MAZZOLA, Ugo
– Nacque a Napoli il 16 sett. 1863 da Giuseppe, ricco commerciante, e da Adele De Vivo.
Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli, il M. si indirizzò principalmente verso lo studio dell’economia politica, insegnata da A. Ciccone; un interesse che fu poi ulteriormente rafforzato dalla lettura degli scritti di F. Ferrara.
Il M. sentì presto il bisogno di approfondire gli studi di economia recandosi, nel biennio 1883-84, a Berlino. Probabilmente nel corso di tale soggiorno la sua vocazione per la ricerca e l’insegnamento si accentuò. Nella città tedesca, il pensiero di A. Wagner, uno fra i maggiori esponenti del cosiddetto socialismo della cattedra, non mancò di lasciare tracce sul M., che possono in varia misura cogliersi in un’opera – L’assicurazione degli operai nella scienza e nella legislazione germanica (Roma 1886) – commissionatagli dalla divisione del commercio del ministero dell’Agricoltura, industria e commercio e pubblicata due anni dopo il rientro in Italia. Protagonista di questa sua prima analisi era il proletariato tedesco: una classe sociale ricca di potenzialità, a patto che venisse opportunamente educata ed efficacemente guidata.
Di ritorno dalla Germania, il M. fu chiamato nel 1886 a insegnare economia politica e scienza delle finanze nell’Università di Camerino. Nel 1888 passò a insegnare, in qualità di incaricato, scienza delle finanze e diritto finanziario nella facoltà giuridica dell’Università di Pavia al posto di L. Cossa; divenuto per concorso, dall’anno successivo, professore straordinario di scienza delle finanze nello stesso ateneo, ebbe anche l’incarico dell’insegnamento di statistica che, nonostante le sue iniziali titubanze, conservò fino al 1897, quando fu sostituito da A. Longo. Frattanto, a partire dal 1° genn. 1897, il M. venne trasferito sulla cattedra di economia politica, avendo vinto il concorso per ordinario, già tentato senza esito positivo nel 1893; conservò, tuttavia, ancora l’insegnamento di scienza delle finanze in qualità di incaricato.
Un’aspirazione assai viva per il M. era insegnare nell’Università di Napoli, e il trasferimento di M. Pantaleoni a Ginevra, sul finire del 1897, che liberava così la cattedra di economia politica di questo ateneo, gli sembrò un’occasione da non perdere. Ma l’ostacolo, rappresentato da F.S. Nitti, che gli opponeva la sua candidatura, si rivelò insormontabile: delle vivaci reciproche accuse che i due si scambiarono, è rimasta traccia nel Giornale degli economisti e ne La Riforma sociale. Il M., non senza disappunto, rimase pertanto «in esilio» a Pavia.
Grande fu l’impegno profuso dal M. nel Giornale degli economisti, periodico di cui, nel 1890, diventò comproprietario.
Da allora vi comparvero assiduamente le firme dei maggiori economisti italiani del tempo: M. Pantaleoni, A. De Viti De Marco, V. Pareto. E naturalmente la sua. Grazie al loro impegno, il Giornale risultò presto pressoché irriconoscibile: non era infatti più quello fondato a Padova nel 1875, e neppure quello rinato a Bologna nel 1886, ma diventò, all’insegna di un liberismo assai combattivo, una «rivista mensile degli interessi italiani», come si leggeva nel frontespizio. Dei quali si sarebbe fatto particolarmente carico il M., firmando una nutrita serie di interventi in una apposita rubrica denominata «Cronaca», volti a denunciare polemicamente le conseguenze negative della scelta protezionistica del 1878.
Al di là dell’importante battaglia condotta dal M. a sostegno del liberoscambismo, di grande rilevanza fu il suo contributo all’economia politica sul piano del metodo. Convinto marginalista, il M. riteneva sì che la disciplina fosse una scienza quantitativa, da affrontare dunque ricorrendo allo strumento matematico, ma egli aveva un «modo di vedere da matematico» che gli consentiva di «scansa[re] le formole [pur] serba[ndo] all’Economia il carattere esatto» (Benini, pp. 369 s.). Ed «esatto» è il carattere che si riscontra nel volume scritto in chiave marginalista su I dati scientifici della finanza pubblica (Roma 1890), opera che nel campo della teoria della finanza pubblica rappresentò un contributo che ha lasciato il segno.
Il problema centrale che il M. affrontò fu quello di trovare il modo di misurare il grado di utilità che una stessa dose di un bene aveva per due diversi individui. Non era un problema che gli economisti del tempo avessero trascurato. Esso presentava però ben altre difficoltà quando ci si trovava in presenza (era appunto questo il caso del M., che lo affrontava sul terreno della scienza delle finanze) non di bisogni individuali, ma di bisogni collettivi o pubblici, i quali comportano spese che lo Stato deve sostenere e deve quindi in qualche modo giustificare. Del resto, è la stessa attività finanziaria dello Stato a trovare la propria ragion d’essere nell’esistenza di bisogni collettivi o pubblici, che esso è chiamato a soddisfare con beni e servizi collettivi o pubblici.
La tradizione italiana di finanza pubblica, al cui interno il M. si muoveva, non negava, a differenza di quella classica, la produttività dei servizi pubblici forniti dallo Stato. Venne dunque al M. spontaneo interrogarsi sull’essenza dei bisogni collettivi. Egli si mosse su più piani. Sottolineò anzitutto che i bisogni pubblici presentavano una tendenza al consolidamento, vale a dire a congiungersi. A stretto rigore, tale tendenza, riguardante sia l’utilità sia il costo, era in realtà una caratteristica di tutti i bisogni, non solo di quelli pubblici, ma in quest’ultimo caso essa sembrava accentuarsi. Il M. osservò inoltre che i beni pubblici dovevano venire considerati complementari a quelli privati ed essere riferiti entrambi agli individui: ciò comportava che l’utilità dei beni pubblici era connessa con quella dei beni privati. Ne conseguiva che, all’interno di un Paese, l’utilità complessiva risultava massimizzata se le sue risorse venivano distribuite in maniera tale che tutti i beni utilizzati, sia pubblici sia privati, avevano lo stesso grado finale di utilità. In secondo luogo, il M. riteneva – e fu tra i primi, nell’ambito della teoria dei beni pubblici, a sostenerlo – che tali beni si caratterizzavano per la loro indivisibilità: ne derivava che del pari indivisibile era il loro uso. Era infatti impossibile, a suo avviso, quantificare la quota individuale di consumo dei beni pubblici (quali la tutela dell’ordine, della salute pubblica e via dicendo), e quindi la soddisfazione singola che detto consumo comportava. Pertanto, dall’indivisibilità del consumo scaturiva l’impossibilità di stabilire anche un prezzo singolo di mercato; e l’equilibrio per il consumatore sarebbe stato realizzato allorquando il suo budget fosse stato suddiviso tra i beni pubblici e quelli privati in modo tale da garantire l’uguaglianza delle due utilità marginali. Il risultato finale era sempre la massimizzazione dell’utilità, la cui valutazione il M. affidava però a enti governativi. E qui emergeva il punto debole della sua teoria: se era lo Stato a dover effettuare tale valutazione, come era possibile raggiungere un equilibrio derivante dalla massimizzazione del comportamento dei consumatori? (Fausto, p. 76).
Il concetto di consolidamento dei bisogni collettivi e quello dell’indivisibilità dei beni pubblici sono le maggiori acquisizioni teoriche conseguite dal M. in questo primo importante studio. A esso seguì L’imposta progressiva in economia pura e sociale (Napoli 1895) che, pur riscuotendo minore attenzione, contiene un contributo di rilievo: vi si nega, infatti, che l’approccio utilitaristico possa servire a spiegare la progressività dell’imposta.
Per il M. la progressività non necessitava di particolari spiegazioni teoriche, non essendo altro che una naturale conseguenza dell’organizzazione democratica della politica: una tassazione progressiva si sviluppava quando individui forniti di redditi mediobassi conquistavano il potere politico e riuscivano a spostare sui redditi più alti il peso fiscale prima gravante su di essi (L’imposta progressiva, cit., pp. 172-174). Merita poi di essere ricordato che il M. non era favorevole a gradi di progressività troppo elevati, per i numerosi effetti negativi che a essi potevano accompagnarsi (ibid., pp. 158 s.).
Del M. vanno segnalati ancora tre saggi usciti nel 1898: Due colonie modello in Pomerania: Neu-Sternin e Wusterwitz (in Giorn. degli economisti, s. 2, IX [1898], novembre, pp. 462-470); Le origini, le vicende e le forme storiche della colonizzazione in Prussia (ibid., dicembre, pp. 513-546); e, nella collezione degli «Annali di agricoltura», pubblicazione promossa dal ministero dell’Agricoltura, industria e commercio, La colonizzazione interna in Prussia (Roma 1898).
Il M., che si era documentato diligentemente compiendo una serie di viaggi in Germania, si soffermava in dettaglio sulla situazione della proprietà fondiaria in Prussia, la cui formazione appariva ai suoi occhi come uno fra i maggiori «processi storici di spoliazione che la storia registri» (Le origini…, cit., p. 533). Chi quella spoliazione subì, vale a dire i contadini, finì con il venir trattato, denunciava, come un essere a mezza strada tra l’uomo e la bestia.
Sono infine da menzionare le Lezioni di scienza delle finanze e diritto finanziario (Pavia 1889) e Il momento economico dell’arte, apparso postumo nel Giornale degli economisti (s. 2, XI [1900], agosto, pp. 117-138).
Il M. morì a Courmayeur il 14 ag. 1899.
Altri scritti: Il fondamento scientifico dell’economia di Stato (Napoli 1888); La società di navigazione italo-britannica, in Giorn. degli economisti, s. 2, I (1890), novembre, pp. 525-532; L’aumento del dazio sul grano, ibid., II (1891), febbraio, pp. 190-198; Lo Stato e l’industria nazionale, ibid., pp. 199-203; Stefano Jacini, ibid., aprile, p. 443; Recensione a F.S. Nitti, Il saggio di sconto e le imposte sulla circolazione bancaria, ibid., IX (1898), ottobre, pp. 378-392; Il resoconto del Banco di Napoli, ibid., dicembre, pp. 569-577; Associazione economica liberale, ibid., X (1899), febbraio, pp. 176-185; marzo, pp. 279-285; Ancora dell’opera del sig. F.S. Nitti, ibid., pp. 291-298; «Commenti» su tematiche di attualità ibid., nelle diverse annate (novembre 1890 - novembre 1898); The formation of the prices of public goods, in Classics in the theory of public finance, a cura di R.A. Musgrave - A.T. Peacock, London 1958, pp. 37-47.
Fonti e Bibl.: Pavia, Arch. di deposito dell’Università, Fascicoli personale docente, Ugo Mazzola, anni vari, pp. n.n.; Annuario della Università degli studi di Camerino per l’a.s. 1886-87, p.12; Relazione della Commissione esaminatrice del concorso per professore ordinario alla cattedra di economia politica nella R. Università di Napoli, in Boll. ufficiale del ministero dell’Istruzione pubblica, XXVI (1899), I, n. 14, (6 apr. 1899), pp. 700, 704, 706 s.; M. Pantaleoni, U. M., in Giorn. degli economisti, s. 2, X (1899), settembre, pp. 189-198; A. Cabiati, Al maestro, ibid., pp. 199-204; A. Codacci-Pisanelli, La fine di U. M., ibid., ottobre, pp. 362-367; R. Benini, U. M., ibid., pp. 368-371; F. Barbagallo, Francesco S. Nitti, Torino 1984, pp. 87-92; F. Caffè, M. U., in The New Palgrave. A Dictionary of Economics, a cura di J. Eatwell - M. Milgate - P. Newman, London-Basingstoke 1987, III, pp. 409 s.; I. Magnani, Dibattito tra economisti italiani di fine Ottocento, Milano 2003, pp. 10, 13 s., 25, 30 s., 34-37, 40 s., 44, 54 s., 57, 64, 66, 69-72, 74, 78, 82, 84, 87, 89 s., 92, 102, 112, 129, 165, 169, 174, 176 s., 191-197, 204, 207, 210, 256 s.; D. Fausto, The Italian approach to the theory of public goods, in The European Journal of the history of economic thought, XIII (2006), 1, pp. 75-77.