BASSI, Ugo (Giuseppe)
Nacque a Cento (Ferrara) il 12 ag. 1801 da Luigi, impiegato d'ordine nelle dogane, e da Felicita Rossetti. Fu battezzato col nome di Giuseppe, che egli poi, in omaggio al Foscolo, suo poeta prediletto, mutò in quello di Ugo. Fece a Bologna, dove si era trasferito con la famiglia. ancora bambino, i suoi studi, presso gli scolopi prima, nel collegio barnabitico poi.
Risale a questo periodo l'episodio - non si sa fino a che punto fondato - del suo tentativo di arruolarsi nel 1815 nell'esercito di Murat. I biografi vi hanno insistito, vedendovi una prima testimonianza del suo sentimento patriottico, maturato nel clima napoleonico. Ancor più a lungo hanno insistito su un altro episodio giovanile: quello dell'infelice amore per la giovane Annetta Bentivoglio, causa prima della decisione del B. a vestire l'abito monacale, come frutto, quindi, più di una momentanea esaltazione che di una autentica vocazione religiosa.
Accolto nel 1819 nella Congregazione dei chierici regolari di S. Paolo, a Bologna, il B. fece il noviziato in parte a Napoli, in parte a Roma, dove nel 1821 pronunciò i voti. Dopo un breve periodo trascorso a Bologna per rimettersi in salute, dato che era soggetto a frequenti malori, nel 1822 fu ma. ndato a insegnare retorica a Napoli. L'anno successivo stu-, diò filosofia e teologia a Roma, dove fu ordinato sacerdote nel 1825. Fu quindi nuovamente destinato a Napoli.
Qui egli si fece presto notare per esuberanza di carattere e spirito di ribellione. Le sue inquietudini sembrarono trovar momentaneo sfogo nella musica: compose anche una Messa.I suoi superiori, forse per fornirgli un più adatto terreno di azione, lo avviarono all'arte oratoria, cui il B., fornito di genuine doti di parlatore e di improvvisatore, si dedicò con particolare passione.
La sua predicazione non si distingueva per profondità di dottrina né per originalità di temi, ma piacevano agli uditori la vivezza delle immagini, la passionalità del tono, la teatralità del gesto.
Nel 1833 il B. venne assegnato al collegio barnabitico di Alessandria, dove risiedeva A. Gavazzi, con cui egli strinse ufta grande amicizia, fondata in parte su viva anu-nirazione, in parte su gelosa emulazione. Ad Alessandria suscitò i prirni allarmi delle autorità govemative, particolarmente vigili dopo la scoperta della Giovine Italia, per certi spunti delle sue prediche che potevano prestarsi a interpretazioni politiche. Sparsasi intanto la sua fama, nel 1834 il B. predicò a Torino, nell'anno successivo a Bologna, nel 1836 a Cesena. Fu poi chiamato come quaresimalista all'Olivella di Palermo, uno dei pergami più difficili e più ambiti: trovò in Sicilia consensi entusiastici e critiche anche calunniose; vi ebbe però modo di manifestare gli aspetti più positivi della sua irrequieta natura, dedicandosi generosamente alla cura dei colerosi. Nel 1838 predicò a Milano, l'anno seguente a Genova, accompagnato da una notorietà che non riguardava ormai soltanto le sue capacità oratorie, ma anche le sue tendenze politiche.
Fin dal 1835 il B., uscito in S. Petronio m una violenta invettiva contro l'"iniqua Roma, avara metropoli, sentina di vizi", aveva suscitato i sospetti del card. Spinola, che, non soddisfatto della giustificazione fornita dal frate, di essersi voluto riferire solo alla Roma idolatra, aveva avvertito la Segreteria di Stato che le espressioni erano identiche a quelle usate "al tempo dell'ultima rivoluzione". Il B., che pur aveva cercato di rimediare, inveendo in altre prediche contro coloro che non avevano, religione, dando così l'impressione di voler colpire questa volta i liberali, fu chiamato a Roma a discolparsi. Nuovamente nel 1836sconfinò dal campo strettamente religioso per esaltare Napoleone, e, nel 1837, a Palermo, i suoi richiami alla purezza della vita dei primi tempi cristiani e all'applicazione totale dei principi evangelici sembrarono malamente velare un intento politico, una visione di rinnovamento della società civile. A Milano, nonostante le ammonizioni del card. Gaysruck, che, preoccupato soprattutto per motivi religiosi, gli aveva imposto di sfrondare la sua oratoria dalla inutile teatralità, aveva fatto riferimenti a Voltaire, Rousseau, Lamartine, malgraditi dalle autorità austriache, che cercarono poi sempre di impedire il suo ritorno nel Lombardo Veneto. Uguale decisione presero le. autorità sarde dopo le prediche a Genova.
Agli allarmi dei conservatori si opponevano i consensi dei liberali, soprattutto dei giovani. A Genova in particolare l'entusiasmo era stato grande: lo descrisse Maria Mazzini in una interessante lettera al figlio, in cui sottolineava anche l'ostilità per il B. dei gesuiti e della Lega cattolica, che accusavano il frate di Voler far rivivere lo 'spirito della Giovine Italia. Ma è in questa lettera e nella risposta di Mazzini che si coglie anche l'eco di un dubbio e di una perplessità: "Vorrei sentire una di queste prediche per giudicare se vi è fondo, o se non è che una bizzarria" (Scritti editi e inediti, XV, p. 431). Non era - e non è - facile precisare, infatti, quanto negli entusiasmi e nei timori suscitati potesse essere frutto di esagerazioni o forzature di interpretazione, da parte sia dei liberali sia dei conservatori. Il B. coglieva e faceva riecheggiare problemi e motivi di un mondo ribere, inquieto e agitato, , a cui si sentiva fondamentalmente vicino, ma continuava nello stesso tempo a mostrarsi cauto e prudente verso le direttive delle autorità ecclesiastiche.
Le successive tappe della predicazione portarono il B. a Piacenza, a Parma (dove conobbe il Giordani), a Cento e, alla fine di ottobre 1839, a Roma, dove ebbe occasione di rendersi conto dell'ostilità che maturava in molti ambienti nei suoi confronti. La diffusa diceria che egli fosse massone era stata accolta dallo stesso segretario di Stato, il barnabita Lambruschini, e a stento i superiori dell'Ordine riuscirono a scagionarlo.
Tornato nel marzo del 1840 a Bologna, il B. dette origine, nonostante l'intromissione del card. Opizzoni, a nuovi incidenti, che provocarono l'intervento della polizia, e a nuove polemiche. Non potevano non spiacere alle autorità religiose alcuni temi costanti delle sue prediche: la denuncia della corruzione del clero, la critica der'operato della corte romana, la polemica contro i gesuiti. A Parma un attacco del B. agli educatori, che coinvolgeva alcuni insegnanti locali, gli valse la proibizione da parte del vescovo di predicare nella diocesi. A Perugia, poi, lo raggiunse, il 21 maggio 1840, il divieto di predicare negli Stati pontifici e l'obbligo di trasferirsi nel collegio barnabitico di S. Severino Marche.
Il card. Lambruschini, dopo uno scambio di lettere col card. Macchi, aveva fatto emanare da Gregorio XVI il grave provvedimento. Le accuse erano di natura disciplii nare, non riguardanti il dogma o manifesti errori di dottrina; si rimproverava al B. soprattutto il disordine nell'oratoria, per cui era bene che egli si applicasse allo studio, per raggiungere quella "sodezza" che gli mancava. In realtà il provvedimento intendeva colpire soprattutto il perturbatore dell'ordine pubblico. Non mancò a Roma chi trovò eccessive le misure prese contro il frate e lo stesso capitolo della Congregazione si pronunciò in suo favore.
Mal sopportando la relegazione, il B. meditava di dare alle stampe il quaresimale di Bologna, ma ne venne sconsigliato dai suoi Auperiori. Ad una crisi spirituale, in seguito alla quale meditò per un momento di lasciare l'Ordine, si aggiunse un grave deperimento organico Venne pertanto autorizzato a lasciare S. Severino con l'impegno a non rientrare negli Stati pontifici: dopo un breve soggiorno a Livomo, si stabilì a Napoli, dove rimase, per quattro anni sotto la protezione del card. Caracciolo, dedicandosi prevalentemente all'attività letteraria.
Già in passato egli aveva scritto cantiche di imitazione montiana, inni, sonetti, qualche operetta di carattere sacro, dati alle stampe con il nome nobilitato di Ugo de Bassi. Uno pseudonimo, Ugo Selvaggio, usò invece nel 1838 pubblicando a Bologna l'Ugo da Esti, tragedia profana, nella quale riecheggiano spunti patriottici, vaghi e piuttosto retorici, comuni alla produzione letteraria minore del Risorgimento. Con altri pseudonimi (Senzaterra e Ugo Plangeneto) pubblicò negli anni seguenti poesie, poemi' opere ascetiche. Da ricordare, nella sua vasta produzione, la Buona Novella (Napoli 1843).
Nel 1841 il B. ottenne di poter predicare nelle chiese barnabitiche; nel 1844 poté di nuovo, a Trapani, parlare in pubblico. Mutata per lui l'atmosfera a Napoli per la morte del Caracciolo, restò due anni in Sicilia. Nel luglio del '46, recatosi per gli esercizi spirituali a Livorno, chiese di poter trascorrere qualche giorno a Bologna, e nella sua città arrivò nel momento culminante dell'euforia per l'elezione di Pio IX e la concessione dell'amnistia.
Il B., che si considerava un perseguitato del precedente govemo, partecipò con entusiasmo a diverse manifestazioni e scrisse versi inneggianti al pontefice, provocando la reazione dei superiori, che nel settembre gli ordinarono di abbandonare Bologna. Nuovamente paventando la relegazione a S. Severino, egli ritenne opportuno obbedire e si recò a Parma e poi nello Stato sabaudo, dove vagò alcuni mesi tra Alessandria, Genova e la Riviera, ospite per lo più di famiglie patrizie, con la speranza di ottenere dal suo Ordine l'autorizzazione a stabilirsi in Piemonte.
Riuscì ad ottenere un'udienza da Carlo Alberto - sovrano da lui esaltato in varie poesie - con l'intento forse di rafforzare la sua posizione nella Congregazione barnabitica. Al principio del '47, invece, ricevette l'ingiunzione di recarsi in Sicilia: tutto il resto d'Italia sembrava essergli precluso, e non solo dalle autorità religiose, ma anche da quelle politiche. In Sicilia, dove egli si fermò poco più di un mese, conducendo vita di stenti in varie località, sollevò i sospetti della polizia borbonica, che sembra vedesse in lui un agente segreto, avente l'incarico di esplorare l'animo dei Siciliani per preparare il terreno a movimenti rivoluzionari. Sempre tormentato dalla minaccia della relegazione, il B. maturava intanto la decisione di chiedere un'udienza a Pio IX, il quale aveva in quel periodo chiamato a Roma il Gavazzi. Il colloquio, avvenuto il 6 luglio 1847, venne da lui rievocato con entusiastica ammirazione e quasi certamente con eccessiva fantasia. Risultato pratico dell'udienza fu l'autorizzazione a tornare a predicare negli Stati pontifici.
Nel '48, mentre l'incendio rivoluzionario dilagava per tutta l'Europa, il B., durante il quaresimale ad Ancona, tenne prediche ìnfiammate di amor patrio e di esaltazione dell'"angelico" pontefice che aveva benedetto l'Italia. "Fui sempre liberale evangelico, come non lo sarei ora?" affermava in una sua lettera. I fatti di Lombardia gli ispirarono alcune odi. L'esempio dei confratello Gavazzi lo spinse all'azione. Quando le truppe pontificie passarono da Ancona non esitò a seguirle, interrompendo il quaresimale, convinto di eseguire il suo dovere e il desiderio del pontefice. Egli cercò di giustificare questo suo nuovo atto di indisciplina nei confronti dei superiori, sostenendo di non voler lasciare solo il Gavazzi, di cui era necessario temperare l'irruenza e la violenza del linguaggio.
Sembra che da questo momento la Congregazione dei barnabiti si disinteressasse totalmente di lui. Qualche mese dopo, in luglio, il generale ottenne dal pontefice la secolarizzazione del Gavazzi e dei B., il quale non dovette essere informato ufficialmente del grave provvedimento se fino all'ultimo continuò a considerarsi barnabita e a chiedere l'assistenza spirituale dei confratelli.
Da Ancona, con i volontari, attraverso Senigallia, Rimini, Cesena, Faenza, ovunque predicando e raccogliendo fondi per la causa italiana, il B. giunse a Bologna, in un'atmosfera di esaltazione per le notizie delle prime vittorie piemontesi. Dalla tribuna eretta sulla gradinata di S. Petronio pronunciò numerosi discorsi, tra i quali particolare entusiasmo suscitò quello del 25 aprile. Motivo ricorrente in queste prediche era la necessità di promuovere la concordia e l'amore fra i cittadini e l'unione tra clero e laicato, fra religione e libertà.
Giunta a Bologna la notizia dell'allocuzione del 29 aprile, il cardinal legato Amat, preoccupato della eventuale reazione dei volontari pontifìci, chiese al B. di svolgere opera di pacificazione degli animi. E questi, difendendo in S. Petronio, con abile oratoria, la figura di Pio IX, caduto - affermava - in un inganno di cardinali e gesuiti, ma degno ancora di piena fiducia, riuscì a placare gli animi. Ma la giustificazione da lui addotta era a lungo insostenibile: egli stesso uscì dall'equivoco, interruppe la predicazione, si diresse verso i campi di battaglia e a Venezia attaccò pubblicamente il papa. Conobbe Manin e Tommaseo: stima e amicizia lo legarono al primo; una profonda, umana incomprensione invece lo divise dal secondo, il quale criticava aspramente le sue esuberanze verbali. Il barnabita raggiunse il luogo d'operazioni, venne ferito nella battaglia di Treviso, tornò a Venezia dove si dette a multiforme attività: scrisse poesie e articoli, visitò ospedali, fece udire dovunque la sua parola tesa ad infiammare gli animi per la causa dell'indipendenza.
Gli avvenimenti intanto mutavano profondamente le sue idee. Tramontate le illusioni in Carlo Alberto e in Pio IX, crollato il mito del papa liberale e del sovrano spada d'Italia, si faceva in lui strada la convinzione, convalidata dall'esempio di Venezia, che l'unica possibilità di far trionfare la causa italiana fosse la proclamazione della repubblica, espressione della volontà popolare. Daniele Manin divenne allora il suo ideale.
Al seguito del generale Pepe il B. prese parte alla sortita di Mestre e all'assalto di palazzo Bianchini. Quando le truppe pontificie ricevettero l'ordine di rimpatriare, le seguì nel viaggio (a Ravenna, sulla tomba di Dante, pronunciò una dura orazione contro i traditori) fino a Bologna, dove tenne vari discorsi di propaganda patriottica (particolarmente violento quello contro la politica papale pronunciato verso la fine dell'anno al Circolo popolare). Sempre a Bologna, nel gennaio del '49, egli pubblicò due scritti: A Pio IX, parole di U. B. dei crociati del 1848 e Della scomunica e più altre cose de' tempi nostri, dialogo di U. B., tendenti a galvanizzare l'opinione pubblica per l'elezione dei deputati alla Costituente romana e a neutralizzare l'impressione negativa che era stata prodotta dalla scomunica.
Arrivata la notizia della proclamazione della Repubblica, il B. si recò a Roma, dove s'incontrò con Galletti, Ferrari, Gavazzi e, sembra, Mazzini. Scrisse un indirizzo a Pio IX contro la richiesta pontificia dell'intervento armato e tenne numerose prediche, astenendosi però da quelle manifestazioni di acceso anticlericalismo che erano proprie del Gavazzi e che suscitavano lo sdegno dei romani. In aprile venne designato cappellano della legione garibaldina. E Garibaldi divenne allora il suo ultimo idolo: "Questo è l'eroe, cui cercando andava l'anima mia" (lettera del 24 aprile, v. Beseghi, II, p. 67). E l'eroe egli seguì nei combattimenti di Palestrina, Velletri, Roccasecca, dove venne ferito a un piede, e sul Gianicolo. Fino alla resa di Roma, rimase in prima fila, prestando assistenza religiosa ai combattenti. Il 2 luglio pronunciò l'ultimo discorso: celebrando in S. Lorenzo in Lucina l'elogio funebre per la morte di Luciano Manara, ebbe parole dure contro gli artefici della caduta della Repubblica.
Seguì poi Garibaldi nella ritirata, allontanandosi da lui, insieme col capitano Livraghi, solo dopo lo sbarco a Magnavacca. A Comacchio fu arrestato dai carabinieri pontifici, condotto al comando austriaco e quindi chiuso nelle carceri governative. Fu poi trasferito con scorta militare a Bologna, trattenuto a villa Spada, quartier generale austriaco; quindi, dopo essere stato sottoposto - sembra - ad un formale interrogatorio, fu tradotto alle carceri della Carità. Il giorno successivo il generale austriaco Gorzkowski firmava la sentenza di morte, forse per prevenire le autorità ecclesiastiche e metterle di fronte al fatto compiuto.
L'atteggiamento di queste ultime nei confronti dell'arresto e della condanna del B. suscitò discussioni: alcuni biografi affermano che sia mons. Bedini, commissario straordinario per le Legazioni, sia il card. Opizzoni fossero consenzienti, mentre altri sostengono che essi furono tenuti all'oscuro di tutto e ne furono informati a cose avvenute. Sembra invece ormai provato che l'unico tentativo fatto per sottrarre il B. alle autorità austriache sia stato quello di mons. Feletti, vicario di Comacchio, che tentò inutilmente di difenderne l'immunità sacerdotale.
L'8 agosto, senza aver ottenuto viatico, che aveva richiesto, e dopo aver ritrattato quanto avesse potuto dire o fare contro la religione, il B. subì l'esecuzione ai piedi del colle della Guardia. Il suo martirio ebbe immediate, pubbliche ripercussioni e la sua tomba divenne meta di pellegrinaggio. Su di lui si formò presto il mito, che dette origine a una vastissima letteratura di carattere patriottico.
Fonti e Bibl.: Gli scritti del B. furono pubbl. a Genova nel 1864 con il titolo Opere sacre e religiose. Una parte delle sue carte, tra le quali le prediche, è conservata a Roma, Museo Centrale del Risorgimento. Documenti che riguardano il B. si trovano nei vari archivi dei conventi barnabitici (in particolare gli Atti della Congregazione barnabitica in S. Carlo de' Catinari a Roma), nell'Archivio Vaticano (Segreteria di Stato e Legazione di Bologna), nell'Archivio arcivescovile e nell'Archivio di Stato di Bologna. Vedi anche Indici dell'Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, I, Roma 1947. Numerosissime le citazioni e i ricordi nelle opere dei contemporanei (cfr. per tutte E. Bottrigari, Cronaca di Bologna, voll. 4, a cura di A. Berselli, Bologna 1960-1962). La bibliografia è vastissima; la riassume fino al 1916 G. Boffito, U. B. Note bio-bibliografiche, in Atti della Accademia Pontaniana, XLVI (1916). Successivamente sono apparse le due più importanti biografie, del barnabita G. F. De Ruggiero, Il padre U. B., Roma 1936, e di U. Beseghi, U. B., 2 voll., Parma 1939-40 (con molti documenti). Tra gli studi particolari apparsi su riviste e pubblicazioni periodiche si ricordano E. Del Cerro. U. B. in Sicilia, in Riv. d'Italia, XX (1917), pp. 87-120; E. Martire, La predicazione patriottica dei barnabiti B. e Gavazzi, in Rass. stor. del Risorgimento, XXII (1935), pp. 901-924; Id., La formazione della coscienza patriottica in U. B. Il quaresimale del 1840 in S. Pietro a Bologna, ibid., XXVI (1939), pp. 531-586; Id., U. B. nella poesia popolare, in Camicia Rossa, XV (1939), pp. 27-30; G. Ferretti, U. B., in Nuova Antologia, 16 ott. 1940, estr.; R. Canestrari, A novant'anni dalla fucilazione, Padre U. B., in Cultura moderna, V (1941), pp. 9-14; L. Gessi, U. B., in Capitolium, XXIV (1949), estratto; A. Palestra, Il barnabita U. B. ed il suo Quaresimale a Milano nel 1838, in Ambrosius, XXXIX (1963), pp. 75-83, Per la predic. del B. nel quadro generale dell'oratoria sacra si v. E. Santini, L'eloquenza italiana dal Concilio tridentino ai nostri giorni. Gli oratori sacri, Milano 1923. Rapide voci in Diz. del Risorgimento Naz., II, p. 200; Enciclop. Ital., VI, p. 344; Enciclop. Cattolica, II, col. 986.