FOSCOLO, Ugo
Il 6 febbraio del 1778, da Andrea Foscolo e da Diamantina Spathis, nacque, nell'isola di Zante, il poeta, al quale i genitori imposero il nome, tradizionale nella famiglia F., di Niccolò; ma che, ribattezzatosi dapprima in Niccolò Ugo, si compiacque più tardi di adoperare quasi costantemente, così nei suoi scritti come nelle sue lettere, il secondo solo di questi due nomi. Egli era, dunque, greco per parte di madre; ma, per parte di padre, veneziano; e veneziano, non greco, anche per la stessa terra in cui nacque, giacché quell'isola, facente parte del gruppo delle Ionie, apparteneva allora alla Serenissima e era govemata dalle sue leggi. Di là trasferitosi suo padre nel 1784, e poi tutta la famiglia nel 1785, a Spalato nella Dalmazia, pur sotto il dominio della repubblica veneta, quel suo sentimento di venezianità andò, com'è naturale, intensificandosi. E ancora si accrebbe quando egli fermò la propria dimora, sul principio del 1793, nella meravigliosa città dei dogi: dove la Diamantina, mortole il marito nell'ottobre del 1788, era andata quasi subito a stabilirsi per provvedere in qualche modo ai proprî interessi; e dove essa medesima, sistemati alla meglio questi interessi, poté finalmente chiamare presso di sé i quattro suoi figli (Ugo, Rubina, Giovan Dionigi e Costantino Angelo detto familiarmente Giulio) che, nei primi difficili e dolorosi momenti della sua vedovanza, era stata costretta a rinviare presso la madre e le proprie sorelle nelle isole Ionie. Certo, Ugo Foscolo ricordò sempre con simpatia e con tenerezza quel mare onde egli ebbe "la culla"; e sempre rivide entro la commossa fantasia l'isola sacra" e la "sacra" città, in cui si erano, prima, dischiusi i suoi occhi alla luce e, poi, la sua infanzia era venuta impetuosamente svolgendosi. Ma, per la profondità dell'affetto e per l'intima adesione di tutto il suo essere all'anima stessa di Venezia, egli fu e si sentì e si proclamò veneziano: finché le vicende storiche in mezzo alle quali visse modificarono il suo pensiero politico e il suo sentimento patriottico, allargandoli, con sempre maggiore consapevolezza, dalla piccola patria veneziana alla grande patria italiana.
Negli anni dell'adolescenza, pur rattristati dalla povertà della sua famiglia e resi cupi e iracondi da una sua naturale melanconia, egli si affrettava con ardimentosa baldanza alla conquista certa dell'avvenire. La biblioteca di San Marco, da lui assiduamente frequentata, gli dava modo d'immergersi nelle più ampie e disparate letture e di temprare e disciplinare l'ingegno a indagini erudite e a meditazioni severe. Fuori, poteva liberamente espandersi e manifestarsi quella sua fervida e quasi procellosa passionalità che fu la maggiore caratteristica del suo spirito e la più costante generatrice delle sue azioni. Ed egli, fra gli allettamenti della gloria e le seduzioni dell'amore, intravisto e goduto ora nelle pure linee di qualche a noi ignota fanciulla, ora, come par certo, nella bellezza matronale d'Isabella Teotochi Albrizzi, veniva scrivendo, con una incontenibile esuberanza, canzoni, canzonette, sonetti, inni, odi, elegie, endecasillabi sciolti, capitoli o canti in terza rima: nelle quali poesie, benché vi si odano echeggiare non poche altre voci o di grandi scrittori classici latini e greci o di poeti italiani antichi e moderni o perfino di poeti stranieri soprattutto inglesi, splendono, qua e là, faville del suo ingegno gagliardo; e, certo, vi si riflette, almeno nei suoi tratti essenziali, la nitida immagine della sua forte personalità morale già fin d'allora, possiamo dire, quasi interamente costituita.
Nel 1797, fra i tanti illusi che accolsero ciecamente le idee rivoluzionarie importate d'oltr'Alpi, e si rallegrarono per il quasi incredibile decreto del 12 maggio di quell'anno col quale lo stesso Gran Consiglio sostituiva al vecchio governo di patrizî un nuovo governo provvisorio di cittadini, ed esultarono per l'accoglimento entro la città di alcune migliaia di soldati francesi da cui si attendevano chi sa mai quali azioni e dimostrazioni di amicizia, di protezione, di difesa, fu anche il diciannovenne Ugo Foscolo: il quale, fin dal primo diffondersi di quelle idee, le aveva abbracciate con entusiasmo; e aveva scritto, par bene, nel settembre del 1796, il sonetto A Venezia vaticinante che il popolo veneziano, imitando il "gallico esempio", avrebbe saputo prendere, fra breve, un' alta vendetta" dei suoi "mille tiranni"; e aveva fatto rappresentare, il 4 gennaio 1797, la tragedia Tieste, nella quale erano usate contro la tirannide regia parole e frasi di schietto stampo alfieriano e di preciso significato politico. Più tardi, recatosi, sulla fine d'aprile, nella Cispadana per ivi gustar subito il frutto di quella libertà democratica che gli sembrava maturasse troppo lentamente in Venezia, scrisse e pubblicò, ai primi di maggio, in esaltazione della "gran dea" Libertà e di colui che sembrava averla ricondotta fra noi la veemente ode A Bonaparte liberatore. Più tardi ancora, ricondottosi, nello stesso mese di maggio, a Venezia, dove già si era compiuta la da lui auspicata trasformazione del regime politico, prese parte alle adunanze della Società della pubblica istruzione e ai lavori della Municipalità, ora redigendo verbali calorosissimi, ora pronunziando appassionate orazioni. Infine, compose nell'ottobre una seconda veementissima ode, intitolata Ai novelli repubblicani, per incitare questi repubblicani novelli (che si guardarono bene dal mettere in pratica il suo feroce consiglio) a difendere la libertà, minacciata dalla frodolenta tirannide, con le armi, coi pugnali, col furore, col sangue. Il destino si compì inesorabile: Bonaparte stipulò, il 17 ottobre, il trattato di Campoformio, e Ugo F., a mezzo novembre, prima ancora che il governo austriaco vi s'insediasse, partì dalla città che considerava sua patria, lasciandovi la madre, la sorella e i fratelli; e si recò, solo e crucciato, nella capitale della nuova repubblica Cisalpina: a Milano. Il primo periodo delle sue esperienze si era dolorosamente concluso.
Né meno dolorosamente si svolse e si concluse il secondo periodo, compreso fra questa sua partenza da Venezia sulla fine del 1797 e il suo definitivo allontanamento dall'Italia nella primavera del 1815. Egli recava in sé medesimo una causa di malessere e di dolore: giacché quella intensità di passioni che gli era propria e nella quale egli faceva consistere la vera e intima e profonda essenza dell'uomo bruciava la sua vita fisica e psichica in un incendio meraviglioso e fatale, procurandogli, sì, gioie luminose e deliziosi piaceri, ma anche turbamenti e sconforti e amarezze e collere e frenesie che mal potevano conciliarsi con la vera serenità dell'animo e con la vera letizia. E v'erano poi altre cause che contribuivano a crucciarlo e ad esasperarlo e che valsero, in taluni momenti, a rendergli la vita incredibilmente dura ed amara. L'ombra di Campoformio non si dileguò mai dal suo spirito. E, se egli, nel 1799, ripubblicò a Genova l'ode A Bonaparte liberatore, vi premise, peraltro, una nobilissima lettera dedicatoria nella quale, apertamente dolendosi per il traffico fatto della sua patria, assumeva, di fronte al gran generale, l'atteggiamento rispettoso ma animoso dell'uomo libero. E se, più tardi, nell'Orazione preparata per i comizi lionesi che si tennero durante il dicembre del 1801 e il gennaio del 1802, abbondò nelle lodi del console Bonaparte, ancora invocandolo come "salvatore dei popoli conquistati", fece però di nuovo sorgere da quelle stesse lodi il ricordo e l'immagine di Venezia e di nuovo, nell'atto stesso d'inneggiare all'eroe, audacemente e severamente lo ammonì, esortandolo a operare in modo che la storia potesse dire di lui: "annientò un'antica repubblica, ma un'altra più grande e più libera ne fondava". Se non che anche questa volta le sue speranze andarono deluse. E, poiché vide Napoleone, fattosi monarca assoluto, non darsi pensiero della libertà e della dignità dell'Italia, egli poeta disdegnò lui imperatore. Dal che nacque, com'era inevitabile che nascesse, questa dolorosa conseguenza: che, pur nel quotidiano fervore delle amicizie e delle conoscenze e dei rapporti civili e delle conversazioni mondane, pur nella protezione indubbiamente accordatagli da personaggi autorevoli e fin anche da ministri del Regno Italico e, forse, dallo stesso viceré Eugenio, pur nel grido della fama, gli si facesse dintorno, a mano a mano, una specie di vuoto e, quasi direi, di solitudine morale e sempre più venissero a circuirlo sottili perfidie e insidiose difficoltà e pericoli oscuri.
Comunque, anche in questo secondo periodo, anzi più ancora che nel primo, la vita del Foscolo si svolse energica, intensa, multiforme, fra il giornalismo, le armi, gli amori, gli studî e la poesia. Dopo un'intensa attività politica, che fu da lui esercitata fra la fine del 1797 e il principio del 1799, a Milano e a Bologna, e che ha importanza notevolissima in quanto dimostra essersi egli già distaccato dal suo primo incomposto giacobinismo e già fermamente rivolto a una più meditata e più consapevole difesa degl'interessi e delle tradizioni nazionali contro la tendenza gallicizzante, il F., dall'aprile del 1799 in poi, militò, con le truppe francesi e le cisalpine, contro gli Austro-Russi e gl'insorti che, durante l'assenza del Bonaparte, miravano a distruggere interamente, in Italia, l'ordine di cose da lui fondato. Non del tutto chiare, e neanche in tutto e sempre conformi alle attestazioni del poeta medesimo, sono le vicende di questa sua vita soldatesca. Ma una cosa è certa: che, durante l'assedio di Genova, sostenuto così bravamente dal Massena contro gli Austriaci del Melas, egli prese parte con impetuoso coraggio, il 30 aprile del 1800, alla riconquista dei forti dei Due Fratelli; e, due soli giorni dopo, il 2 maggio, combattendo ostinatamente nel non riuscito tentativo di strappare ai nemici l'altura della Coronata, rimase ferito da un colpo di sciabola a una coscia. Il resto della sua vita militare, che pur durò fino alla caduta del Regno Italico, non ha particolare importanza: ché, anzi, quando egli fu in Francia, dal giugno del 1804 al marzo del 1806, con la divisione italiana venuta ad accrescere il grande esercito che Napoleone andava radunando sulle rive della Manica contro la rivale Inghilterra, egli fu addetto a servizî sedentarî, a lui sgraditissimi, nelle varie guarnigioni di Valenciennes, di Calais, di Lille, di Boulogne-sur-Mer; e poi, tornato in Italia, rimase bensì ancora ufficiale, pur rammaricandosi frequentemente di non ottenere quel grado a cui di pieno diritto aspirava, ma non sembra che abbia mai avuto obblighi così precisi da dovere, per essi, trascurare i diletti studî letterarî e la dilettissima arte.
Ai quali e alla quale non furono neanche d'ostacolo, ma servirono anzi talora d'incitamento i molti, i troppi amori, sempre veementi e appassionati, spesso disperati e frenetici, che egli nutrì, nel periodo di cui ci stiamo ora occupando, per un numero stragrande di donne o di giovinette, di fanciulle o di spose: per Teresa Pichler Monti; per Isabella Roncioni; per Antonietta Fagnani Arese; per Fanny Emerytt; per Marzia Martinengo; per Francesca Giovio; per Maddalena Bignami; per Lucietta Battaglia; per Cornelia Rossi Martinetti; per Eleonora Nencini; per Quirina Mocenni Magiotti; per altre ancora. E, intanto, oltre a parecchi scritti, che qui si tacciono, tutti dal più al meno pregevoli, egli dava in luce, nel 1803 e fra il 1807 e il 1808, due pubblicazioni di vario carattere ma di ugualmente grande importanza: nel 1803, l'amplissimo commento alla catulliana Chioma di Berenice, per mezzo del quale, benché egli mirasse nel suo segreto a satireggiare la pedantesca erudizione di certi filologi, pur diede una mirabile prova della sua vasta dottrina, se anche non sempre autentica e di prima mano, e delle sue rare attitudini filologiche, se anche non compiutamente e organicamente disposte e disciplinate; fra il 1807 e il 1808, l'accuratissima edizione delle Opere di Raimondo Montecuccoli, con la quale si proponeva di rinnovare la memoria e di rivendicare la gloria "del più dotto fra' capitani nati in Italia dopo il risorgimento dalla barbarie" e d'indurre i soldati del recente esercito italiano "ad onorare i domestici Eroi, a meditare i loro precetti, e ad emulame gli esempî". Questo, per ciò che si riferisce agli studî. Quanto, poi, all'arte, proprio in questo secondo periodo, essa raggiunse i più alti vertici e ebbe le più luminose manifestazioni: ché, fra il 1798 e il 1802, il F. scrisse e stampò, in mezzo a strane vicende e attraverso varî rimaneggiamenti e travestimenti, le Ultime lettere di Iacopo Ortis; e, nel 1803, raccolse in un volumetto edito a Milano, prima dal Destefanis e poi dal Nobile, due odi e dodici sonetti già sparsamente composti e pubblicati; e, nel 1807, diede in luce a Brescia, per i tipi di Niccolò Bettoni, il carme Dei Sepolcri indirizzato a Ippolito Pindemonte.
Nell'ideazione e nella composizione delle Ultime lettere di Iacopo Ortis entrarono elementi molteplici: di reminiscenze letterarie; di vicende storiche; di ricordi autobiografici; d'immaginazioni fantastiche. È certo, infatti, per non dir nulla della Nouvelle Héloïse del Rousseau (la cui azione fu, ad ogni modo, assai scarsa), che un influsso notevolissimo ebbero sul F. i Dolori del giovane Werther di Volfango Goethe. Ma è ugualmente certo che il nostro poeta, parte appoggiandosi ai reali avvenimenti storici e politici di quell'eta, parte ispirandosi a tre amori da lui effettivamente nutriti, prima per un'ignota fanciulla veneziana, poi per Teresa Pichler Monti e, poi ancora, per Isabella Roncioni, parte rispecchiando nel protagonista del romanzo l'immagine di sé stesso, parte sovrapponendo alla realtà cose e persone irreali, tutto seppe trasformare e rielaborare e a tutto diede un nuovo aspetto, una nuova forma, una nuova impronta, una nuova e originale coloritura. Né è punto vero che nuoccia, in qualsiasi modo, all'organica unità dell'opera sua quell'avere immaginato Iacopo, a differenza di Werther, condotto al suicidio, non solo dall'inappagato amore della donna, ma, oltre che da questo, anche dal tormentoso e impotente amore per la patria perduta e abbandonata: ché, anzi, tale duplicità di sentimenti, convergenti entrambi a turbare e ad esacerbare la coscienza di Iacopo, fa apparire la sua morte più necessaria e conferisce al suo atto disperatissimo una più alta e più degna giustificazione. E neppure è da dirsi, benché da critici valenti sia stato detto, che in Iacopo Ortis ci siano più Iacopi Ortis non bene saputi fondere dal Foscolo in una sola e compatta figura logicamente e artisticamente omogenea; perché la complessità e impressionabilità e mutabilità dell'anima umana, in generale, basta a spiegare i varî atteggiamenti di Iacopo a seconda delle circostanze, dei tempi e dei luoghi. Comunque, l'Ortis (nel quale il F. stesso, più tardi, si rammaricò di avere insegnato ai giovani a lamentarsi anzi tempo della vita e a cedere disperatamente allo sconforto e al dolore) rappresenta in modo degnissimo il primo e vero romanzo apparso nella moderna letteratura italiana: di fondo, in qualche parte, storico; di carattere psicologico; di forma, se pur talvolta un po' enfatica e quasi sdrucciolante nella retorica, viva, incisiva, appassionata, vibrante; con acute analisi di stati d'animo; con meditazioni delicate o profonde; e, soprattutto, con uno squisito sentimento della natura, che si manifesta e trionfa in quadretti idillici o in figurazioni tempestose d'incomparabile verità ed evidenza.
Delle due odi, la prima, scritta a Genova durante l'assedio, mostra nel titolo stesso l'occasione da cui fu suggerita: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. L'altra, composta, circa due anni dopo, a Milano, reca il titolo più vago e più indeterminato All'amica risanata; la quale amica era la contessa Antonietta Fagnani Arese. Entrambe le odi nacquero, dunque, da due fatti di cronaca mondana: la disgrazia sopravvenuta ad una bella signora; la malattia da cui un'altra bella signora veniva ormai prestamente e sicuramente risollevandosi. E all'una il F. manifestava la certezza (non avveratasi nella realtà) che il suo volto, ora sfigurato e bendato, sarebbe divenuto anche più di prima luminoso e raggiante; e all'altra inviava complimenti e rallegramenti per la riacquistata salute e per la rifiorente bellezza; e l'una e l'altra paragonava alle dee dell'Olimpo, anzi perfino esaltava sopra di esse o addirittura trasformava in esse: rievocando per loro tutto un mondo immaginoso di miti; preservando la loro vana ed effimera umanità con una divina sostanza incorruttibile; e appassionatamente immergendosi nella contemplazione delle loro forme perfette da lui trasumanate e indiate e rese, per i secoli, eterne. Appassionatamente, si è detto; perché, in verità, anche questa contemplazione, fattasi così profonda ed estatica da escludere ogni altro pensiero o desiderio, è, nella sostanza, passione; passione della pura bellezza: per la qual cosa non sarà da insistere soverchiamente sulla comune osservazione critica che la sobria, pacata, serena, quasi fredda eleganza di queste odi contrasta, da una parte, ai fremiti e agli spasimi e ai ruggiti delle infocate lettere d'amore e, dall'altra, alla vibrante nervosità dei sonetti. I quali riflettono, tutti, lo sdegnoso e generoso e ardente e melanconico spirito del poeta; e, tutti, risonanti come sono di dolore e di amore, animati da un vivo sentimento, illuminati da un profondo pensiero, recano nella storia della nostra poesia una nota del tutto nuova ed inaspettata e staccano il Foscolo, per così dire, violentemente (anche se, qua e là, possano cogliersi, in questo o in quel verso, talune parziali reminiscenze) da ogni modello e da qualsiasi tradizione anteriore
Certo, però, i Sepolcri (alla cui ideazione concorsero, oltre che taluni precedenti inglesi e francesi di poesia sepolcrale, anche varî scritti di eruditi italiani circa l'ufficio e il valore dei sepolcri in quanto hanno rapporto con la comunità dei viventi, e perfino un poemetto d'Ippolito Pindemonte sui Cimiteri, rimasto incompiuto e solo ai nostri giorni venuto in luce, del quale sembra difficile, per non dire impossibile, che il Foscolo non abbia avuto notizia in certi suoi colloquî, a Verona, con il Pindemonte medesimo) segnano, per la loro straordinaria potenza fantastica, il vertice più alto a cui abbia saputo levarsi, non solo la lirica, ma tutt'intera l'opera poetica foscoliana.
Il F. partì, nell'immaginare il suo grande carme, da un concetto materialistico e da un sentimento pessimistico. Egli pensava ehe il tempo, come traveste e modifica tutte le forme e le apparenze dell'universo, così travolga e inghiottisca nella sua fiumana inesorabile le vite e i nomi e le memorie degli uomini; e che nulla più vi sia "dopo l'esequie"; e che, da un certo punto di vista, strettamente logico e teorico, non giovi ai defunti giacere entro una propria tomba, sotto una lastra che rechi scolpito il loro nome, piuttosto che in una sepoltura comune ove le loro ossa vengano a mescolarsi e a confondersi con altre ossa d'ignoti; e che, sempre dallo stesso punto di vista, s'illudano stranamente i superstiti quando, immaginandosi che qualche cosa pur resti dei loro cari, ne adornano i sepolcri di fiori e li bagnano di lacrime e li proteggono con la densa ombra dei cipressi e vi mormorano sopra meste preghiere e affettuose parole quasi a continuazione o a ripresa dei dolci colloquî di una volta. Illusione, certo. Ma questa illusione è, in qualche modo, più reale della realtà. Essa perpetua veramente quell'esistenza umana che la morte ha troncato; essa fa veramente sopravvivere nello spirito di coloro che sono lo spirito di coloro che furono; essa consola i superstiti di un allontanamento e di un distacco che non avrebbero altrimenti la forza di sopportare; essa riallaccia l'una all'altra le innumerevoli generazioni degli uomini da quando ebbe inizio la loro storia a quando la loro storia avrà termine; essa fa sì che dalla casa dei morti si levi effettivamente e si ripercuota intensamente nell'animo dei viventi una parola di affetto, di conforto, di lode, di ammonimento, di rimprovero. Utile, dunque, anzi supremamente necessario il culto delle tombe e il rispetto dei morti. Che se questi morti siano stati uomini di grande ingegno, di ferreo carattere, di pura e intemerata coscienza, se abbiano compiuto imprese generose ed eroiche, se non si siano sottratti a pericoli o a sacrifici per la gloria, per la famiglia, per la patria, chiunque si accosti silenzioso alle loro tombe non solo ricorda e venera, non solo prova commozione ed ammirazione, ma si sente incitato a rinnovare in sé quell'ingegno, quel carattere, quella coscienza, a compiere quelle medesime imprese, ad affrontare quei medesimi pericoli e sacrifici. E, infatti, le tombe dove riposavano gli animosi combaitenti di Maratona valsero a perpetuare contro i Persiani l'"ira" e la "virtù" degli Elleni; e i sepolcri degli eroi Dardanidi là "nella Troade inseminata" ispirarono a Omero il suo guerresco canto immortale; e i mausolei di Niccolò Machiavelli, di Michelangelo, di Galileo, di Vittorio Alfieri, tutti raccolti nella chiesa di Santa Croce a Firenze, inciteranno, quando che sia, gl'Italiani a dare opera al proprio risorgimento politico e li sospingeranno al riacquisto della libertà e della gloria.
Questi i pensieri che, insieme con altri secondarî e collaterali, costituiscono la trama concettuale del carme e gli conferiscono un valore universalmente umano e civile e, per gl'Italiani, particolarmente patriottico e nazionale. Ma, ciò che più conta, essi pensieri non rimangono puri e nudi pensieri; non si distribuiscono ordinatamente in una trattazione sistematica; non s'inquadrano rigidamente in un ragionamento logico. Tutti e sempre, invece, si trasformano in fantasmi e in immagini; e sorgono, così, naturalmente, spontaneamente, improvvisamente, senza nessuna legge prestabilita, in un vario e libero e tumultuoso avvicendamento; e non tanto si rivolgono all'intelletto quanto al sentimento, non tanto mirano alla persuasione quanto alla commozione; e escono, insomma, dal campo della razionalità fredda ed opaca per entrare in quello della calda e splendida fantasia. Il Foscolo spazia per le età e per le genti più lontane e più disparate; rievoca costumi, riti, avvenimenti, tradizioni, leggende, richiama dal remoto passato ombre magnanime di eroi; proietta nel remoto avvenire il suo sogno, la sua speranza, il suo augurio; e ricordi e aspirazioni e visioni stringe e imprigiona in una forma sobria, densa, sintetica, di così straordinaria brevità, di così fulminea rapidità, di così estrema concisione e concentrazione da riuscire talvolta, benché più nell'apparenza che nella sostanza, perfino oscuro. Egli, trascinato dalla foga dell'ispirazione, non può fermarsi a riflettere sui coordinamenti, sui collegamenti, sui riavvicinamenti dei fatti e delle idee; ma è spinto violentemente innanzi, quasi in una corsa concitata e affannata, da quella misteriosa forza creatrice che s'è impadronita del suo spirito e lo investe e lo scuote e lo signoreggia. E da questo suo stato d'animo nasce una poesia procedente a scatti ed a sbalzi; varia di toni, di chiaroscuri, di armonie; ricca di scorci originali e potenti. Poesia unica e grande: tutta penetrata di classicismo, pur con larghe venature di quella particolare maniera di concepire, di sentire e di rappresentare che piacque, pocó dopo, ai romantici; d'ispirazione prevalentemente pindarica ed omerica; partecipante, a un tempo, dei caratteri della lirica e dell'epopea; non comparabile a nessun altro anche più insigne monumento dell'arte nostra; bastante di per sé sola alla gloria imperitura dello scrittore.
Con la pubblicazione dei Sepolcri crebbe, naturalmente, la già grande fama del Foscolo; ma non crebbe, in pari tempo, la sua fortuna. Quella stessa potenza occulta, che lo aveva sempre misteriosamente avversato, rendendo vane o, comunque, poco efficaci e proficue nei suoi riguardi anche le benigne intenzioni di amici devoti e di protettori autorevoli, continuò ad agire nell'ombra contro di lui. E quando, nel 1809, lo si nominò professore di eloquenza nell'università di Pavia, tutto si risolse, purtroppo, in una ironia triste ed amara: giacché, essendo già dal governo fermamente stabilito che l'insegnamento dell'eloquenza, così nella predetta università come nelle altre università del regno d'Italia, sarebbe stato, per il futuro anno, soppresso, il F. si trovò ad assumere l'alto ufficio per vedersene quasi immediatamente privato. Lesse, il 22 gennaio, la sua stupenda prolusione Dell'origine e dell'ufficio della letteratura. Lesse quindi, a intervalli, fra il 2 febbraio e il 6 giugno dello stesso anno, cinque altre lezioni: non tutte ugualmente felici, specie nei riguardi della critica storica e letteraria che vi è sfiorata piuttosto che approfondita; ma tutte, e, sopra tutte, le ultime tre, nobilissime per la necessità altamente proclamatavi, a chi voglia professare lo studio ed esercitare l'ufficio delle lettere, di una vita dignitosa, di un libero ingegno e di una volontà ferma ed energica. Poi restò senza cattedra e senza impiego. F si trovò impelagato in gravi difficoltà finanziarie. E anche venne ad essere travolto in asprissime polemiche letterarie (parte suscitate da un suo imprudente articolo Intorno alla traduzione dei due primi canti dell'Odissea apparso negli Annali di scienze e lettere del 1810 e pieno di divagazioni satiriche e di mordenti allusioni ironiche a parecchi suoi contemporanei, parte originate, né solo per ragioni di letteratura, ma anche, e principalmente, di politica, dall'invidia e dalla malevolenza di avversarî e di emuli) che, se poterono amareggiarlo ed esasperarlo, non valsero tuttavia a vincere o a fiaccare la sua natura combattiva e violenta e gl'ispirarono, anzi, due capolavori di satira e di umorismo: l'uno, il Ragguaglio d'un'adunanza dell'Accademia de' Pitagorici, che egli pubblicò, nel 1810, negli stessi Annali di scienze e lettere, avventandolo come una scudisciata sulla faccia di quei suoi nemici velenosissimi; l'altro, l'Hypercalypsis, che, pure pensato e incominciato a comporre nel 1810, proprio nel vivo dell'acerba contesa, ma venuto maturandosi e rielaborandosi nel suo spirito per varî anni e edito, la prima volta, a Zurigo nel 1816, come opera di Didimo Chierico, ci rappresenta la tarda e terribile e perfino eccessivamente crudele vendetta che egli volle prendersi di quei suoi stessi nemici, fra i quali è da annoverarsi anche Vincenzo Monti, statogli, una volta, carissimo e già da lui medesimo nobilmente e audacemente difeso.
In quest'atmosfera arroventata di rancori e di collere una ripresa dell'ispirazione tragica, da cui aveva avuto origine, quattordici anni innanzi, il Tieste, condusse Ugo Foscolo a scrivere, tra il febbraio e l'ottobre del 1811, e a far rappresentare, il 9 dicembre di quello stesso anno, l'Aiace: opera, artisticamente, mediocre; politicamente, poco avveduta, in quanto o conteneva di fatto o parve agli avversarî del poeta che contenesse chiare allusioni satiriche, oltre che a varî altri potenti personaggi, alla stessa maestà dell'Imperatore. Proibita la tragedia, sospesi temporaneamente i censori che ne avevano permessa la rappresentazione, il F. si allontanò da Milano (non già costrettovi da un ordine superiore ma per sua propria e libera volontà) e andò peregrinando a Brescia, a Venezia, a Padova, a Bologna, altrove. E, di lì a poco, nell'agosto del 1812, ottenuto un regolare permesso di più che otto mesi (permesso che, scaduto il termine, gli fu per altri otto mesi rinnovato), egli si recò in Toscana, a Firenze: dimorando, prima, nella città; poi, sugli "aerei poggi" di Bellosguardo. E, pur intrecciando, come di consueto, moltepfici amori, si diede anche, col suo solito impeto, a una varia e intensa attività di scrittore. Riprese, infatti, e rifece con squisito magistero stilistico e pubblicò in Pisa, nel 1813, sotto il nome supposto di Didimo Chierico, la traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick di Lorenzo Sterne, già da lui compiuta quando si trovava a militare in Francia con la divisione italiana. Scrisse una terza tragedia (già pensata, forse, nel 1811), la Ricciarda, d'argomento non più classico ma medievale, tutta furente e ruggente e spasimante di un tremendo odio familiare e di un irresistibile amor contrastato, assai più calda, più mossa, più dinamica, più veramente tragica dell'Aiace. E, riprendendo e determinando un pensiero già balenatogli prima del 1803, e anche in parte valendosi, ma non possiam dire né come né quanto, di alcuni sparsi versi o gruppi di versi composti, molti anni innanzi, per una vagheggiata serie di carmi sul tipo concettuale e fantastico dei Sepolcri, lavorò con molto ardore alle Grazie: le quali peraltro non furono compiute, anzi neppure disposte in una vera e ben delineata unità, né allora né in seguito.
Ci restano di questo secondo carme, che avrebbe dovuto, nella speranza del poeta, superare i Sepolcri, alcuni sommarî in prosa dimostranti come anche la concezione e l'organamento di esso venissero di mano in mano trasformandosi, ampliandosi, arricchendosi di nuove determinazioni e immaginazioni. E ci restano più o meno lunghi frammenti in endecasillabi: magnifici alcuni e, sopra tutti, mirabile quello raffigurante il mistico velo delle Grazie che le Ore e le Parche e Iride e Flora e altre immortali tessitrici e ricamatrici lavorano con arte squisita, sotto la diretta ispirazione di Pallade, nella solitaria e inaccessibile Atlantide; altri, invece, alquanto aridi e freddi per soverchia abbondanza di accenni mitologici e di reminiscenze erudite; e, tutt'insieme, ben lontani da quella potenza di pensiero, di sentimento, di fantasia, di espressione che costituisce la grandezza incomparabile dei Sepolcri.
Gravi avvenimenti, intanto, si susseguivano con vertiginosa rapidità: avvenimenti che misero capo, in Francia, alla prima abdicazione e alla definitiva caduta di Napoleone e, in Italia, all'improvvisa rovina del Regno Italico; e in mezzo ai quali si trovò coinvolto Ugo F. che, restituitosi, nel novembre del 1813, da Firenze a Milano e riassunto il proprio servizio militare, fece di tutto per scongiurare quella rovina o per renderla, almeno, generosa e magnanima e degna di pietà e di rispetto. Non è improbabile, sembra, anzi, molto probabile, che egli prendesse parte ad una cospirazione intesa al conseguimento di un nuovo stato nazionale del tutto indipendente da qualsiasi egemonia straniera. Certo è che egli giudicò severamente e deplorò amaramente la cecità e la faziosità e la bestialità delle varie classi sociali troppo inferiori alla grandezza dell'ora; e, nei tumulti scoppiati il 20 aprile del 1814 contro il Senato e contro i ministri di Eugenio di Beauharnais, uno dei quali, Giuseppe Prina, fu barbaramente straziato e ucciso, affrontò da solo coraggiosamente l'inferocita plebagfia e cercò di raffrenarne la furia con suo gravissimo pericolo personale. Poi, trovatosi a fronte dei nuovi dominatori austriaci, ebbe da risolvere un tormentoso caso di coscienza e dové prendere una quanto mai ardua deliberazione.
Molto cortesi, molto deferenti e benevoli gli si dimostrarono (soprattutto attraverso la cordialità del maresciallo conte di Bellegarde) quei nuovi dominatori: disposti a lasciarlo nella milizia col grado di capobattaglione; desiderosi di affidargli la direzione di un giornale, che fu poi la Biblioteca italiana, d'apparente carattere letterario ma di sostanziale intento politico; pronti, insomma, a largheggiare in concessioni e in favori pur di attrarre nella propria orbita e rendere solidale ai proprî interessi quel grande ingegno e quell'indomato carattere. Ed egli, il poeta, rimase alcun poco dubbioso, vacillante, esitante e sembrò perfino cedere, momentaneamente, alle insidiose proposte. Ma, sul far della sera del 30 (o 31?) marzo 1815, ossia appena un giorno o appena poche ore innanzi alla cerimonia del giuramento che egli, come tutti gli altri ufficiali dell'ormai soppresso esercito italiano, avrebbe dovuto prestare al govemo austriaco, dopo avere scritto alla famiglia una stupenda lettera di commiato, nella quale dichiarava di non potere e di non voler prestare quel giuramento perché il suo "onore" e la sua "coscienza" glielo vietavano e perché egli, in tutte le sue azioni, si era soltanto "inteso di servire l'Italia" e non di "parer partigiano di Tedeschi o Francesi o di qualunque altra Nazione", fuggì di nascosto da Milano e si riparò nella Svizzera: affrontando risolutamente, con un eroico atto di volontà, la vita raminga e disperata dell'esule.
In questo terzo e ultimo periodo, che va dal 1815 al 1827, la vita del F. fu ancor più travagliata che nei due periodi precedenti; benché non cessassero d'illuminarla le sempre rinascenti illusioni apportatrici benefiche di qualche breve e fuggitiva letizia. L'Austria, vedute riuscir vane le sue lusinghe, tirava ora fuori gli artigli e iniziava, in lui, le proprie persecuzioni politiche contro i patriotti italiani. Ed egli dové, specie nei primi tempi del suo esilio (più tardi, dalla fine di maggio del 1815 ai primi di settembre del 1816, dimorò più stabilmente a Zurigo o nel vicino villaggio di Hottingen), andare errando di luogo in luogo per sfuggire ad agguati che avrebbero potuto farlo cadere nelle mani della polizia austriaca: crucciato per le recenti sventure della patria e per le calunnie che sapeva essersi levate contro di lui nell'ormai distrutto Regno d'Italia; in lotta con la miseria che lo perseguitava implacabile e che solo riuscivano ad alleviare alcuni soccorsi procuratigli con rara delicatezza da qualche devoto amico, fra cui principalissimo Silvio Pellico, e dalla impareggiabile "donna gentile", ossia da Quirina Mocenni Magiotti, sua vera e unica e nobilissima amante e consolatrice e ausiliatrice; irato contro sé medesimo per una nuova furibonda passione ispiratagli, a Zurigo, da una donna indegnissima e per il suo conseguente e quasi incredibile accecamento che lo spinse ad azioni delle quali egli stesso, immediatamente dopo, si vergognò e si pentì come di un vituperoso delitto.
Nel settembre del 1816 si trasferì dalla Svizzera in Inghilterra: dove abitò quasi di continuo, a Londra o nelle campagne circonvicine; e di dove non si mosse mai più, quantunque vagheggiasse, di tratto in tratto, il proposito, non mai divenuto realtà, di restituirsi a Zante nelle materne isole Ionie. E il principio della sua nuova vita fu tale da suscitargli in cuore le più smisurate speranze; che, appunto per la loro eccessività, gli furono poi causa di disillusioni terribili. Accolto con la più viva simpatia nella migliore società londinese, esaltato dai non lievi guadagni che certi suoi primi articoli di critica gli procurarono e da lusinghiere proposte e offerte di editori che sembravano promettergli rendite sicure e cospicue, bisognoso, come negli anni trascorsi, di una vita intensa e appassionata e raffinata nella quale il senso e lo spirito trovassero il loro amionico soddisfacimento, il Foscolo, oltre all'impigliarsi ancora una volta nelle reti di un ultimo e non corrisposto amore per la bella e altera giovinetta Carolina Russell, da lui celebrata col nome poetico di Calliroe, volle quasi parificarsi nel tenor della vita ai ricchi gentiluomini inglesi e, abbandonatosi a spese esageratissime, si trovò a precipitare più d'una volta da uno stato di signorilità e di piaceri in una condizione di miseria e di sofferenze. Ciò, possiam dire, durante tutto il suo soggiorno in Inghilterra. Ma, specialissimamente, dopo che l'inatteso ritrovamento a Londra, sul principio del 1822, di una sua figlia naturale, Floriana, natagli a Valenciennes diciassette anni prima, dall'amore per la signorina inglese Fanny Emerytt, e da lui, a quanto sembra, interamente trascurata e dimenticata, ebbe fatto sorgere nella sua irrequieta fantasia il malaugurato proposito di costruire, non tanto con le proprie, quanto, piuttosto, con le sostanze derivate a Floriana dall'eredità della nonna materna, un elegante villino (a cui gli piacque dare il nome di "Digamma-Cottage" quasi per ricollegarlo idealmente al suo saggio filologico Sul digamma eolico) dove egli e lei potessero, così uniti, trascorrere amabilmente la vita. Invece, il villino era stato, si può dire, appena compiuto, e il padre e la figlia vi si erano appena stabiliti, che entrambi furono costretti ad uscirne per il cumulo dei debiti che li opprimevano. E, da allora in poi, la vita del Foscolo non fu che una disperata battaglia per veder di rompere il cerchio delle avversità che sempre più gli si stringeva da torno.
I creditori non gli davano requie. I direttori di riviste e i proprietarî di grandi case editrici o rifiutavano i suoi articoli e i suoi libri o lo compensavano con somme irrisorie o gli promettevano una certa retribuzione e poi gliene davano un'altra di gran lunga inferiore o addirittura si dimenticavano di pagarlo o, in ogni modo, lo facevano attendere oltre ogni limite ed ogni sopportazione. Ed egli, il povero e grande poeta, allontanatosi dalla società aristocratica che aveva fin allora frequentata ma presso la quale non poteva ormai più comparire col necessario decoro; risoluto a non vedere nessuno se non pochissimi e fidatissimi amici di cui si serviva per comunicare con quegli editori e direttori; costretto ad abitare nei quartieri più miseri e nelle più misere case della metropoli; ridottosi, per far perdere più facilmente le proprie tracce, non solo a cambiare ogni momento d'alloggio, ma perfino ad abbandonare il proprio cognome sostituendolo, a volta a volta, con quello di Merriat o di Emerytt; stanco, affannato, fuggiasco, ma sempre disdegnoso e fremente; poi, sulla fine, oppresso anche da malattie varie e terribili, colpito da violente febbri biliose, aggravato e deformato dall'idropisia, minacciato a ogni ora dalla morte; egli lavorava ininterrottamente e indefessamente, con volontà eroica, con forze quasi titaniche, fra spasimi fisici e torture morali inenarrabili, contrastando alla stanchezza e al sonno, senza tregua, e senza pace. Morì presso Londra, nel villaggio di Turnham Green, dove si era ritirato da varî mesi con la sua infelice figlia Floriana, il 10 settembre del 1827.
Per ciò che riguarda la sua attività di scrittore, è da notare la decisa e sempre maggior prevalenza delle tendenze critiche o erudite sulle tendenze artistiche; le quali avevano invece, nei due precedenti periodi, particolarmente, benché non esclusivamente, signoreggiato il suo spirito. Pensò, bensì, anche in questi anni, alle Grazie; ma, se pur vi attese con l'opera oltre che col pensiero, in ogni modo non pervenne mai a terminarle. Nutrì pure, vivissimo, il desiderio di condurre a termine la traduzione dell'Iliade di cui aveva già pubblicato il primo libro, nel 1807, per i tipi della stamperia bresciana del Bettoni e di cui fece stampare il terzo libro, nel 1821, nella fiorentina Antologia del Vieusseux; ma anche questa traduzione, che avrebbe dovuto e forse potuto gareggiare con quella di Vincenzo Monti, rimase incompiuta e frammentaria. Il momento, insomma, della grande poesia era trascorso; e altri interessi e altri bisogni spirituali erano venuti a sovrapporsi o a sostituirsi al puro bisogno e al puro interesse estetico. Nacquero così, durante i dodici anni dell'esilio, oltre a parecchi altri scritti che qui non si enumerano (ma sarà almeno da ricordare la parte principalissima avuta dal F. nella composizione del Saggio sullo stato attuale della letteratura italiana, ossia delle Historical Illustrations of the fourth Canto of Childe Harold di John Hobhouse), le seguenti opere o politiche o storiche o morali o filologiche o più veramente e propriamente critiche: i discorsi Della servitù d'Italia e la Lettera apologetica, nei quali e nella quale il F., mentre difende con appassionato vigore la propria condotta di cittadino, esamina acutamente le condizioni del Regno Italico e sdegnosamente investe coloro che né seppero impedire la sua caduta né valsero a instaurare un nuovo ordine di cose o a preservare, se non la libertà, almeno la dignità nazionale; la Narrazione delle fortune e della cessione di Parga, che era un audace atto d'accusa contro il governo della Gran Bretagna e che il poeta non volle poi divulgare, sia per non incorrere egli medesimo nel rigore della legge inglese sugli stranieri, sia, ancor più, per non compromettere presso la Santa Alleanza quegli amici che gli avevano fornito documenti e notizie; il vivacissimo e interessantissimo e deliziosamente umoristico Gazzettino del Bel Mondo, ove, nella sottile e ironica osservazione dei costumi individuali o sociali, guizza e lampeggia lo spirito acuto di Lorenzo Sterne e di Didimo Chierico; il già ricordato studio Sul digamma eolico, che non è se non una scheggia di una più vasta e più complessa opera di cui doveva pure far parte la Storia del testo di Omero; e, infine, molti saggi critici di letteratura italiana, riguardanti, per limitarci solo ad alcuni, la nuova scuola drammatica romantica, i poemi narrativi e cavallereschi, il Tasso, il Boccaccio, il Petrarca, Dante. Ottimi, fra tutti, quelli che si riferiscono ai tre grandi scrittori del Trecento. E, fra tutti, magnifico il Discorso sul testo della Commedia: nel quale possono riscontrarsi alcuni errori di fatto o di giudizio; ma nel quale anche si trovano un'armonica fusione dell'elemento psicologico con l'elemento storico e con l'estetico e una singolare penetrazione critica, per cui si gettano sprazzi di luce sui più gravi problemi, e una sicura dottrina che vale a chiarire, a correggere, a determinare, a integrare quanto appariva manchevole o confuso o arbitrario o errato, e un vivo sentimento della bellezza che conduce naturalmente il F., e con lui i suoi lettori, a ficcar gli occhi ben addentro nel mistero della creazione artistica. Libro luminoso e profondo: che indirizzò la critica letteraria per altre vie da quelle fin allora seguite; e che, nella storia degli studi danteschi, segna una data memorabile.
Nel 1871, essendosi ricostituito il Regno d'Italia con Roma capitale, e non già limitato alle sole terre settentrionali ma allargatosi invece a tutte le regioni della penisola, e non più napoleonico e semi-francese ma sabaudo e veramente e interamente italiano, i resti mortali del F., dal cimitero di Chiswick dove erano stati deposti fra il compianto di pochi amici fedeli, furono trasferiti a Firenze in quello stesso tempio di Santa Croce che il fervido autore dei Sepolcri aveva celebrato come sacrario delle "itale glorie" e nel quale aveva con la fantasia veduto aggirarsi il pallido Vittorio Alfieri prima che pur questi scendesse a posarvisi insieme con gli altri spiriti magni. Ora anche il F. "abita" eterno "con questi grandi". E anche dalla sua tomba si leva e parla agl'Italiani una voce ammonitrice ed incitatrice.
Ediz.: Opere inedite e postume a cura di F. S. Orlandini ed E. Mayer, Firenze 1850-62, con un dodicesimo volume di Appendice a cura di G. Chiarini, Firenze 1890 (una ristampa, del 1923); Poesie, nuova edizione critica, per cura di G. Chiarini, Livorno 1904; Prose, a cura di V. Cian, Bari 1912-20; Scritti vari inediti, a cura di F. Viglione, Livorno 1913; L'Orazione inaugurale, a cura di G. Dolci, Lanciano 1922; Saggi letterari, introduzione e note di M. Fubini, Torino 1926; L'Orazione inaugurale, ristampata a cura della R. università di Pavia nel primo centenario della morte del poeta, Pavia 1927; Le ultime lettere di Iacopo Ortis, per cura di A. Ottolini, con 125 illustrazioni, Milano [1927]; Ultime lettere di Iacopo Ortis e i frammenti di un romanzo autobiografico, con uno studio critico di N. Vaccalluzzo, Catania 1927. Per tutte le altre edizioni (comprese le originali) v. A. Ottolini, Bibliografia Foscoliana, Firenze 1921.
Bibl.: Degli studî critici anteriori al 1921 si ricordano i segg.: G. Chiarini, Gli amori di U. F. nelle sue lettere, Bologna 1892; V. Cian, Per la storia del sentimento e della poesia sepolcrale in italia ed in francia prima dei "Sepolcri" del F., in Giorn. st. d. lett. ital., XX (1892), p. 205 segg.; F. Viglione, Sul teatro d'U. F., Pisa 1904; B. Zumbini, La poesia sepolcrale straniera e italiana e il carme del F., in Studdi di letteratura italiana, Firenze 1906; V. Cian, U. F. erudito, in Giorn. st. d. lett. it., XLIX (1907), p. 1 segg.; G. Carducci, Adolescenza e gioventù poetica di U. F., in Opere, XIX, Bologna 1909; G. Chiarini, La vita di U. F., Firenze 1910 (2ª ed., con un discorso sul F. e un'appendice di note bibliografiche a cura di G. Mazzoni, 1927); E. Donadoni, U. F. pensatore, critico, poeta, Milano-Palermo-Napoli 1910 (2ª ed., postuma, 1927); U. F. nel centenario del suo insegnamento all'Università di Pavia (1808-1809), Pavia 1910; F. Viglione, U. F. in Inghilterra, Catania 1910; V. Rossi, Sull'"Ortis" del F., La formazione e il valore estetico dell'"Ortis", articoli rist. in Scritti di critica letteraria, Firenze 1930, III, p. 293 segg. - Di quelli posteriori al 1921 si ricordano: M. Naselli, La fortuna del F. nell'Ottocento, Genova e Napoli 1923; G. Mazzoni, U. F. al fuoco, in Abati, soldati, attori, autori del Settecento, Bologna 1924; I. sanesi, L'insegnamento universitario del Monti e del Foscolo, in Contributi alla storia dell'Università di Pavia pubblicati nell'XI centenario dell'Ateneo, Pavia 1925; A. Bassi, Armi ed amori nella giovinezza di U. F., Genova 1927; V. Cian, U. F. nel primo centenario della morte, in Riv. d'Italia, 15 settembre 1927; U. Da Como, Lettere inedite di U. F., in Nuova Antologia, 1° giugno 1927; M. Marcazzan, Didimo Chierico ed altri saggi, Milano 1930; P. Schinetti, Il F. innamorato, Milano 1927; Studi su U. F. editi a cura della R. Univ. di Pavia nel primo centenario della morte del poeta, Torino 1927; C. Antona-Traversi e A. Ottolini, U. F., voll. 4, Milano 1927-28; M. Fubini, U. F., saggio critico, Torino 1928 (2ª ed., Firenze 1931); U. Ojetti, Ad Atene per U. F., Milano 1928; V. Rossi, L'anima e la poesia di U. F., in Educazione fascista, VI [1928]; M. Scherillo, I primordi del F. e gli ammonimenti del Cesarotti, in Nuova Antologia, 16 marzo e 1 aprile 1928; id., U. F. e Firenze, Firenze 1928; N. Vaccalluzzo, La preparazione poetica di U. F., Catania 1928; M. Fubini, Studi foscoliani, in Leonardo, V (1929), p. 95 segg.; G. Caprin, Quirina e Floriana, Milano 1931 (non studio critico, ma felicissima ricostruzione artistica), B. Zumbini, Il Werther e il Iacopo ortis, in Studi di letteratura comparata (opera postuma), Bologna 1931; G. Citanna, La poesia di U. Foscolo, 2ª ediz. rifatta, Bari 1932.