ATTARDI, Ugo
Nacque a Sori (Genova) il 12 marzo 1923 da Aurelio e Natalia Donnini.
Nel 1924, il padre, sindacalista, a seguito della soppressione da parte del regime fascista della Federazione dei lavoratori portuali di Genova presso cui afferiva, fu costretto a lasciare il suo incarico; riparò dunque in Sicilia, a Santo Stefano Quisquina, suo paese natale, ma interdetto dai pubblici uffici perché non tesserato al Partito nazionale fascista, trovò un impiego solo negli anni Trenta, mentre la moglie lavorava come barista e sarta. Assunto presso l’Istituto autonomo case popolari di Palermo, vi trasferì la famiglia, cosicché Attardi trascorse l’infanzia e l’adolescenza nel capoluogo siciliano, alimentando la sua propensione per il disegno. Nel 1937 si iscrisse al liceo artistico di Palermo e, conseguito il diploma dopo un’interruzione degli studi alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel 1941 si immatricolò alla facoltà di architettura, presto abbandonata a favore dell’Accademia di belle arti.
Lasciata anche l’Accademia a causa dei rivolgimenti degli ultimi anni di guerra, nel 1945, dopo la Liberazione, si trasferì a Roma, probabilmente richiamato da Pietro Consagra, conosciuto negli anni
del liceo e già nella capitale dal 1944; assieme furono ospitati da Renato Guttuso, finché Attardi prese uno studio in via Flaminia 58. Intanto entrò in contatto con artisti già affermati sulla scena romana, come Mario Mafai (Micacchi, 1971, p. 273), e si tesserò al Partito comunista italiano.
Il suo esordio pittorico, testimoniato dalle due tele con Natura morta del 1944 e 1945 (Troisi, 2011), fu all’insegna del neocubismo, sebbene nelle opere citate la scomposizione dei volumi fosse associata ad un uso del colore, terreo e denso, rievocante i toni dell’espressionismo europeo, nello specifico del primo Van Gogh e di Soutine, secondo una tendenza sincretica inaugurata in Italia dagli artisti del gruppo Corrente (ibid., pp. 14-15); nel biennio 1945-46, alcune opere andate perdute e di cui rimane documentazione fotografica, come i due Paese siciliano del 1945 e Estate del 1946 (Micacchi, 1971; a tale testo si rimanda per le riproduzioni delle opere citate, ove non diversamente indicato), presentano un primo tentativo di astrazione delle forme, rese con un tratto grafico quasi infantile che ricorda Paul Klee (Ragghianti, 1976, pp. n.n.).
Nel 1946, presso lo studio di Guttuso dove si accompagnava con Consagra, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato, conobbe Piero Dorazio, Giacomo Guerrini, Achille Perilli e, successivamente, Carla Accardi: con i sette artisti citati, cui poi si aggiunse Concetto Maugeri, Attardi fondò nel 1947 il gruppo Forma 1.
Intanto, nel settembre 1946, aveva visto con i cofondatori del gruppo la mostra Pittura francese d’oggi allestita presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, ricavandone una profonda impressione, al punto che la pittura francese e la Scuola di Parigi, così come la frequentazione di Gino Severini, definito da Dorazio «il provocatore dei nostri dubbi» (Forma 1, 1976, p. 7), e Angelo Maria Ripellino, che informava i giovani gravitanti nell’orbita di Guttuso sulle avanguardie russe, influenzarono gli artisti di Forma 1.
Nel loro manifesto, scritto nel marzo 1946 e pubblicato nell’aprile 1947 sul primo numero della rivista Forma 1, si dichiararono «formalisti e marxisti», non ritenendo dicotomici i due termini e assumendo una posizione netta e intransigente nel dibattito, politico e artistico, avvampato nel secondo dopoguerra tra astrattisti e realisti italiani. Considerato il realismo «spento e conformista», romantico e borghese, essi propugnavano un ritorno alla forma pura, intesa come colore e disegno per la pittura e massa plastica per la scultura, e si proponevano di aggiornare il linguaggio figurativo italiano sui portati più innovativi dell’astrattismo internazionale. Nel novembre dello stesso anno, Attardi firmò con Accardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Lucio Manisco, Maugeri, Saro Mirabella, Guglielmo Pierce, Perilli, Sanfilippo e Turcato una lettera indirizzata a L’Unità, dal titolo Gli astrattisti, in cui gli estensori suffragarono le ragioni dell’astrattismo contro quelle del realismo facendo riferimento alla situazione francese e alle rivoluzioni figurative di inizio Novecento messe in atto da Picasso e Matisse (ibid., pp. 5-8).
Dal 1947 al 1949, cogliendo «la sua occasione europea, moderna e politica» (Micacchi, 1971, p. 32), Attardi presenziò alle principali esposizioni del gruppo Forma 1: tra le più rilevanti, si ricordano, anche per la partecipazione di esponenti di altri raggruppamenti astrattisti italiani e internazionali, tre collettive del 1949, ossia la III Mostra annuale dell’Art club alla Galleria nazionale di arte moderna di Roma, la I Mostra internazionale dell’Art club presso palazzo Carignano a Torino e la III Mostra internazionale di Arte oggi alla galleria Strozzina di Firenze. Nel 1948, una sua opera fu selezionata per la Quinta rassegna nazionale di arti figurativi di Valle Giulia, manifestazione promossa dall’Ente quadriennale di Roma, e una sua prima mostra con Accardi e Sanfilippo fu allestita presso l’Art club della capitale.
Schiarita la tavolozza con l’aggiunta di colori vividi e luminosi, e resa più geometrica la scomposizione di matrice post e neocubista – entrambi gli aspetti sono ravvisabili in opere come Cactus in fiore (1946), i due Paese sul mare (1948 e 1949), e Alba all’Isola delle Femmine (1949; Troisi, 2011) –, l’astrattismo di Attardi si connotò per la messa in risalto del «telaio dinamico delle linee» (ibid., p. 16), e in dipinti come Fiori astratti (1946), Paesaggio astratto (1947) e Luminosità (1947; ibid.) i tasselli di colore sembrano intersecare linee-forza di derivazione futurista.
Sebbene tra il 1949 e il 1950 l’esperienza di Forma 1 si avviasse al termine, soprattutto a causa dello strappo avvenuto tra Dorazio, Perilli e Guerrini da un lato, e Turcato e Consagra dall’altro, nel 1950 Attardi espose nuovamente con Accardi e Sanfilippo presso la galleria Bergamini di Roma, e il catalogo delle loro opere fu presentato da Enrico Prampolini.
Nello stesso anno nacque la sua prima figlia, Aura, avuta da Elena Giaconia, conosciuta tra il 1937 e il 1938 al liceo artistico di Palermo e sposata nel 1947.
Al 1951, anno della sua personale presso la galleria Il Pincio di Roma, si datano un gruppo di pitture e disegni – tra tutti Contrabbandieri, Carrettieri e I feriti di Portella della Ginestra – che attestano il suo approdo alla figurazione e, nella scelta dei soggetti, un più manifesto impegno etico-politico. La svolta realista, maturata in anni di aspre tensioni sociali e con lo sguardo rivolto da Roma agli eventi che si consumavano in Sicilia, difficili da inverare in «atti e immagini di pura astrazione» (Attardi, cit. in Pegoraro, 2012, p. 14), condusse Attardi più vicino alla posizione assunta da Guttuso dopo il 1948, ma il suo realismo non fu mai «integrale e indiscriminato» (Ulivi, 1985, p. 5) e, benché talvolta didascalico, assunse una connotazione antieroica e antiepica, giacché i braccianti, i minatori, i mutilati e i ladri di patate ritratti fino al 1955 con linee spesse ed energiche e toni bruni, trascendendo la cronaca e l’attualità, è come se incarnassero ataviche figure di sopraffatti e vinti che «lottano per un significato più generale della vita» (Micacchi, 1971, p. 52).
Con disegni e tele realiste fu invitato ad esporre alla Biennale di Venezia del 1952 e del 1954, nonché alla Quadriennale di Roma del 1955.
Mentre era impegnato in tale produzione, tra il 1954 e il 1955 Attardi ultimò alcuni dipinti preannuncianti l’abbandono del realismo e il passaggio a una fase della sua pittura in cui avrebbero convissuto sguardo meditativo, registrazione di episodi di vita quotidiana, e raffigurazione di paesaggi e vicende urbane. Se Interno di via Flaminia (1954) e Gli amanti di via Flaminia (1955) costituiscono una parentesi intimista nella congerie di disegni e dipinti militanti – divagazione in cui però è già riscontrabile l’opposizione tra un interno domestico e un esterno urbano, incorniciato da una finestra o visibile da un balcone, che sarà poi una costante di molte sue opere degli anni Sessanta – Disoccupati (tela del 1955 terminata solo nel 1988; Troisi, 2011), che invece ne condivide la tematica, tuttavia, attraverso l’ambientazione cittadina della scena, suggerisce un nuovo, all’apparenza impercettibile, cambiamento di rotta. Con Rissa sul Lungotevere del 1955, distolta l’attenzione dalla Sicilia del presente e della memoria, Roma fa irruzione nell’immaginario dell’artista: che si tratti del Tevere che la attraversa come una ferita (Micacchi, 1971, pp. 64-70) – ripreso in Il Tevere a Testaccio (1957), Sul greto del Tevere (1957), Roma al ponte di ferro (1958), Lungotevere (1960) e Amanti a ponte Palatino (1960) – o delle figure che la popolano – dai nudi di donna alle prostitute ritratte in Alberina (1955), Postribolo (1957) e Rosea nella vaga luce (1958); dagli alti prelati ai personaggi in vista rappresentati in Cardinale (1958), Cardinale e nipote (1958), Il cardinale e i principi romani (1960) e Ritratto di Silvana Mangano (1959) –, i soggetti sono resi con una pennellata franta e invischiati in una materia pittorica in alcuni punti raggrumata e in altri sfaldata, che rammenta la produzione ultima di Tiziano, Velasquez e Goya.
Attardi espose per la prima volta le opere di ambientazione capitolina nel 1956, presso la galleria romana La tartaruga; nel 1959, alla Quadriennale di Roma; e poi ancora nel 1960, in una mostra con Renzo Vespignani, e nel 1961, in una personale, entrambe ospitate a Roma dalla galleria La Nuova pesa.
Nel 1956, anno in cui fuoriuscì dal Partito comunista italiano poiché non ne condivise la linea adottata a seguito dell’invasione sovietica dell’Ungheria, diede anche avvio alla sua attività di incisore e illustratore, disegnando le tavole per le Lettere dalla provincia di Giovanni Battista Angioletti, edite a Roma l’anno successivo.
Nel 1957, diventato padre per la seconda volta con la nascita del figlio Andrea, entrò nella redazione della rivista Città aperta, periodico di politica e cultura di ispirazione marxista, a cui collaborò fino alla chiusura nel maggio 1958. Un suo articolo, uscito sulla rivista nell’aprile 1958, intitolato Dov’è il movimento?, consente di comprendere le ragioni del pathos che trapela dalle immagini indefinite e sfocate nel colore proprie della sua pittura di quegli anni, giacché l’autore sostenne che è la natura artificiale del paesaggio urbano a determinare una poetica drammatica, sconosciuta al paesaggio naturale.
Nel 1961, con Vespignani, con cui aveva condiviso l’esperienza redazionale di Città aperta, e con Ennio Calabria, Fernando Farulli, Alberto Gianquinto, Piero Guccione e i tre critici Antonio Del Guercio, Dario Micacchi e Duilio Morosini fondò a Roma il collettivo Il pro e il contro, di cui fecero parte inizialmente anche Carlo Aymonino e Elio Petri, e successivamente, dal 1963, Gianfranco Ferroni, Giuseppe Guerreschi e Giuseppe Romagnosi.
Provenienti da percorsi artistici differenti, ma accomunati dalla medesima percezione dell’«individuo sempre più fragile di fronte agli estremi della vita» (Calabria, 2003, p. 8), gli artisti del collettivo auspicavano di restituire un ruolo centrale alla pittura e alla figurazione (da non confondersi con il naturalismo dei realisti) e, attraverso il coinvolgimento dei critici, di confrontarsi e dibattere con il pubblico, al fine di restituire all’arte una funzione civile e agli artisti un impegno etico che non fosse subordinato alla politica. Dopo due mostre tenute nel 1962 presso la galleria La Nuova pesa, entrambe dedicate al tema della violenza e a cui fu invitato a esporre anche Guttuso, tra il 1963 e il 1964 il gruppo organizzò presso la galleria Il Fante di spade quattro collettive e una retrospettiva delle opere di George Grosz, sciogliendosi definitivamente nel 1964.
Il pro e il contro fu l’ultimo raggruppamento a cui Attardi si unì, e connotò i suoi anni Sessanta, al pari di una personale di Francis Bacon vista nel 1962 a Torino e di un viaggio condotto nel 1964 in Spagna, eventi nodali per gli esiti della sua ricerca artistica, e delle prime mostre internazionali a cui fu chiamato a partecipare a Praga, Mosca, Los Angeles, New York, Londra, Berlino, Parigi e Cuernavaca.
Per tutto il decennio, continuò a sviluppare, nelle serie con i balconi affacciati sulla città, gli amanti alla finestra o i tramonti, tematiche e soggetti già espressi sulla tela negli anni precedenti, sebbene alcuni paesaggi siano ora più vicini alle soluzioni formali della Scuola romana, nello specifico alla stesura pittorica di Mafai e Scipione, mentre per la giustapposizione tra interno domestico e esterno urbano l’artista dichiari apertamente di essersi ispirato a Le balcon di Manet, con un’inversione, però, del punto di vista. Tuttavia, a partire dal biennio 1960-62, l’universo pittorico attardiano si intorbidì: in tele come La veglia in Vaticano, Veglia al bambino malato, Sogno violento, Il bambino nel pozzo e Sulla strada di Palermo, tutte databili 1960, in Madre con bambino e Il bambino perduto del 1961, e in Bambino che vola e Andromaca del 1962, la pennellata si compatta, le figure si stilizzano e i colori diventano più cupi per raccontare stralci di autobiografia e presentimenti di violenza, e per sovrapporre dimensione onirica e realtà, incubi notturni e oppressioni diurne.
Tra il 1962 e il 1964, ossia negli anni cruciali de Il pro e il contro, Attardi sperimentò una nuova strutturazione per le sue narrazioni figurative: in Corpo sulla città (1964), Kennedy (1964; Troisi, 2011), El sereno (1962) e Prigioniero (1963) la tela è bipartita, in orizzontale o in verticale, e se le Pietà laiche delle prime due opere incombono su città affocate e appena accennate dalle strisciate del pennello, personaggi solitari, come apparizioni livide stagliate su fondi bui e bituminosi ravvivati da tocchi di giallo, sbucano dalle seconde due. In El sereno è possibile osservare le prime suggestioni scaturite dall’incontro con la pittura di Bacon e, come in Prigioniero, un uso del bianco che rimanda a El Greco, la cui influenza, insieme a quella di Velasquez e di Goya, divenne più pregnante a seguito del suo viaggio in Spagna (ibid., pp. 25-27). Le opere del cosiddetto «ciclo spagnolo» (Micacchi, 1971, pp. 100-110), esposte per la prima volta nel 1965 presso la galleria La Nuova pesa, condividono il segno e l’inquietudine di El sereno e Prigioniero, ma presentano una suddivisione della materia pittorica in scomparti, come in moderni polittici o retablos, non dissimili da alcuni combine paintings di Rauschenberg o grandi tele di Rosenquist o polimaterici dadaisti, come i Merz di Schwitters: tra tutte, l’ambiziosa Crucifixion en Zaragoza appare come un documento di denuncia nei confronti del regime di Francisco Franco, parzialmente effigiato nel dipinto, assieme a dettagli corporei sparsi che riecheggiano i frammenti anatomici riprodotti da Géricault.
Interessatosi ai procedimenti della Pop Art statunitense, in particolare al collage pop, si cimentò in alcune prove andate distrutte (ibid., pp. 223-225), tra cui il polittico Testimonianza per l’incoronazione e la morte di Giovanni XXIII (1965) in mostra alla IX Quadriennale di Roma e presentato in catalogo.
La tematica della violenza, espressa all’inizio degli anni Sessanta come un presagio e rappresentata nel ciclo spagnolo come repressione politica e religiosa, successivamente fu intesa da Attardi come una istintuale e primigenia condizione umana di reciproca sopraffazione, e a partire dal 1966-67 ne informò la produzione. In opere quali Senza pietà (1966), Assassini (1967) e Assassino volante (1967), corpi tozzi, sproporzionati e macrocefali apparentati agli omini di Grosz e deformati alla maniera di Bacon, dipinti con tonalità accese contrastate da bruni e ocre o da verdi acidi e squillanti, si muovono in interni borghesi e contesti urbani, e si esibiscono in episodi di brutalità e in soprusi privati.
Della stessa atmosfera della pittura respirano le pagine del romanzo L’erede selvaggio, cominciato da Attardi nel 1964 e terminato nel 1967: «potentissimo affresco di corpose e virulente tossicità assai presenti nel mondo siciliano» (Ragghianti, 1976, pp. n.n.) in cui è ambientato, fu dato alla stampa a Milano nel 1970 per i tipi di Rizzoli, e si aggiudicò, nel 1971, il premio Viareggio, per poi essere tradotto in diversi paesi europei.
Nel 1968 l’artista pubblicò a Roma trentuno disegni a grafite, tre acqueforti e una litografia nella raccolta Questo matto mondo assassino, e nel 1972 diciotto acqueforti in bianco e nero incise a corredo de L’erede selvaggio nella cartella Mitobiografia: in queste tavole, «impensate liturgie dello spavento, dell’orrore e del delitto» (ibid.), figure toniche e scattanti, disegnate con linee sottili e agili, «esprimono una sorta di immensa “nostalgia” per la scultura, di desiderio indomabile per la corporeità della terza dimensione» (Pegoraro, 2012, p. 21), che Attardi cominciò a sondare proprio negli stessi anni.
Difatti, nel 1968 mise in mostra alla galleria Il Gabbiano di Roma le sue prime prove plastiche, ossia un mobile dipinto e scolpito, e i due bassorilievi Bambino malato e Addio a Che Guevara, da cui emergono profili di idoli a metà tra il primitivismo di Gauguin e quello di Picasso, trattati con «modellato sommario e pittorico» (Micacchi, 1971, p. 132), e cominciò a lavorare al gruppo ligneo L’Arrivo di Pizarro, completato nel 1971.
Con Cortés e la bellezza dell’Occidente (1974-76) e Vuelta de Cristóbal Colón (1974-80), anch’essi scolpiti in legno, l’artista sostanziò nell’epopea sanguinaria dei conquistadores l’«archetipo della violenza occidentale» (Troisi, 2011, p. 29), plasmando vittime e carnefici con una politezza che è insieme classica e arcaica, ellenistica e primitiva, minata da inaspettate deformazioni o mutazioni, specchio esteriore della corruzione interiore.
Gli anni Settanta si aprirono per Attardi con un’antologica, allestita nel 1971 a Camaiore, seguita a distanza da altre due, nel 1976 a Ferrara presso il palazzo dei Diamanti e nel 1981 a Milano presso la rotonda della Besana; furono inframmezzati dai viaggi in Africa (1973) e in Cina (1978), e dall’invito ad esporre alla retrospettiva su Forma 1, organizzata nel palazzo del Popolo di Todi nel 1976, e, come scultore, alla Biennale di Venezia del 1978; ma furono segnati anche dal dolore per la morte, nel 1977, del fratello Libero.
Tra le esperienze composite degli anni settanta, quella africana ebbe eco immediata e duratura nella sua produzione: Veneri esotiche e regali, forgiate con manieristica finitura, fuoriescono dal bronzo – si vedano Melba (1975; Ragghianti, 1976), Vicki Taguba (1978; U. A., 1985), Col fiore e con la scimmia (1979; ibid.) – e dal legno – come l’altera Donna cantante (1984; ibid.) –, si riversano nude sulle tele, languidamente adagiate o addormentate in interni appena accennati o tendenti all’astratto – tra tutte Le calze azzurre (1973; Ragghianti, 1976), La chiara luna (1973; ibid.), La lettera rossa (1975; ibid.) e Cara, cara Lilik (1976; ibid.) –, e fanno capolino finanche nelle incisioni per i Cinque canti di Ariosto (Venezia 1976).
A partire da una personale dedicatagli dalla Foire Internationale d’Art Contemporain di Parigi nel 1982, si susseguirono in Francia iniziative che lo videro protagonista per un biennio, giacché nel 1982 Philippe Soupault gli affidò le illustrazioni del suo romanzo surrealista pubblicato nel 1928, Les dernières nuit de Paris; l’anno successivo il Centre Pompidou inscenò una manifestazione e un balletto ispirati alle sue sculture, e la galleria Faris ospitò una sua mostra, mentre egli era impegnato nella realizzazione dei costumi e delle scenografie per l’Opéra triangulaire di Henry Guédon e, per il bicentenario della nascita di Stendhal, nella creazione di quaranta tavole illustranti i racconti di Cronache italiane e le memorie di Passeggiate romane.
Dalla metà degli anni Ottanta, Attardi attese alla lavorazione di monumenti di destinazione pubblica, quali i bassorilievi Per la libertà (1986) – commissionatogli per il quarantennale della Repubblica italiana e installato a Roma presso la sede centrale della Uil (Unione italiana del lavoro) – e I sogni del re normanno (1992) – per l’aerostazione di Palermo – e i gruppi scultorei Il vascello della Rivoluzione (1988-89) – omaggio italiano al bicentenario della Rivoluzione francese, esposto prima a Roma e poi a Parigi, e successivamente collocato presso il palazzo dello Sport di Roma – e En las Americas (1992) – opera commemorativa della scoperta dell’America destinata a Buenos Aires.
Se questi ultimi condividono con la plastica del ciclo dei conquistadores il modellato, i bassorilievi, con l’installazione ambientale Dormiva nella mia stanza (1984), ripropongono elementi figurativi della pittura coeva, espressione di un «realismo visionario» (Pegoraro, 2012, p. 21): la lampada che illumina Per la libertà, quasi una citazione da Guernica di Picasso, e i volti-maschera de I sogni del re normanno si ritrovano nelle tele John Hawkins (1983; Troisi, 2011), Annunciazione in un cielo di lavagna (1991; ibid.), Dormiva sdraiata e la mia ombra rozza (1991; ibid.) e Mendicante implora regina africana (1993; Pegoraro, 2012), e in diverse tempere del ciclo Amori e predonie (1982-85; U. A.,1985), così come il nudo di spalle di Dormiva nella mia stanza sembra essere una trasposizione nel legno delle donne dipinte, attorniate dalle ombre dei loro tormenti notturni o dai fantasmi della violenza che potrebbe abbattersi su di loro.
Dal 1985, anno della mostra antologica a palazzo Barberini a Roma, al 1992, data del suo viaggio a Buenos Aires e L’Avana, partecipò alle Quadriennali di Roma del 1986 e del 1992, e a una nuova retrospettiva su Forma 1, nel 1987, presso il Mathildehöhe di Darmstadt; presentò i suoi gioielli, nel 1991, alla galleria Spazio 3 di Roma, intanto che a Perugia si esponevano i suoi disegni presso il palazzo della Penna; e infine realizzò le illustrazioni per le Poesie di Emily Dickinson (Roma 1992).
Nei soggetti pittorici degli ultimi anni trovarono posto i ricordi sedimentati in occasione di mostre e viaggi: si possono menzionare, a tal proposito, le tele Yo tambien soy medio pierna (1993; Troisi, 2011 ), Ricordo di Buenos Aires (1998; ibid.) e Y cominciò la fiesta (1998; Pegoraro, 2012), in cui la stessa coppia di ballerini di tango, come sottoposta a dissolvenze cinematografiche incrociate, si muove simultaneamente su quinte dai colori accesi, ma anche Alba a New York (1998; Troisi, 2011), dipinta dopo un proficuo quinquennio di promozione della sua opera negli Stati Uniti.
Nel 1993, infatti, i materiali preparatori per il gruppo scultoreo En las Americas furono ospitati in mostra a Washington DC, e nel 1995 alcune sue opere furono allestiste presso il John F. Kennedy International Airport di New York; contestualmente, ancora a New York, la galleria Spazio Italia, che l’anno precedente lo aveva invitato a una collettiva, inaugurò una sua personale. Il lustro americano fu completato, nel 1997, con la collocazione nel Battery Park di New York del bronzo monumentale Ulisse (1996), vigorosa e barocca figura di eroe della conoscenza, celata dall’elmo-maschera e intenta a indicare la rotta.
L’ultima presenza di Attardi in America si registrò nel 2000, quando a Buenos Aires gli fu tributata un’antologica presso il centro Borges e a Cordoba fu organizzata una sua personale presso la galleria Pavillon.
Intanto, in Italia, dove le sue opere circolavano in collettive e personali – tra le più rilevanti, l’antologica di Palermo del 1994, presso l’albergo dei Poveri, e quella di Trapani del 1997, presso palazzo Milo, riservata alla sola produzione grafica –, ricevé nel 1996 il premio Fimis Una vita per l’arte, istituito dal Comune di Isola delle Femmine, e nel 1999 il premio Michelangelo, attribuitogli dall’Accademia dei virtuosi del Pantheon.
A seguito dell’installazione, nel 1998, di una seconda statua di Ulisse presso palazzo Valentini a Roma, continuò a prediligere i temi del mito e i soggetti tratti dalla letteratura, come dimostrano la serie di tavole, disegni e incisioni raffiguranti gli episodi narrati nell’Odissea (1999-2001; Pegoraro, 2012), e le illustrazioni per l’Eneide (Bologna 2003) e il Don Chisciotte della Mancha (Roma 2000), ma non perse mai interesse e empatia nei confronti di eventi e personaggi a lui contemporanei, fissati su tele come Palinuro a New York (2001; Pegoraro, 2012), personale contributo all’attentato alle Twin Towers di New York, o Predicazioni tra immagini irriverenti (2001; ibid.), ritraente papa Giovanni Paolo II piegato dalla sofferenza. Allo stesso papa donò, nel 2002, la scultura monumentale Il Cristo, entrata a far parte della collezione di arte contemporanea dei Musei Vaticani.
Mentre a Palermo era visitabile una sua retrospettiva promossa dall’Assemblea regionale siciliana e dalla Fondazione Federico II, che seguiva una monografica del 2001 curata dall’Archivio Ugo Attardi presso la Ulisse Gallery di Roma, scolpì la sua ultima opera, il bronzo Enea (2003), forgiato in occasione dell’entrata di Malta nell’Unione Europea e, nel 2004, collocato nel porto de La Valletta.
Come riconoscimenti per la sua significativa carriera, la presidenza della Repubblica gli assegnò nel 2002 la medaglia d’oro per l’alto valore artistico del suo operato e nel 2006 il titolo di Grande ufficiale della Repubblica.
Morì a Roma nella notte del 20 luglio 2006.
Per le vicende biografiche di Attardi si fa riferimento a una ricostruzione fornita a chi scrive dall’Archivio Ugo Attardi di Roma, nonché ad una testimonianza rilasciata dal figlio Andrea nel settembre 2015. Tra i contributi principali sulla sua produzione, si segnalano i volumi pubblicati a seguito della prima monografia dedicatagli, D. Micacchi, U. A., Roma 1971: C.L. Ragghianti, A.: scultura, pittura, incisione, Roma 1976; Forma 1 (Roma 1946-49) (catal., Todi), Venezia 1976; U. A. (catal., Ferrara), Venezia 1976; F. Bellonzi, A., Roma 1980; M. De Micheli, U. A. (catal.), Milano 1981; R. Soupault - M. Bealu, A. Le sculture, Roma 1981; U. A.: sculptures, peintures, dessins (catal., Parigi), con testi di M. Bealu - L. Sciascia, Roma 1983; U. A.: mostra antologica (catal.), a cura di B. Brizzi, Roma 1985 (F. Ulivi, A. l’enigma e la passione della vita, ibid., pp. 5-16; M. Riposati, Biografia, ibid., pp. 95 s.); U. A.: amori e predonie: disegni e incisioni 1952-1991 (catal., Perugia), a cura di M. Bertin - G. Proietti, Viterbo 1991; Avventura e amori cercando: U. A., opere 1946-1994 (catal.), a cura di M. Bertin, Palermo 1994; U. A.: Love and irreverence (catal.), New York 1995; Arte in lotta… (catal., Rimini), a cura di L. Martini, Roma 1996; L’Elegia di Ulisse: un’opera di U. A., a cura di R. Campa, Roma 1997; U. A. La forma e lo specchio, opere 1948-2000 (catal., Buenos Aires), a cura di E. Sabato - W. Mauro - C. Strinati, Bologna 2000; Gli argenti di A. e Vespignani (catal.), a cura di L. Vinca Masini, Roma 2000; U. A.: “… del bianco e del nero” (catal.), a cura di G. Ciccarelli, Roma 2001; Forma 1 et ses artistes… (catal., Liegi), Roma 2003; Il Pro e il Contro: una situazione dell’arte italiana negli anni Sessanta (catal.), Roma 2003 (E. Calabria, Sul filo della memoria, ibid., pp. 8 s.; S. Troisi, Il Pro e il Contro, ibid., pp. 10-24); U. A.: opere 1947-2003 (catal.), Palermo 2003; Il miele delle ore: A., Dorazio, Gjokaj, Matta (catal.), a cura di C. e G. Ciccarelli, Roma 2005; U. A. L’avventura artistica di un cavaliere antico, a cura di M. Tonelli, Roma 2007; U. A.: mostra antologica (catal.), a cura di A. Masi, San Gemini 2008; U. A. L’erede selvaggio. Opere 1944-2001 (catal., Marsala), a cura di S. Troisi, Cinisello Balsamo 2011; U. A: Il viaggio di Ulisse (catal., Latina), a cura di S. Pegoraro, Cinisello Balsamo 2012 (con bibl.).