamato a individuare arbitrariamente i gruppi alloglotti ad essa riconducibili, e pertanto riconoscendoli quali meritevoli di tutela. Comunemente, vengono considerate minoranze le cosiddette “penisole linguistiche”, intendendosi per tali quelle minoranze linguistiche politicamente confinate, che appaiono separate dalla maggioranza della popolazione dello Stato di lingua italiana. In altri termini, le “minoranze linguistiche” sono minoranze nazionali, alle quali è riconosciuta un’appartenenza diversa, riconducibile allo Stato del quale condividono la lingua4. Per quanto concerne specificamente la tutela ad esse riconosciuta, se da una parte l’ordinamento italiano tende a dare attuazione ai principi di cui all’art. 6 Cost. mediante regimi particolari legati alle differenti realtà territoriali, dall’altra parte, come chiarito anche dal giudice delle leggi, «la Costituzione conferma per implicito che il nostro sistema riconosce l’italiano come unica lingua ufficiale, da usare obbligatoriamente, salvo le deroghe disposte a tutela dei gruppi linguistici minoritari, da parte dei pubblici uffici nell’esercizio delle loro attribuzioni» (C. cost., 11.2.1982, n. 28). Del resto, la consacrazione della lingua italiana, ai sensi dell’art. 1, co. 1, della l. n. 482/1999, quale «lingua ufficiale della Repubblica» non ha una funzione meramente formale, ma rappresenta un criterio interpretativo generale delle diverse disposizioni che prevedono l’uso di altre lingue, evitando che queste ultime possano essere considerate alternative alla lingua italiana, ovvero tali da relegarla a un ruolo di marginalità (C. cost., 22.5.2009, n. 159). In particolare, specifiche garanzie al primato della lingua italiana sono date dalla l. n. 482/1999 per le scuole materne, elementari e medie inferiori (artt. 4 e 5), per le università (art. 6), per gli organi a struttura collegiale di Comuni, Comunità montane, Province e Regioni (art. 7), le pubblicazioni dei Comuni (art. 8), le pubbliche amministrazioni operanti localmente e i giudici di pace (art. 9), i Comuni competenti sulla toponomastica (art. 10), gli organi competenti in materia di ripristino del nome originario (art. 11), il servizio pubblico radiotelevisivo (art. 12). Alla luce delle suesposte considerazioni, si rileva che il rispetto della lingua italiana ha sovente rappresentato un limite per gli spazi di autodeterminazione riconosciuti nei diversi ambiti al legislatore nazionale e regionale nell’esercizio della potestà legislativa concorrente, anche se non sono rari i casi in cui la giurisprudenza ha contribuito alla delineazione dei rispettivi confini di autonomia.
Nell’ambito dell’ordinamento della pubblica istruzione, la scuola e le università rappresentano i luoghi istituzionalmente deputati alla trasmissione della conoscenza nei vari rami del sapere, nonché alla formazione della persona e del cittadino.
In Italia, l’insegnamento di qualunque ordine e grado viene impartito in lingua italiana, che pertanto costituisce il vettore della cultura e della tradizione della comunità nazionale, la cui tutela è sancita – anche – dall’art. 9 Cost. Tuttavia, anche in tale contesto, il primato riconosciuto alla lingua italiana si incontra con altri principi costituzionalmente tutelati, determinando talvolta anche la necessità di operazioni di bilanciamento. In particolare, situazioni di conflitto possono rinvenirsi con il principio di uguaglianza, nella particolare declinazione del diritto alla parità di accesso all’istruzione, che la Repubblica, ai sensi dell’art 34, co. 3, Cost., ha il dovere di garantire, sino ai più alti gradi degli studi, ai soggetti più capaci e meritevoli; la libertà di insegnamento per i docenti, di cui all’art. 33, co. 1, Cost.; l’autonomia universitaria, tutelata ai sensi dell’art. 33, co. 6, Cost., da intendersi non solo relativamente all’organizzazione interna, bensì anche nel rapporto con i diritti costituzionali di accesso alle prestazioni. Proprio con riferimento all’autonomia universitaria, ai sensi dell’art. 6 l. n. 482/1999, il legislatore ha dapprima attribuito alle università, nell’ambito della propria autonomia e degli stanziamenti di bilancio, il potere di assumere ogni iniziativa, ivi compresa l’istituzione di corsi di lingua e cultura delle lingue delle minoranze di cui all’art. 2 della legge medesima, al fine di agevolare la ricerca scientifica e le attività culturali e formative. Successivamente, con l. 30.12.2010, n. 240, «Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario», ha espressamente favorito l’internazionalizzazione dell’istruzione universitaria, attribuendo alle università la facoltà – inter alia – di modificare il proprio statuto in tema di articolazione interna rafforzando l’internazionalizzazione «anche attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e di ricerca e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera» (art. 2, co. 2, lett. l). Proprio tale ultima disposizione è stata oggetto di dubbi di costituzionalità.
Come detto, è stato rilevato come la progressiva affermazione di una società multiculturale e l’erosione dei confini dovuti alla globalizzazione hanno insidiato la primazia della lingua nazionale, ormai frequentemente affiancata da una molteplicità di idiomi nei diversi ambiti del sapere umano.
Ripercussioni di tali fenomeni si sono registrate anche nel campo dell’istruzione – e segnatamente dell’istruzione universitaria – ove, come sopra visto, il legislatore nazionale ha dimostrato una significativa apertura alla cd. internazionalizzazione. In tale contesto, il primato della lingua italiana, lungi dal rappresentare un mero retaggio del passato, assume un ruolo ancora più decisivo per la trasmissione del patrimonio storico e identitario della Repubblica,da salvaguardare come bene culturale in sé. È questa la posizione assunta dalla Corte costituzionale nella recente sentenza del 24.2.2017, n. 42, pronunciata in occasione di un dubbio di costituzionalità sollevato in ordine al sopracitato art. 2, co. 2, lett. l), l. n. 240/2010, «nella parte in cui consente l’attivazione generalizzata ed esclusiva (cioè con esclusione dell’italiano) di corsi di studio universitari in lingua straniera». In particolare, la questione era stata sollevata dal Consiglio di Stato in seguito a un giudizio instaurato da alcuni docenti del Politecnico di Milano, allorché il Senato accademico aveva determinato l’attivazione di taluni corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca esclusivamente in lingua inglese, senza assoggettarla «a limitazioni né a condizioni», implicitamente abrogando l’art. 271 del R.d. 31.8.1933, n. 1952, ai sensi del quale «La lingua italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari». In altri termini, si contestava la legittimità di escludere la lingua italiana dagli insegnamenti, in violazione degli artt. 3, 6 e 33 della Costituzione; dall’altro lato, l’Avvocatura dello Stato sosteneva invece che la scelta della lingua degli insegnamenti era riconducibile alla capacità di autodeterminazione dei singoli atenei, espressamente riconosciuta dalla legge. La Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni di legittimità sollevate con una interessante pronuncia interpretativa di rigetto, mediante la quale ha invero consolidato il principio della primazia della lingua italiana. Infatti, l’obiettivo della internazionalizzazione, legittimamente perseguito dal legislatore nazionale, consentendo agli atenei di incrementare la propria vocazione internazionale, «deve essere soddisfatto senza pregiudicare i principi costituzionali del primato della lingua italiana, della parità di accesso all’istruzione universitaria e della libertà di insegnamento». Sarebbe pertanto illegittima l’attivazione di corsi di studio impartiti esclusivamente in una lingua straniera, in quanto la lingua italiana, nella sua qualità di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, non può essere ridotta a una posizione marginale; né si può imporre quale presupposto di accesso ai corsi la conoscenza di una lingua diversa dall’italiano; infine, non si può ledere la libertà di insegnamento incidendo significativamente sulle modalità con cui il docente può svolgere la propria attività, il quale peraltro potrebbe essere così discriminato all’atto del conferimento degli insegnamenti. Poste queste necessarie premesse, la Corte costituzionale ha tuttavia ritenuto possibile attribuire alla disposizione impugnata una interpretazione costituzionalmente orientata, nel senso che è riconosciuta agli atenei la possibilità di affiancare all’erogazione di corsi universitari in italiano, corsi in lingua straniera; in altri termini, è legittimo istituire interi corsi in lingua inglese esclusivamente se sono al contempo offerti anche in italiano. Inoltre, al fine di perseguire gli obiettivi di internazionalizzazione, è ragionevole riconoscere alle università, nell’ambito della rispettiva autonomia, anche la facoltà di attivare taluni insegnamenti – e non, si ribadisce, interi corsi di studio – esclusivamente in lingua straniera, sempreché l’offerta formativa sia, nel suo complesso, rispettosa del primato della lingua italiana.
Alla luce delle considerazioni espresse dalla Corte, si evince innanzitutto che i Giudici delle leggi non si sono limitati, come in precedenza, a ricavare il principio dell’ufficialità della lingua italiana implicitamente dall’art. 6 Cost., ma lo hanno altresì ancorato all’art. 9 Cost., qualificandola «bene culturale in sé», in quanto tale meritevole di tutela. Baluardo dell’identità della Nazione, la lingua italiana assurge al ruolo di strumento di resistenza alle insidie che possono derivare dal plurilinguismo, quasi ad arginare la progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l’erosione dei confini dovuta alla globalizzazione. Ne consegue tuttavia il sacrificio dell’autonomia universitaria, che appunto, nel bilanciamento con gli altri interessi costituzionalmente rilevanti, è destinata a soccombere.
Tuttavia tale pronuncia ha prestato il fianco a talune critiche da parte della dottrina, che la ha tacciata infatti di anacronismo poiché reprime le ambizioni di vocazione internazionale delle università, le quali invece, mediante l’offerta di interi corsi in lingua straniera, avrebbero l’intenzione di attrarre studenti e docenti provenienti da altri Paesi, implementare gli scambi culturali e favorire l’ingresso dei giovani laureati nel mercato del lavoro a livello internazionale5. Si rivelerebbe pertanto non del tutto soddisfacente l’equilibrio trovato dalla Corte costituzionale tra gli interessi costituzionalmente tutelati in gioco, considerato peraltro che, rispetto agli altri Paesi dell’Unione europea, l’Italia presenta un’offerta didattica in lingua inglese molto limitata.
1 Franchini, M., “Costituzionalizzare” l’italiano: lingua ufficiale o lingua culturale?, in Rivista AIC, 3/2012.
2 Pizzorusso, A., Il pluralismo linguistico in Italia fra Stato nazionale e autonomie regionali, Pisa, 1975.
3 Toniatti, R., Pluralismo e autodeterminazione delle identità negli ordinamenti culturalmente composti: osservazioni in tema di cittadinanza culturale, in Cecchini, E.Cosulich, M., a cura di, Tutela delle identità culturali, diritti linguistici e istruzione. Dal Trentino-Alto Adige/Sudtirol alla prospettiva comparata, Padova, 2012, 5 e ss.
4 Cosulich, M., Minoranze linguistiche e istruzione nell’ordinamento italiano, in Cecchini, E.Cosulich, M., Tutela delle identità culturali, cit., 33 e ss.
5 Milani, G., Una sentenza anacronistica? La decisione della Corte costituzionale sui corsi universitari in lingua inglese (Nota a Corte cost., sent. n. 42/2017), www.federalismi.it, 3.5.2017.