Ugo Capeto (Ciappetta)
Re dei Franchi dal 987 fino alla morte nel 996; nacque intorno al 940 da Edvige, sorella di Ottone I, e da Ugo il Grande, duca dei Franchi e di Borgogna, conte di Parigi, di Orléans e di Tours.
Il soprannome, restato al figlio, pare sia da far risalire, piuttosto che al latino cappatus, al francese chapette o capette, epiteticamente interpretabile " dalla piccola cappa ". La fortuna politica di U., che continua e sviluppa l'effettiva potenza del padre, s'inserisce e matura rapidamente nella particolare situazione dei rapporti tra il regno dei Franchi e quello degli Ottoni e nello stesso formarsi dell'ideologia del sacro Impero. Il vescovo di Reims Adalberone e il monaco Gerberto d'Aurillac, infatti, favorirono la candidatura e l'elezione di U., che era ministro di Lotario, per contrastare la politica antiottoniana dei carolingi; nel 987 quindi U., eletto re da un'assemblea di feudatari a Senlis, fu proclamato re dei Franchi a Noyon e consacrato a Reims. Nel 989 U. s'impadronì con la complicità e il tradimento di Achelin, vescovo di Laon, di Carlo duca della Bassa Lorena, erede legittimo dei carolingi, e lo tenne prigioniero a Orléans fino alla morte. Il nuovo re dei Franchi si assicurò così il potere in modo da garantire la trasmissione ereditaria al figlio Roberto, detto il Pio, ma dovette destreggiarsi nella trama delle contese ecclesiastiche. In lotta contro Arnolfo vescovo di Reims, che pure era stato un suo fedele, provocò l'intervento di papa Giovanni XV: nondimeno i suoi legami col mondo benedettino cluniacense furono così stretti da attirargli il titolo ironico di rex Hugo monacus dal vescovo di Laon, Achelin, che nel suo Rythmus satiricus del 996 lamenta lo strapotere benedettino.
La differenza profonda tra quanto D. dice di U. (Pg XX 40-60) e la verità storica non è casuale, non nasce soltanto dalla meditata e acuta animosità del poeta, ma, a sua volta, da una situazione storica e politica. Prima della Commedia, attraverso i secoli, un'immagine deformata del fondatore della dinastia entra in un giuoco di preferenze o di polemiche. Secondo la tradizione riportata da Gervais de Tilbery negli Otia imperialia composti tra il 1211 e il 1214, U. sarebbe stato investito in punto di morte dal carolingio Luigi V, del quale avrebbe sposato la vedova. In alcune miniature dei secoli XII e XIV egli appare talvolta, com'è ovvio, con la corona, talvolta con un cappuccio in testa come segno di potere illegittimo. Goffredo da Viterbo, cronista ghibellino del Duecento, nella sua Memoria saeculorum rappresenta U. di nobile stirpe, ma prepotente, intrigante, frodolento, che costringe al convento l'ultimo dei carolingi: " Tunc erat in patria dux inclitus Ugo Capitta / cuius ad arbitrium gens Gallica tota relicta " Mon. Germ. Hist. Script., XXII 226-229). In una chanson de geste scritta dopo il 1312, ma non databile con assoluta sicurezza, Huez Capez appare come figlio di un gentiluomo e gentiluomo egli stesso ma nipote, per parte di madre, di un ricco mercante di bestiame. Dopo una vita di eleganti e gentili avventure, viene eletto re con l'aiuto dei borghesi di Parigi e dello stesso zio e ottiene la mano di Maria, figlia del morto re Luigi, contrastando gl'intrighi e la potenza del conte di Champagne, accusato di avere ucciso il re. In questi due testi, che si può soltanto supporre letti da D., l'immagine di U. appare tuttavia diversa da quella del canto XX del Purgatorio. Benvenuto congettura che il poeta, " curiosissimus investigator rerum memorandarum ", essendo a Parigi per i suoi studi avrebbe scoperto " quod iste Hugo de rei veritate fuerat filius carnificis ". G. Villani contrappone alla notizia di un U. duca d'Orléans, figliuolo di Ugo il Grande e nipote di Ottone I (II 4), quella, detta " per li più ", di un U. figlio di un grande borghese di Parigi mercante di bestie (IV 4). Nel canto VI del Paradiso, nell'esaltazione del sacrosanto segno dell'aquila imperiale (vv. 1-96), di quell'Impero che ha, secondo D., il compito del governo della terra, pare quasi di sentire una consapevole contrapposizione a questa polemica storia di chi ne ha usurpato il privilegio e l'ufficio. La contrapposizione perché men paia il mal futuro e 'l fatto (Pg XX 85), che suggella l'insuperabilità del male, trova riscontro, anche di parole, in Ma ciò che 'l segno che parlar mi face / fatto avea prima e poi era fatturo (Pd VI 82-83), che glorifica l'insuperabilità del provvidenziale valore dell'Impero: né manca, in quel canto VI del Paradiso, Carlo II: Carlo novello (v. 106), invano avverso all'aquila imperiale. La figura di U. come rappresentante e giudice di una dinastia ribelle ai valori universali e pubblici dell'humana civilitas si connette alla teoria del veltro e della lupa e si richiama a If I (cfr. Pagliaro, Ulisse I 55-58) e a Pd XXXII.
L'invocazione a chi potrà allontanare dalla terra l'antica lupa ripete la posizione morale e politica della visione del proemio e della profezia. La condanna della lupa come avidità di beni terreni s'intreccia e s'identifica con quella della casa di Francia, che diversamente dall'Impero nasce non come diritto e come missione provvidenziale, ma come potenza e ricchezza sviluppando e accentuando da questa origine il male. Il termine radice rammenta la definizione tomistica della " cupiditas, radix omnium peccatorum ad similitudinem radicis arboris " (Sum. theol. I II 84 1). U. non è di povera famiglia, ma è figlio di mercante e creatore abile, sicuro e, quindi, avido di potere terreno. La terzina Mentre che la gran dota provenzale (vv. 61-63), che raccoglie e consuma due secoli di storia francese dalla morte di U. a Carlo d'Angiò nel 1245, non significa assoluzione: " pur avendo il mio sangue in sé stesso poco valore, tuttavia non faceva danno ".
Sembra ad alcuni critici come il Bonora che U. non abbia " la vitalità, che è prima di tutto coerenza verso se stesso, di un vero personaggio ". U. nella rappresentazione del XX canto del Purgatorio e nella costruzione della Commedia ha la coerenza di una funzione più che non quella di un personaggio nel senso romantico e teatrale della parola. In lui convergono elementi e momenti necessari e comuni del mondo dantesco nella stessa serie di complessi e calcolati rapporti di passaggi, di riprese e di differenze, nella distinzione e nello stacco fra l'umile intensità del pietosamente piangere e lagnarsi (v. 18) e la lunga violenza della condanna della propria stirpe. L'uso del presente e del futuro mette U. in un rapporto stretto e necessario con la storia, col giudizio politico e morale e con la giustizia di Dio volta verso il mondo. All'invocazione di una vendetta, cioè di una giustizia richiesta a Dio ma opera terrena dei comuni fiamminghi, corrisponde nella chiusura l'attesa di quella giustizia che è già compresente nella divina condanna. La duplice realtà, storica nel passato, Io fui radice (v. 43), e purgatoriale nel presente, si pone in un rapporto complesso, ma vivo, col giudizio e la rievocazione politica, e col significato e con l'accento morale e profetico della lupa e del veltro.
Circa l'identificazione storica del personaggio, sorge l'ambiguità se l'Ugo Ciappetta dantesco sia veramente U. o non piuttosto il padre conte di Parigi. I versi relativi hanno riferimenti che si possono attribuire all'uno o all'altro Capeto.
Chi parla a D. è chiaramente l'iniziatore della dinastia: di me son nati i Filippi e i Luigi / per cui novellamente è Francia retta (Pg XX 50-51), e inoltre asserisce che a la corona vedova promossa / la testa di mio figlio fu, dal quale / cominciar di costor le sacrate ossa (vv. 58-60); ciò, quindi, porterebbe a pensare che si tratti di U. conte di Parigi, il quale distinguerebbe tra il potere effettivo, ma ottenuto per forza di circostanze, esercitato da lui, e il potere riconosciuto ufficialmente e consacrato che fu proprio dei suoi discendenti. In tal modo è orientata l'interpretazione, largamente seguita, del Vellutello. Ma sorge subito un'ambiguità cronologica; infatti il personaggio, ricostruendo la sua presa di potere, racconta che quando li regi antichi venner meno... (vv. 52-56), e questo non si attaglia più a Ugo il Grande, morto (956) quando ancora erano in vita e sul trono sia Lotario che Luigi V, bensì al figlio U. che regnò dopo la morte di questi due (986-987) e imprigionò Carlo di Lorena, ultimo dei Carolingi; in questo caso i vv. 58-59 si potrebbero riferire al figlio di U., Roberto il Pio (v.), incoronato l'anno dopo l'elezione del padre. Quest'ambiguità storica ci porta a concludere che D. potrebbe aver sovrapposto i due personaggi a causa della sommaria conoscenza che aveva delle vicende dei primi Capetingi. Il poeta, mentre aveva una profonda conoscenza dei fatti e personaggi a lui contemporanei, per gli avvenimenti lontani nel tempo, e soprattutto estranei al suo ambiente, poteva essere informato approssimativamente. Ciò risulta evidente a proposito de l'un renduto in panni bigi (v. 54) che molto forzatamente si può riferire a Carlo di Lorena, mentre è un chiaro riferimento a Childerico III, ultimo dei Merovingi, fattosi monaco (752). E bisogna tener presente inoltre che D., nel presentare il suo personaggio, si riferisce a una leggenda relativa a U. (Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi, v. 52), e questo dovrebbe annullare qualsiasi dubbio sorgesse in sede storica. Inoltre questa approssimazione nel descrivere il personaggio si spiega anche con lo scarso interesse che questi presentava per D.; infatti U., pur essendo protagonista di gran parte di un canto (vv. 40-124), è un mezzo escogitato dal poeta per illustrare il crescendo di soprusi compiuti dalla dinastia capetingia fino a giungere al culmine della sua degradazione con Filippo il Bello, Carlo di Valois e gli Angioini di Napoli. Significativo è il fatto che in questo quadro così negativo dei Capetingi non ci sia posto per quei suoi membri che la potevano illustrare positivamente, vale a dire s. Luigi IX e s. Ludovico d'Angiò, pur quasi contemporanei di Dante. È infine da notare che U. è posto fra gli avari non per una documentabile partecipazione al peccato - anche la sua presa di potere infatti è vista come risultato di circostanze non orchestrate da lui e i cui frutti furono goduti dai suoi discendenti - ma proprio perché la colpa era connaturata nella sua stirpe, spinta sempre nel suo agire dal desiderio di rapina: quindi U. paga la pena per i suoi successori.
Bibl. - Per la storia di U. si vedano: F. Lot, Les derniers Carolingiens, Parigi 1891; ID., Études sur le règne de Hugues Capet et la fin du Xe siècle, ibid. 1903; G. Walter-E. Pognon, Hugues Capet roi de France, ibid. 1966 (del quale ci siamo particolarmente valsi e che riporta in appendice, oltre a cronache e documenti, ampi estratti della chanson de geste su U., pubblicata integralmente in Anciens poètes de la France, VIII, Parigi 1864).
Per la leggenda, oltre alle opere citate, si vedano: A. Farinelli, D. e la Francia, I, Milano 1908, 57-60 e passim. Sul rapporto tra il canto dantesco, la storia e la leggenda sono fondamentali: N. Zingarelli, Il c. XX del Purgatorio, Firenze 1902, e soprattutto P. Rajna, Hugues Capet dans la Divine Comédie, in " Nouvelle Revue d'Italie " XXI (1924) 317-330 (rist. nel testo originario italiano in " Studi d. " XXXVII [1960] 5-20). Per l'interpretazione del canto si vedano tra le ‛ lecturae ' quelle di C. Varese (1957), in La D.C. nella critica, a c. di A. Pagliaro, II, Messina-Firenze 1966, 310-316; E. Bonora, in Lett. dant. 1063-1083; G. Grana, Roma 1961; F. Ulivi (1963), in Lect. Scaligera II 761-785; R. Scrivano, L'orazione politica di U.C., in " L'Alighieri " II (1971) 13-34.