UGO di Provenza, re d'Italia
UGO di Provenza, re d’Italia. – Nacque intorno all’880-881 da Berta (figlia di re Lotario II di Lotaringia e di Waldrada) e da Tebaldo, aristocratico appartenente alla parentela definita dei Bosonidi dalla storiografia.
Il matrimonio tra Berta (nata nell’860 circa) e Tebaldo, avvenuto alla fine degli anni Settanta, fu parte dell’alleanza che unì i discendenti superstiti di Lotario I intorno ai Bosonidi, nel tentativo di mantenere il controllo di quella che era stata la Francia Media (l’unione cioè della Lotaringia vera e propria con la Borgogna, la Provenza e l’Italia) contro gli altri Carolingi. Esso costituì al contempo un atto di pacificazione tra gruppi dell’aristocrazia che si erano combattuti aspramente nel decennio precedente per il tentativo di Lotario II di ripudiare la moglie Teutberga, una Bosonide, e legittimare così i figli avuti da Waldrada.
A Ugo fu imposto il nome dello zio materno, Ugo d’Alsazia, che era anche senior del padre Tebaldo. Infante, egli seguì i genitori Tebaldo e Berta in Provenza, dove essi si rifugiarono presso il cugino Bosone, re dall’879, dopo il fallimento del tentativo di imporre Ugo d’Alsazia sulla Lotaringia. Rimase Oltralpe, alla corte di Bosone e poi (dall’887) di suo figlio Ludovico III, anche dopo che – morto Tebaldo (che fu conte di Arles) nell’887 circa – Berta si spostò in Italia (890 circa), dove sposò il marchese di Toscana Adalberto II, detto il Ricco.
È possibile che l’Hugo comes presente a un placito dell’890 a favore dell’abate Bernone di Gigny (il futuro abate fondatore di Cluny) sia da identificare con Ugo. La sua prima attestazione certa è tuttavia dell’899, quando fu presente in qualità di conte all’elezione dell’arcivescovo Ragenfredo di Vienne; nulla si sa di una sua eventuale partecipazione alla spedizione di Ludovico III in Italia (901), quando questi fu incoronato imperatore grazie anche al ruolo politico di Berta in Toscana.
Nel 902 Ugo era in Provenza, ove appare come intercessore in un diploma in cui Ludovico III lo definisce illustris comes nosterque propinquus. Vi rimase anche in occasione della seconda spedizione in Italia di Ludovico III, quando l’imperatore fu catturato e accecato dai sostenitori di Berengario I a Verona; ricompare infatti solo nel primo documento rilasciato dall’imperatore ormai cieco al suo ritorno dall’Italia (ottobre 905).
Il potere e il ruolo politico di Ugo appaiono da questo momento in costante crescita, conducendolo progressivamente a una posizione di ‘plenipotenziario’ di Ludovico III. Nel 912 è definito per la prima volta dux et gloriosissimus comes; nello stesso anno egli sottoscrisse un placito come dux et marchio: la carica implicava una posizione seconda solo a quella del re. Nello stesso 912 un ulteriore salto di qualità: il matrimonio con Willa, vedova di Rodolfo I re di Borgogna (morto il 25 ottobre), che lo rese patrigno del nuovo re, Rodolfo II. Si trattò del primo tentativo di Ugo di ampliare la propria influenza anche a quel regno, nato in seno alla Francia Media.
Forse in questo periodo Ugo compì una prima spedizione in Italia nel tentativo di sottrarre il trono a Berengario I; la datazione di questo intervento, il cui esito fu certamente negativo, è tuttavia incerta. Secondo i Miracula sancti Apollinaris (a cura di A. Hofmeisters, 1934), nel 911-912: «Hugo inclitus marchio, qui tunc rem publicam sub Ludovico imperatore regebat, Italiam provehebatur» (p. 1345), accompagnato da vescovi e conti. Questa data – poco plausibilmente anticipata al 907-908 da René Poupardin (1901, p. 200) – resta tutto sommato la più probabile ed è forse collegabile con la ribellione antiberengariana del 913. Il De administrando imperio dell’imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito (scritto, per questa parte, tra il 945 e il 947) collocherebbe nel 923-924 una spedizione fallita, che viene narrata in modo alquanto dettagliato: Ugo, accompagnato da molte truppe, sarebbe stato sconfitto e avrebbe giurato di non rimettere piede nel regno finché Berengario I fosse in vita. Non è tuttavia chiaro se tale spedizione sia da distinguere dalla prima o se si tratti solo di un errore nella confusa cronologia della fonte bizantina. Infine, Liutprando di Cremona, nell’Antapodosis (scritta tra il 958 e il 962) accenna alla stessa spedizione datandola solo longo ex tempore prima del 925, quando Ugo, «potentissimus et sapientissimus Provincialium comes» (in Opera omnia, a cura di P. Chiesa, 1998, III, 12), fu effettivamente chiamato in Italia dai potentes: Liutprando afferma che già longo ex tempore Ugo aveva tentato di ottenere il regno e che giunto in Italia cum multis al tempo di re Berengario era stato da questo messo in fuga.
Entro il 923 Ugo rimase vedovo e sposò Alda (o Hilda), aristocratica ex Francorum genere Teutonicorum, secondo Liutprando. Al più tardi nel 922, Ugo aveva comunque già avuto un figlio, di nome Uberto, da un’altra donna, Wandelmoda, che lo stesso Liutprando definisce nobilissima, senza che questa unione fosse stata mai resa legittima. Non disponiamo di altre informazioni sulle due donne.
Nella primavera del 924 Ugo unì per breve tempo le sue forze con Rodolfo II di Borgogna (eletto nel frattempo re italico contro Berengario I) per combattere gli Ungari che, dopo aver incendiato Pavia, si erano diretti Oltralpe e li indirizzò verso la Settimania. Dopo l’assassinio di Berengario I (aprile 924) larga parte dei potenti italici si ribellò a Rodolfo II, che era rimasto padrone del campo; tra di essi vi erano i parenti di Ugo: la sorella o sorellastra Ermengarda di Ivrea e i suoi fratellastri Guido e Lamberto, marchesi di Toscana; la comune madre Berta morì tuttavia l’8 marzo 925. Nella seconda metà di quell’anno l’arcivescovo di Milano Lamperto fece pervenire a Ugo l’invito a conquistare il regno italico.
Il tentativo di resistenza di Rodolfo II fallì definitivamente nella primavera del 926 con l’uccisione del suocero Burcardo di Svevia presso Novara. Contemporaneamente Ugo sbarcò a Pisa, dove fu accolto da una delegazione di potenti e incontrò un messo di papa Giovanni X, che secondo la più tarda Chronica cassinese di Leone Marsicano (Chronica monasterii Casinensis, a cura di H. Hoffman, 1980, p. 153) sarebbe stato tra i promotori della sua chiamata. Dalla Toscana Ugo si diresse velocemente a Pavia, dove fu eletto il 6 luglio secondo la testimonianza del Catalogus regum Langobardorum et Italicorum (in MGH, Scriptores rerum langobardicarum et italicorum, 1878, p. 515), che concorda con il Catalogus regum Italicorum Oscelensis (ibid., p. 520). Non è certo se ci fu una vera e propria incoronazione – che dovrebbe essere avvenuta domenica 9 luglio, come suggerito anche dalla datazione delle carte di Lucca (Memorie e documenti per servire all’istoria del Ducato di Lucca, a cura di D. Barsocchini, 1841, reg. 1239 e 1240) – né se essa possa aver avuto luogo a Pavia, ancora devastata dopo l’incendio del 924, oppure a Milano in S. Ambrogio, come sostenne assai più tardi Galvano Fiamma (Chronicon maius, a cura di A. Ceruti, 1869, p. 578); tale chiesa ebbe, in ogni caso, un ruolo importante per la memoria regia di Ugo.
Ugo incontrò a fine luglio del 926 Giovanni X a Mantova, stringendo con lui un foedus che portò alla nomina di Pietro, fratello del papa, a duca di Spoleto e che probabilmente prevedeva accordi per una futura elezione imperiale. In effetti l’ascendenza e la prospettiva imperiale di Ugo sono testimoniate dal nome dato al primo figlio legittimo nato dopo il 926: Lotario (II, essendo il suo trisnonno omonimo I come re italico). Ugo mosse quindi verso Verona, per imporre il riconoscimento del suo regno nel caposaldo del suo predecessore Berengario I. Rientrato a Pavia emise un diploma in favore dell’importante monastero di S. Sisto di Piacenza: l’atto costituì un riconoscimento politico reciproco tra il re e la badessa Berta, figlia di Berengario I, definita gloriosissima abbatissa et consaguinea nostra, in quanto discendente in linea femminile, come Ugo, dal comune avo Ludovico il Pio, cinque generazioni avanti.
Nei diplomi di Ugo è frequente l’autorappresentazione come legittimo discendente dei Carolingi, per mezzo della madre, secondo una concezione cognatizia della parentela tipica dell’alta aristocrazia franca. Questa strategia di legittimazione, comune ad altri re di ascendenza carolingia attivi nel contesto istituzionalmente fluido dell’Italia postcarolingia, è riflessa nella genealogia di re Ugo contenuta nel De administrando imperio di Costantino VII Porfirogenito.
In questi primi mesi di regno Ugo cercò riconoscimenti e alleanze internazionali: con il re teutonico Enrico I, con l’imperatore di Bisanzio e, nel febbraio del 927, con i veneziani. Contemporaneamente, però, sorsero le prime difficoltà nei rapporti con Roma, destinate a segnare il suo regno, a causa della politica della senatrix Marozia, esponente della principale parentela aristocratica romana, che dopo la morte del primo marito, il duca di Spoleto Alberico, aveva sposato il marchese di Toscana Guido, fratellastro di Ugo. Marozia prevedeva l’assegnazione del ducato spoletino al figlio di primo letto Alberico (come il padre). L’elevazione di Pietro, fratello di Giovanni X, portò allo scontro aperto: il papa, cui fu precluso l’accesso a Roma, si asserragliò insieme con il fratello nel castrum di Orte, chiamando in soccorso contingenti di mercenari ungari (secondo Il “Chronicon” di Benedetto monaco di S. Andrea del Soratte, a cura di G. Zucchetti, 1920, pp. 159 s.), che attaccarono la Toscana. Il re intervenne militarmente, non è chiaro se per difendere la marca o per imporre il proprio volere al fratellastro Guido. Nel corso di questo passaggio in Toscana Ugo donò l’abbazia regia di S. Salvatore in Agna a Tegrimo, capostipite della parentela dei Guidi e compater del re. Si tratta del primo atto di una politica perseguita in seguito sistematicamente dal re in Toscana e in tutto il regno: legare direttamente a sé le aristocrazie locali fedeli ai marchesi, in modo da minare l’autorità marchionale. Il papa e il duca Pietro poterono nel frattempo rientrare a Roma, ma qui furono presto sorpresi da una sommossa, istigata da Guido e Marozia, nella quale il duca fu ucciso; l’anno seguente il papa stesso fu catturato, imprigionato e deposto (giugno 928).
Nel 928 Ludovico III morì a Vienne: Ugo si diresse in Provenza, dove tuttavia non tentò di imporsi come re, un’impresa probabilmente troppo rischiosa in quel momento, e si limitò a rilasciare una serie di donazioni. Tornato a Pavia riprese la politica di consolidamento del proprio potere nei confronti delle aristocrazie, imponendo la propria autorità sull’abbazia regia di Bobbio contro i potentes che ne controllavano i beni, tra cui i fratelli Guido e Raginerio, rispettivamente vescovo e conte di Piacenza.
Secondo il racconto dei Miracula sancti Columbani (composti negli anni Settanta del secolo X; a cura di A. Dubreucq - A. Zironi, 2015) il re fu informato dell’usurpazione dei beni del monastero dal nuovo abate Gerlanno, un uomo del seguito della regina Alda promosso da Ugo ad arcicancelliere del regno; il re tuttavia non poteva agire direttamente contro gli usurpatori, pena la perdita del trono stesso. Suggerì dunque a Gerlanno di trasportare le reliquie di Colombano a Pavia, dove una sorta di ordalia che si svolse sul corpo del santo (mediante la richiesta, da parte del re, di bere dopo di lui dalla coppa già di Colombano) discriminò gli usurpatori. Poco dopo il confronto il re sostituì il conte di Piacenza Raginerio con Gandolfo, figlio di un gastaldo, in seguito insignito addirittura del titolo di marchio (931).
La debolezza di Ugo nei confronti dei potentes nella fase iniziale del suo regno è descritta anche nel Polipticum di Attone di Vercelli (a cura di G. Vignodelli, 2019), che motiva con essa la necessità di Ugo di ricorrere all’elevazione nelle posizioni più importanti del regno di uomini nuovi tratti dall’aristocrazia minore, al fine di combattere le aristocrazie maggiori.
Tra l’estate del 929 e gli inizi del 931 Ugo dovette anche affrontare una congiura di palazzo, ordita da due potenti giudici regi attivi a Pavia: Walperto, padre del vescovo di Como e cognato del conte di palazzo, ed Everardo, detto Gezone, suo parente. Il re ne fu informato e riuscì, anche in questo caso, ad avere la meglio per mezzo di uno stratagemma, che ci è noto tramite Liutprando (Antapodosis, cit., III, 39-41). Dopo essersi allontanato da Pavia attirò infatti fuori delle mura i congiurati, con gli altri potentiores, per la rituale accoglienza al re (occursus); grazie al vescovo di Pavia Leone fece chiudere le porte della città alle loro spalle, riuscendo così a catturarli, con l’aiuto del conte Sansone; Walperto fu decapitato e Gezone accecato. Sansone ottenne la carica di conte palatino. In questi anni Ugo proseguì la politica di inserimento dei suoi fedeli, molti di provenienza transalpina, nei quadri del regno, come vescovi (Sigefredo – che fu anche cancelliere – a Parma e Ilduino a Verona, con la previsione di uno spostamento a Milano), duchi (il nipote Tebaldo a Spoleto, inizi del 929), conti (oltre a Gandolfo, Milone a Verona, Maginfredo a Parma e Ragimundo a Reggio). Questa paziente, ma decisa, politica di rafforzamento fu coronata da un importante successo in Toscana, quando nel 930 fece imprigionare e accecare il marchese Lamberto, suo fratellastro, che aveva preso il posto del defunto Guido, e vi collocò suo fratello Bosone, giunto allora dalla Provenza.
Secondo Liutprando Ugo temeva che gli italici avrebbero eletto Lamberto re: egli vantava una discendenza carolingia pari alla sua, in quanto figlio di Berta. Ugo avrebbe allora fatto circolare la voce che Lamberto e Guido non fossero realmente suoi fratellastri, ma che Berta di Toscana avesse simulato le loro nascite per avere degli eredi italici; la diceria sarebbe da collegare anche al progetto di matrimonio tra Ugo e Marozia, vedova di Guido, così da poter accedere, finalmente, a Roma e alla corona imperiale. Lamberto fu costretto a reagire all’affronto, offrendo così al re l’occasione per sbarazzarsene.
L’azione di rafforzamento di Ugo fu completata dall’associazione al trono del figlio Lotario II, che doveva avere al massimo cinque anni, nell’aprile del 931: un’associazione così precoce, finalizzata a garantire la successione, risponde a un modello bizantino, ripreso in seguito dagli Ottoni. La morte dell’arcivescovo di Milano Lamperto nel giugno dello stesso anno permise l’avvicendamento di Ilduino. Il suo posto a Verona fu preso da Raterio, un monaco del suo entourage, nonostante l’opposizione del re, che avrebbe voluto imporre un uomo di sua fiducia in quella sede fondamentale per il controllo dei confini nord-orientali del regno.
La parabola ascendente di Ugo sembrava ormai destinarlo a un esito imperiale quando nel 932, rimasto vedovo anche di Alda, il re giunse a Roma e sposò a Castel S. Angelo Marozia, il cui figlio era stato eletto papa l’anno precedente con il nome di Giovanni XI. Entro la fine dell’anno fu però costretto alla fuga: l’altro figlio di Marozia, Alberico, la cui posizione era fortemente minacciata dalla nuova unione, si pose alla guida della rivolta dell’aristocrazia romana ai progetti della madre, che fu imprigionata, così come papa Giovanni XI.
Rientrato a Pavia Ugo dovette sventare un nuovo pericolo per il suo trono, causato da un ulteriore invito rivolto dagli italici a Rodolfo II. Secondo Liutprando (Antapodosis, cit., III, 48), il re trattò, concedendo a Rodolfo «omnem terram quam in Gallia ante regni susceptionem tenuit».
La storicità e la portata di questo accordo è stata molto dibattuta dalla storiografia: quel che è certo è che non portò a un’automatica annessione della Provenza da parte del Regno di Borgogna. Nel Polipticum, Attone di Vercelli allude in effetti a un ‘accordo segreto’ tra Ugo e Rodolfo, che, liberandoli dalla minaccia reciproca, consentisse ai due re di contrastare le grandi aristocrazie dei rispettivi regni.
Un’altra minaccia si concretizzò però nel 934: il duca di Baviera Arnolfo discese la valle dell’Adige verso la fine dell’anno e fu accolto a Verona dal conte Milone e dal vescovo Raterio, lontano parente del duca; secondo gli Annales Iuvavenses (a cura di H. Bresslau, 1934, p. 743) lo scopo di Arnolfo era imporre suo figlio Everardo come re italico (una parentela lo legava a Berengario I). L’esercito di Ugo sconfisse i bavaresi nei pressi di Bussolengo e Arnolfo batté in ritirata. Il conte Milone riuscì a essere riammesso nella fedeltà di Ugo, quando il re entrò a Verona nel febbraio del 935: la colpa del tradimento ricadde quasi interamente su Raterio, che fu portato prigioniero a Pavia. Qui il vescovo iniziò a comporre i Praeloquia, un trattato parenetico che è al contempo un’apologia del proprio operato e un’accusa alla condotta di Ugo nei suoi confronti.
Respinta l’invasione bavarese Ugo si assicurò il controllo del quadrante orientale del regno riunendo le cattedre episcopali di Mantova, Verona e Trento nelle mani di suo nipote Manasse, già arcivescovo di Arles, posto così a presidio dell’asse che conduceva al Brennero. Il quadrante occidentale era ancora saldamente controllato dai marchesi anscarici di Ivrea, i fratellastri Berengario II e Anscario II, quest’ultimo nipote dello stesso Ugo, ed era tuttavia esposto a minacce differenti: nell’agosto dello stesso 935 una flotta fatimide, salpata dal porto tunisino di Mahdia, conquistò e distrusse Genova, traendone un ricco bottino; un’altra incursione, probabilmente proveniente dalla base saracena di Frassineto, fu invece annientata dagli italici nei pressi di Acqui, tra il 934 e il 937. La necessità di organizzare meglio la difesa del territorio del regno (periodicamente attraversato anche dai raid degli Ungari) consentì a Ugo di intervenire nei quadri della Marca di Ivrea, dove promosse due nuovi potenti, Aleramo e Arduino, ponendo le basi per il loro radicamento locale, a discapito dei marchesi.
Sempre nel 935 l’imperatore Romano Lecapeno inviò a Ugo un’ambasciata e ricchi doni, con la richiesta di appoggiare le truppe bizantine impegnate a sottomettere i principati di Capua-Benevento e Salerno. Ugo prestò il suo aiuto, per mezzo del duca di Spoleto Tebaldo, inaugurando così una fase di rapporti stretti con Bisanzio. L’anno seguente si volse di nuovo verso Roma, che già aveva assediato infruttuosamente nel 933. In questo caso il re si avvalse dell’abate di Cluny Oddone come intermediario e riuscì a concordare il matrimonio di sua figlia Alda con Alberico: tuttavia, nemmeno questa alleanza gli aprì le porte della città e l’accesso alla Corona imperiale.
Fu probabilmente durante il viaggio di ritorno da Roma che Ugo intervenne nuovamente in Toscana, imponendo come marchese Uberto (il figlio che aveva avuto da Wandelmoda) in luogo del fratello Bosone, accusato di cospirazione (fine del 936). Il diretto controllo regio sulla marca era così completato.
Nell’ottobre del 937, alla notizia della morte del suo figliastro e rivale Rodolfo II, Ugo si recò rapidamente dalla Toscana (ove si trovava, intento a disporre del monastero regio dell’Amiata) in Borgogna, dove riuscì a prendere sotto la propria tutela Berta e Adelaide, la vedova e la figlia di Rodolfo: Ugo sposò la prima e fidanzò la seconda con suo figlio Lotario.
Il re emise il 12 dicembre 937 un doppio dotario (cioè l’atto con cui il futuro sposo creava dal proprio patrimonio una dote per la futura sposa, sancendo il fidanzamento), che fu l’occasione per una grande riorganizzazione del patrimonio fiscale italico: nella dotazione furono inseriti tutte le più importanti corti fiscali e i monasteri regi sia della parte centrale della pianura Padana sia della Toscana, di cui il re poteva ormai disporre liberamente, sia, ancora, dei valichi appenninici, creando una sorta di ‘riserva regia’ quantificata nei dotari nell’esorbitante totale di quasi settemila mansi. L’intervento toccava le aree del regno meglio controllate da Ugo e fu accompagnato da un vero e proprio investimento sul patrimonio fiscale, come le indagini archeologiche hanno recentemente mostrato per il settore maremmano. Le Honorantiae civitatis Papiae (a cura di C.R. Brühl - C. Violante, 1983, pp. 24 s.) suggeriscono d’altronde una parallela attenzione da parte di Ugo anche per le entrate della camera regia, cui fu preposto il camerarius Gisulfo, secondo la testimonianza dell’omonimo nipote, autore dell’unica parte databile della fonte. Nella stessa Pavia Ugo aveva nel frattempo ricostruito il palatium, gravemente danneggiato dall’incendio ungaro del 924: la sua prima attestazione risale al 935; Attone di Vercelli caratterizza questa ricostruzione come una vera e propria fortificazione della sede del potere regio, volta a garantire Ugo e i suoi da possibili attacchi da parte dei grandi del regno. Nonostante la sua tempestività, il doppio fidanzamento del 937 non portò all’esito sperato dell’annessione della Borgogna: Ottone I era infatti riuscito a prendere sotto la propria tutela il figlio maschio di Rodolfo, Corrado, che fu riconosciuto dai grandi della Borgogna come re, sebbene sotto protezione presso la corte teutonica. Ugo si concentrò sull’Italia e intervenne sull’ultima marca che ancora sfuggiva al suo completo controllo, quella di Ivrea. Ne allontanò infatti il potente marchese Anscario II, suo nipote e quindi ultimo discendente di Berta di Toscana attivo in Italia, promuovendolo a duca di Spoleto (ove Tebaldo era scomparso nel 936). Contemporaneamente, Ugo favorì il matrimonio della vedova del duca Tebaldo con il suo conte di palazzo, il provenzale Sarilone, inducendolo ad attaccare militarmente il nuovo duca Anscario, che fu ucciso in battaglia intorno al 940. Sarilone lo sostituì a Spoleto e la carica di conte di palazzo passò al figlio di Ugo, Uberto.
Tutto ciò è narrato da Liutprando, nell’Antapodosis (cit., V, 5-8); secondo la Destructio farfensis (Hugo abbas, Destructio monasterii farfensis, in Il Chronicon Farfense di Gregorio di Catino, a cura di U. Balzani, 1903, pp. 42 s.), invece, il re non avrebbe gradito l’iniziativa di Sarilone, che solo dopo essersi consegnato al re nelle vesti di penitente avrebbe ottenuto il perdono, venendo infine preposto alle abbazie regie della Tuscia. I termini della vicenda non sono tuttavia chiari e sappiamo d’altronde che Sarilone fu anche rector della Sabina romana, una posizione che prevedeva una concertazione con il princeps Alberico.
Nel corso del 940 Ugo prese ulteriori importanti iniziative diplomatiche e militari su un altro fronte. Grazie alla testimonianza di Ibn Ḥayyān (più tarda di circa un secolo, ma attendibile; Muqtabis V, a cura di P. Chalmeta - F. Corriente - M. Subh, 1979, pp. 308 s.), giunse a Cordoba presso il califfo Abd al-Rahmān III un rappresentante del malik Unğuh, identificabile con re Ugo. Fu siglato un accordo che avrebbe permesso ai mercanti italici di commerciare indisturbati nel Mediterraneo occidentale; i termini della pace sarebbero stati immediatamente trasmessi al qā’id di Frassineto Nasr bin Ahmad, perché interrompesse le scorrerie contro le navi italiche. A partire dallo stesso anno, d’altra parte, il re cercò e ottenne un appoggio in funzione antisaracena dall’imperatore Romano Lecapeno, che inviò una flotta e ottenne in cambio una figlia di Ugo come sposa per suo nipote Romano II: si trattò di Berta, ribattezzata Eudocia una volta giunta a Bisanzio nell’autunno del 942.
Berta era figlia di Pezola, una concubina di umili origini, ma ciò non costituì un problema dal punto di vista bizantino, essendo figlia di re. Costantino VII Porfirogenito, padre di Romano II, inserì nel citato De administrando imperio, trattato sul buon governo destinato al figlio, una Genealogia dell’illustre re Ugo, in cui ne descrisse la discendenza da Carlo Magno, sfruttando informazioni provenienti dagli ambasciatori dello stesso Ugo, che lo presentavano come legittimo successore dell’avo Lotario Maggiore.
La propensione di Ugo ad affiancare alle successive mogli legittime (Willa, Alda, Marozia, Berta) numerose concubine (Wandelmoda, Rotruda, Pezola, Stefania sono i nomi di quelle note) è stigmatizzata come lussuria da Liutprando e condannata da Raterio di Verona e Attone di Vercelli. Il Chronicon Novalicense riporta un’eco di questo giudizio dei contemporanei, insinuando che Ugo sarebbe giunto a violare anche la nuora Adelaide.
L’attacco contro la base di Frassineto, con l’appoggio dalle navi bizantine, ebbe successo (942): i saraceni furono sottomessi e impiegati come mercenari per il controllo dei valichi delle Alpi occidentali, secondo una politica adottata dai re postcarolingi anche nei confronti di Ungari e Normanni.
Secondo Liutprando (Antapodosis, cit., V, 16-17), con questa scelta Ugo intese tutelarsi contro la minaccia del marchese Berengario II di Ivrea, fuggito in Svevia con la moglie Willa II, per non subire la stessa sorte del fratellastro Anscario e del suocero Bosone di Toscana. Berengario II era l’ultimo aristocratico di rango marchionale e di sangue carolingio sopravvissuto all’annientamento e Ugo ne temeva il ritorno in forze dal regno teutonico; il re inviò al contempo ambascerie e doni a Ottone I perché non appoggiasse la causa del fuggitivo, cosa che in effetti non avvenne.
Nei primi anni Quaranta, Ugo sembrava dunque padrone del campo. Con pazienza e spregiudicatezza, aveva estromesso le vecchie aristocrazie di rango marchionale (fossero o meno suoi parenti) e le aveva rimpiazzate con uomini nuovi, di origine inferiore o di provenienza transalpina, che egli poteva più facilmente controllare o rimuovere all’occorrenza. In tutto il regno l’unico aristocratico a fregiarsi del titolo marchionale era ormai suo figlio Uberto, che dal 942 unì al titolo di conte di palazzo e alla Marca di Toscana anche quella di Spoleto, al posto di Sarilone. Bosone, l’altro figlio avuto da Pezola, era divenuto vescovo di Piacenza ed era stato nominato arcicancelliere del regno. Tebaldo, un figlio che Ugo aveva avuto da una concubina ignota, era stato invece inserito nel clero milanese e predestinato alla cattedra arciepiscopale.
Furono tuttavia proprio i nuovi potenti e i suoi parenti superstiti a tradirlo, quando Berengario II si presentò al Brennero all’inizio del 945. Secondo Liutprando (Antapodosis, cit., V, 26-27), l’arcivescovo Manasse lasciò passare il marchese e trasmise il suo appello agli italici, in cambio della promessa di essere elevato alla cattedra arcivescovile di Milano. Lo stesso fece il conte di Verona Milone, che, come altri potenti, non avrebbe più sopportato l’opprimente controllo regio. A essi si unì il vescovo di Modena Guido. Fu contro quest’ultimo che Ugo si diresse, assediando il castello di Vignola, dove si era rifugiato. Nel frattempo però Berengario raggiunse Milano e qui chiamò a raccolta i potenti che, progressivamente, abbandonarono il re. Tra le defezioni vi fu probabilmente anche quella di suo figlio Uberto, che in seguito, pur perdendo gli altri titoli, mantenne la Marca di Tuscia. Liutprando pone l’accento sul ruolo centrale in questi avvenimenti di Berengario, bersaglio polemico delle sue opere, mentre Attone di Vercelli li rappresenta come l’esito di una congiura collettiva delle aristocrazie del regno (Polipticum, cit., a cura di G. Vignodelli, in corso di stampa, capp. 20-21).
Ugo non poté fare altro che rientrare a Pavia e concordare un’uscita di scena onorevole: avrebbe abdicato a favore del figlio; Lotario II fu proclamato nuovamente re in S. Ambrogio a Milano in aprile, con ogni probabilità il giorno di Pasqua. Due giorni dopo Berengario entrò a Pavia e fece confermare con un placito una donazione per un suo fedele: all’assemblea presenziarono vecchi e nuovi potenti, che avvallarono così il nuovo corso (13 aprile 945). Da maggio il marchese figurò nei diplomi come summus consiliarius regni. Secondo Liutprando (Antapodosis, cit., V, 28), fu per iniziativa dello stesso Berengario che gli italici decisero allora di ristabilire anche Ugo sul trono, come sovrano fantoccio: temevano che il re deposto, raggiunta la Provenza con il tesoro regio, avrebbe organizzato una spedizione di riconquista; Ugo fu quindi reintegrato nell’estate del 945, ma il ritiro in Provenza fu solo rimandato di un anno: il re vi giunse nel 946. Qui iniziò a raccogliere fedeli e alleati, ma morì il 10 aprile 947, nell’abbazia di S. Pietro di Montmajour, appena fondata presso Arles, dove aveva preso l’abito monastico poco prima della morte e dove fu sepolto.
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