OJETTI, Ugo
OJETTI, Ugo. – Nacque a Roma il 15 luglio 1871, da Raffaello, architetto e scrittore d’arte, di tendenze liberali, e da Veronica Carosi, di origine spoletina.
Compì gli studi presso il collegio dei gesuiti di S. Ignazio a Roma, e nel luglio 1892 si laureò in legge alla Sapienza, con il massimo dei voti e la lode. Ottimo conoscitore delle lingue inglese e francese, pensò inizialmente alla carriera diplomatica, pubblicando scritti di argomento storico-giuridico nella Rassegna nazionale (L’ambasciatrice e i suoi diritti nel secolo XVII-XVIII, 1° agosto 1892, pp. 401-440).
Nello stesso anno diede alle stampe la prima raccolta di versi, Paesaggi (Roma 1892), ispirata alla campagna umbra dove soggiornava presso la famiglia della madre. L’anno successivo, guardando al modello giornalistico di Ferdinando Martini, iniziò a collaborare con la Nuova Rassegna di Luigi Lodi, la Tribuna, il Fanfulla della domenica. Pubblicò quindi un volume di racconti di ispirazione verista (Senza Dio, Milano 1894) cui seguirono altre opere: L’onesta viltà (Roma 1897), Il vecchio (Milano 1898), Il gioco dell’amore (ibid. 1899), Le vie del peccato (ibid. 1902), Il cavallo di Troia (ibid. 1904), la raccolta di racconti Mimì e la gloria (ibid. 1908), Donne, uomini e burattini (ibid. 1912) e L’amore e suo figlio (ibid. 1913).
In campo teatrale, oltre a traduzioni (sua la versione italiana di Oltre il potere nostro di Bjørnstjerne Bjørnson, Milano 1895, e La toga rossa di Eugène Brieux, ibid. 1900) fu attento a segnalare e recensire le opere di Henrik Ibsen, di cui era appassionato ammiratore. Scrisse l’atto unico Un garofano (1905), in seguito messo in scena da Ettore Petrolini, e, in collaborazione con Renato Simoni, la commedia Il matrimonio di Casanova (Milano 1910).
La pratica della letteratura – con un’ispirazione che seguì via via i modelli carducciani, dannunziani, tolstoiani, francesi – costituì comunque per Ojetti un campo di sperimentazione, eclettico ma non dilettantesco, per una lingua elevata e variata capace di innovare la tradizione del giornalismo ‘romano’, letterario ed elitario, ampliandone la fruizione e destinandola a un più vasto pubblico.
Dopo aver conosciuto Gabriele D’Annunzio nel 1894, raccolse i frutti della notorietà con una fortunata inchiesta destinata a lasciar traccia (Alla scoperta dei letterati, Milano 1895), in cui riunì in volume una serie di colloqui con i maggiori scrittori del tempo intorno allo stato della letteratura italiana: Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Antonio Fogazzaro, Giovanni Verga, Enrico Panzacchi, Edmondo De Amicis, Matilde Serao, lo stesso D’Annunzio.
Nell’Introduzione venivano elaborati temi che avrebbero caratterizzato la prima fase della sua produzione: la contaminazione tra giornalismo e letteratura attraverso il modello anglosassone dell’interview; l’attenzione alla formazione di un pubblico ampio e non specialistico; la presa di posizione antinaturalistica, a favore di un dichiarato idealismo letterario, e l’impegno per una rinascita della letteratura nazionale. Nella Prefazione all’edizione del 1947 (Firenze, Le Monnier), Pietro Pancrazi sottolineò l’emergere di alcuni tratti distintivi dell’autore: l’intelligenza scettica, la curiosità per la comprensione della psicologia altrui, la disposizione all’ascolto più che all’esibizione della propria soggettività, la sostanziale attitudine critica.
Il tema della rinascita letteraria ebbe risonanza e fu riproposto a Venezia nel discorso L’avvenire della letteratura italiana (1896), dove il giovane Ojetti abbracciava una posizione apparentemente idealistica e cosmopolita – ostile a interventi di patriottismo culturale (cfr. La grande illusione, in Il Marzocco, 22 marzo 1896), o all’imitazione pedissequa di modelli di successo (Il contagio dannunziano, ibid., 20 febbraio 1898) – di fatto ‘tainiana’ nel postulare la derivazione delle condizioni di una letteratura nazionale dal complesso dei valori condivisi da un popolo a un dato livello di civiltà.
Una nuova letteratura nazionale, che Ojetti auspicava, avrebbe potuto svilupparsi solo nel momento in cui se ne fossero determinate le condizioni, ossia l’affermazione di un nuovo idealismo innestato nella tradizione. In questo senso, un esercizio ideologicamente motivato della professione di giornalista e pubblicista veniva a essere strumento della battaglia culturale dei ‘nati dopo il 1870’ contro il vecchio establishment risorgimentale. «Ojetti si allinea, dunque, in questo scorcio di secolo, alla proposta dannunziana di un adeguamento dello stile giornalistico al registro “alto” della tradizione letteraria nazionale, per fondare poi, su questa capacità linguistico-espressiva una figura professionale che, elevando ad un buon grado di dignità etica e culturale il proprio mestiere di scrivere, trovi posto nella categoria degli scrittori specializzati» (Nardi, 1990, p. 57).
In quel medesimo torno di tempo deve situarsi anche la breve fase di impegno politico: nel 1895 collaborò alla fondazione del periodico socialista La giovane Umbria; l’anno successivo si candidò senza successo coi socialisti alle elezioni amministrative di Spoleto e collaborò con l’Avanti! diretto da Enrico Ferri. Professava un socialismo di tendenza laico-riformista, bissolatiana, considerandolo un ‘idealismo’ capace di animare le giovani generazioni (v. Esortazioni all’eroico, in Il Marzocco, 27 novembre 1898). Ipotizzata ma non attestata la sua affiliazione alla massoneria negli stessi anni.
La sua attività giornalistica decollò presto. Dal 1898 iniziarono le collaborazioni con alcuni fra i maggiori quotidiani italiani, soprattutto con corrispondenze, rubriche e interventi di argomento artistico. Dopo aver inviato corrispondenze alla Tribuna da un viaggio in Egitto agli scavi di Luxor, fu incaricato dal Corriere della sera di coprire dagli Stati Uniti le vicende della guerra ispano-americana.
Gli articoli, condensati nella fortunata conferenza L’America e la fiducia in noi stessi, uscirono in un volume con il titolo L’America vittoriosa (Milano 1899), che metteva a fuoco il suo interesse per la modernità della società americana, intesa come determinazione sia individuale sia collettiva all’imporsi negli affari come anche nello scenario internazionale, e come indicazione della necessità per l’Italia di un rinnovamento dello spirito nazionale in senso attivistico, vitalistico, ottimista circa le proprie capacità di autoaffermazione, al fine di scongiurare il destino di decadenza riservato ai popoli latini. Da viaggi e soggiorni successivi prese forma la raccolta L’America e l’avvenire (ibid.1905).
Per il Corriere, oltre a collaborare per breve tempo al settimanale domenicale La Lettura con la rubrica «La settimana del vagabondo», seguì dalla Norvegia la partenza della missione polare del duca degli Abruzzi con la rubrica «Lettere boreali» (1899), l’Esposizione universale di Parigi (1900), nonché la ‘questione della lingua’ a Malta (1901). Viaggiò inoltre in Albania (pubblicando poi le sue impressioni in L’Albania, Torino 1902) e nella Russia asiatica. Nel 1904 fu negli Stati Uniti come giurato all’Esposizione di belle arti, e seguì da St. Louis le elezioni presidenziali.
Prima di essere legato al Corriere con un contratto in esclusiva (1908), collaborò con altri quotidiani, e soprattutto periodici. A Il giornale d’Italia diede per un periodo la rubrica «Lettere parigine» (1901). Nella capitale francese – dove era già introdotto per aver pubblicato nella Revue de Paris e la Revue des deux mondes – frequentò il mondo dei salotti letterari grazie all’amicizia con il conte Giuseppe (Gegé) Primoli, con il quale frequentava anche la mondanità letteraria romana.
Con il passaggio al grande quotidiano, realizzò un’originale fusione fra la matrice letteraria, polemica, briosa e mondana della sua formazione giornalistica, e l’orizzonte informativo, misurato e manageriale, proprio della prestigiosa testata milanese, riconoscendosi nella ricerca di un grande pubblico, obiettivo che lo caratterizzò fin dagli esordi. In tale prospettiva particolarmente funzionali furono gli appunti di viaggio: nei numerosi reportages sperimentava il frequente cambiamento di registro compositivo e di contenuto – dalla descrizione naturalistica, architettonica e d’ambiente alla cronaca di costume ironica e distaccata, dai ritratti di grandi personalità politiche e letterarie ai quadri comparativi di società diverse – che gli consentì di ampliare gli orizzonti del linguaggio giornalistico, attraverso una costante contaminazione di stili e di contenuti, con esiti ed effetti nel complesso sprovincializzanti.
Il côté mondano e leggero della sua produzione continuò ad avere uno spazio significativo; le cronache settimanali uscite fra il 1904 e il 1908 nell’Illustrazione italiana (firmate Il conte Ottavio), furono raccolte in due volumi e pubblicate presso Treves con il titolo I capricci del conte Ottavio (I-II, 1908-09), e segnarono un ulteriore consolidamento della ricerca di un rapporto con il grande pubblico.
Precisò il campo dei suoi contributi critici più professionali e specialistici, individuandolo precocemente nell’ambito artistico, dove prese subito posizione a favore di un’ispirazione antinaturalistica e idealistica (si veda Il pensiero nella pittura, conferenza tenuta a Venezia il 29 gennaio 1897, in Il Marzocco, 14 febbraio 1897).
Ai suoi contributi tenne che fosse riconosciuto carattere di competenza e professionalità: e sulla professionalizzazione della figura del critico d’arte formulò una fra le prime teorizzazioni esplicite (Diritti e doveri del critico d’arte moderna, in La Nuova Antologia, 6 dicembre 1901, pp. 734-743, testo che fu riutilizzato per stendere la relazione finale per il conferimento del premio al miglior critico d’arte alla Biennale veneziana del 1903, dove componeva la commissione insieme con Pompeo Molmenti e Giuseppe Giacosa).
La sua attività di critico d’arte gli valse nel 1905 la nomina a membro della commissione per la Pinacoteca di Napoli per il ministero della Pubblica Istruzione (con Camillo Boito, Alfredo D’Andrade, Primo Levi) e a membro della Commissione centrale per i monumenti e per le opere di antichità e d’arte, dopo essere stato, come sopra accennato, membro della giuria della Biennale per il premio al miglior critico (1903). In seguito, tutti gli articoli apparsi nel Corriere della Sera di argomento artistico portarono sempre la firma di Ugo Ojetti. Sempre nel 1905 sposò Fernanda Gobba, piemontese, da cui ebbe l’unica figlia Paola (1914-1978).
La sua posizione in campo artistico e architettonico si indirizzò verso una difesa decisa dei caratteri della tradizione italiana, nel cui ambito dovevano essere calati e attentamente commisurati gli interventi di modernizzazione. In quest’ottica si pronunciò in opposizione ai piani regolatori che prevedessero interventi troppo radicali di trasformazione urbana, e in favore di provvedimenti selettivi di ‘diradamento’ miranti alla conservazione delle antiche strutture urbane (Il pregiudizio del rettifilo e l’arte nelle strade, relazione al Congresso artistico internazionale di Venezia, 1905; pubbl. Venezia 1908). Fu vicino alle posizioni di Corrado Ricci, della cui candidatura a direttore generale delle Antichità e belle arti fu sostenitore (1906). Nello stesso anno affrontò ancora questioni urbanistiche come membro della giuria al primo concorso nazionale per la sistemazione della Fiera di Bergamo. Fu peraltro sempre attento alle realizzazioni ‘civili’ dell’arte applicata, decorativa e industriale, di cui apprezzava gli aspetti di modernità – per esempio nel settore dei trasporti – senza mai accedere a posizioni formali di tipo modernista. In questa prospettiva seguì l’Esposizione del Sempione del 1906, raccogliendo poi le recensioni nel volume L’arte nell’esposizione di Milano (Milano 1906).
Nel 1907 seguì le vicende della costruzione del Vittoriano, con una serie di articoli molto polemici nel Corriere della sera, che avviarono una vivace querelle intorno al progetto affidato a Ettore Ferrari, poi raccolti in volume (Il monumento a Vittorio Emanuele II in Roma e le sue avventure, Milano 1907). Fu molto attivo nell’alimentare, insieme con i fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto e il gruppo del Marzocco – in cui aveva ripreso a pubblicare pezzi di argomento artistico – il dibattito intorno alla necessità dell’approvazione di una legge per la difesa del patrimonio artistico nazionale (La difesa di Firenze antica. Una petizione al Senato per il disegno di legge sull’antichità e belle arti, in Corriere della sera, 7 dicembre 1908).
Dal 1908 iniziò nel Corriere la serie di profili critici Ritratti d’artisti contemporanei, e poi la rubrica «Libri d’arte». Le Note critiche sulle Biennali veneziane vennero pubblicate da Treves come apparato di commento alle riproduzioni fotografiche delle opere presentate all’Esposizione (1907, 1909, e via enumerando).
Le linee guida dell’impegno come critico d’arte presero forma con l’importante Mostra del ritratto italiano dal 1500 al 1861, di cui curò l’allestimento in Palazzo Vecchio in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia, nel 1911: intendeva indicare i caratteri peculiari della tradizione italiana nella pittura, rinvenendone le radici nell’interpretazione del classicismo di matrice tardorinascimentale. L’allestimento, apprezzato da Corrado Ricci, avviò una diffusa rivalutazione delle opere italiane del periodo sei-settecentesco, che l’influenza ruskiniana aveva in effetti trascurato, a favore dell’arte medioevale. Con questo come con altri progetti Ojetti intendeva realizzare una sorta di contraltare della Biennale d’arte veneziana, per tracciare la linea di svolgimento dell’arte nazionale (v. Ritratti di artisti italiani, Milano 1911), cui andava ricondotta anche la lettura delle opere più attuali (proposta contemporaneamente con la mostra di ritratti infantili prodotti da autori contemporanei, come Gaetano Previati, Felice Casorati, Giovanni Costetti, Federico Andreotti, presso la Società Leonardo da Vinci in Firenze).
Il suo peso nell’orientare il panorama ufficiale dell’arte contemporanea andò aumentando, in corrispondenza con il crescente coinvolgimento in incarichi istituzionali: dal Consiglio superiore di antichità e belle arti (1912), a varie commissioni giudicatrici (per il basamento della statua equestre del monumento a Vittorio Emanuele in Roma, 1911; per la selezione del direttore del Museo del Bargello in Firenze, 1912; per l’allestimento della retrospettiva su Tranquillo Cremona alla Biennale di Venezia, 1912).
Nel 1912 pubblicò a Bergamo La decima esposizione d’Arte a Venezia, cui seguì, nel 1913, La pittura: i diversi processi, le malattie dei colori, i quadri falsi (ibid.: con la collab. di Charles Moreau-Vauthier e prefaz. di Giulio Aristide Sartorio).
Romano di nascita, aveva comunque eletto Firenze come residenza e dal 1914 abitava la villa del Salviatino presso Fiesole. Con lo scoppio della Grande Guerra, si concentrò nella campagna interventista, con la rubrica «Esami di coscienza» nel Corriere, e impegnandosi nella denuncia del bombardamento di Reims, dove si recò personalmente nella primavera del 1915 insieme con D’Annunzio.
Il rapporto di amicizia con il vate aveva attraversato fasi alterne ma si rivelò durevole: negli anni del trasferimento del poeta in Francia ad Arcachon, si occupò, d’intesa con il direttore del Corriere Luigi Albertini, della vendita all’asta dei beni di D’Annunzio e della cura dei suoi interessi. Nel 1914 si adoperò per il suo rientro in Italia, al fine di agire nella campagna interventista, cui lo stesso Ojetti aveva partecipato pubblicamente pronunciando un discorso dai toni fortemente antitedeschi, L’Italia e la civiltà tedesca, pronunciato in Firenze il 29 novembre 1914 (poi pubbl. in opuscolo: Milano 1915).
La difesa del patrimonio artistico fu terreno d’elezione della sua vita militare, durante la quale dovette sospendere l’attività giornalistica. Arruolato come volontario con il grado di sottotenente del genio, fu dal maggio 1915 incaricato della tutela dei monumenti nelle zone di guerra, venendo assegnato a Udine, presso l’ufficio Affari civili del Comando supremo, dove si occupò presto anche dell’ufficio stampa. Sul tema tenne anche svariate conferenze nella penisola e particolarmente significativo si rivelò l’uso propagandistico di testi e immagini sui tesori d’arte minacciati dalle operazioni belliche (v., in particolare, I monumenti italiani e la guerra, ibid. 1917; Il martirio dei monumenti, ibid. 1918). Dopo Caporetto, sempre presso il Comando supremo, fu incaricato di far parte della Commissione centrale di propaganda sul nemico, nota come ‘Servizio P’ (Seconda relazione sui lavori della Commissione centrale di propaganda sul nemico, 1° novembre 1918, Reggio nell’Emilia 1918). Per essere stato tra i primi a fare ingresso nella città di Gorizia fu insignito con la medaglia di bronzo.
Congedato con il grado di capitano di complemento, dopo la fine del conflitto proseguì l’attività per la tutela dei monumenti (Monumenti danneggiati e opere d’arte asportate dal nemico. Difesa dei monumenti e delle opere d’arte contro i pericoli della guerra, Roma 1919) e tenne sotto osservazione per qualche tempo la situazione delle terre redente (Roma e le provincie liberate, Milano 1919; Il patto di Roma, in Quaderni della Voce, 1919, con Giovanni Amendola, Giuseppe Antonio Borgese e Andrea Torre), ma non condivise l’agitazione dannunziana per l’impresa fiumana. Tornò presto infatti a occuparsi delle mostre di pittura (personale di Romano Dazzi a Roma; personale di Ettore Tito e retrospettiva di Giuseppe Pellizza a Milano; retrospettiva di Giovanni Fattori a Roma). Riprese anche le corrispondenze di costume, con la rubrica delle «Confidenze» nell’Illustrazione italiana (poi riunite in volume: Confidenze di pazzi e savi sui tempi che corrono, Milano 1921), dove tra il 1920 e il 1921 tenne la rubrica «Volti e paese».
Sempre nel 1921 uscì da Treves Raffaello e le altre leggi (ibid.); di argomento artistico aveva pubblicato l’anno precedente I nani tra le colonne (ibid. 1920), mentre all’anno successivo datano la seconda serie della raccolta dei medaglioni critici, Ritratti d’artisti (ibid. 1922) e la fortunata prova narrativa di Mio figlio ferroviere (ibid. 1922).
Nel 1921 iniziò anche la pubblicazione, con lo pseudonimo Tantalo, dei bozzetti, ritratti e impressioni, apparsi nel Corriere come Cose viste, poi raccolti con lo stesso titolo in sette volumi usciti fra il 1923 e il 1939 da Treves (salvo gli ultimi due, usciti presso Mondadori). Nelle Cose viste, unitarie nel tono e nello stile, ma varie negli oggetti e negli argomenti, brillava il talento ojettiano per il ritratto psicologico e di costume, fondato sulla curiosità, la capacità di osservazione e uno scetticismo virante al cinismo.
Durante gli anni Venti, con la comparsa della prima delle rassegne d’arte di cui fu direttore, Dedalo, insieme con la vasta attività di organizzazione di esposizioni d’arte, e alla composizione di manuali di storia dell’arte, Ojetti pose in essere una complessiva rilettura della tradizione artistica italiana, in una chiave di neo-tradizionalismo classicista che favorì la sua adesione al fascismo.
Grande successo ottenne la Mostra della pittura italiana dal ‘600 al ‘700 (Firenze, Palazzo Pitti, 1922), con la quale proseguiva la linea ideale avviata con la Mostra del ritratto italiano del 1911. Sulla stessa linea agivano i testi di storia dell’arte: La pittura italiana del Seicento e del Settecento (con N. Tarchiani - L. Dami, Roma 1924), e Atlante di storia dell’arte italiana: dalle origini dell’arte cristiana alla fine del Trecento (I, con L. Dami, Milano-Roma 1925; II, Dal Quattrocento alla fine dell’Ottocento, Milano 1934). Seguirono Il ritratto italiano dal 1500 al 1800 (Bergamo 1927); Tintoretto, Canova, Fattori (Milano 1928); Paolo Veronese (ibid. 1928), Ad Atene per Ugo Foscolo (ibid. 1928).
Il primo numero di Dedalo uscì nel febbraio 1921. Era una rivista di grande formato, ricca di fotografie e illustrazioni, che puntava ad allargare la fruizione del prodotto artistico presso il pubblico, accostando artisti importanti e arte minore e applicata, alternando antico e moderno, artisti italiani e stranieri, pittura e scultura, per favorire una rinascita dell’arte italiana contemporanea fondata su una continuità con la tradizione. In questa prospettiva, Ojetti avversava il vitalismo espressionista di Ardengo Soffici, come anche il pan-medievalismo di John Ruskin, accreditandosi come contraltare all’interpretazione formulata da Lionello Venturi ne Il gusto dei primitivi (1926), con cui polemizzò su Dedalo. Rimase sostanzialmente avverso alle applicazioni dell’idealismo crociano all’arte figurativa, non ospitando mai nelle sue riviste, oltre a Venturi, nemmeno Roberto Longhi. Argomentò la sua posizione in una lettera aperta a Croce, premessa al volume Scrittori che si confessano (Milano 1926).
Gli anni Venti lo videro impegnato in una serie di incarichi ufficiali, che consolidarono la sua posizione di monopolio del settore. Nel 1920 fu nominato presidente della commissione designata dal ministero della Pubblica Istruzione per la riforma dell’insegnamento artistico, che presentò un disegno di legge sulla valorizzazione degli Istituti d’arte e mestieri e dei prodotti dell’arte industriale, cui collegare, rinnovandole, le Accademie di belle arti.
Il rifiuto del dualismo fra Accademie e Scuole di arti e mestieri, punto qualificante dell’impegno di Ojetti, venne sostanzialmente ignorato dalla riforma Gentile, che riaffermava il ruolo separato delle Accademie, ribadiva la distinzione tra arti maggiori e minori, tra belle arti e arti decorative. Ciononostante, Ojetti non avversò mai Giovanni Gentile, venendo incaricato della redazione dei programmi di storia dell’arte per le scuole e collaborando alla Enciclopedia Italiana.
Nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti. Dopo un breve periodo di direzione del Corriere della sera nel quadro del processo di fascistizzazione della stampa italiana (marzo 1926 - dicembre 1927), la critica e la storia dell’arte restarono il campo principale: fu coordinatore della sezione arte dell’Enciclopedia Italiana fino al 1929 (rimanendo comunque nel consiglio direttivo fino al 1933). Nel 1929 fondò e diresse il mensile culturale-letterario-artistico Pègaso, di impianto più eclettico rispetto a Dedalo, di cui rappresentò una sorta di complemento. Dal 1930 fu accademico d’Italia.
Cessate le pubblicazioni di Dedalo e Pègaso, dal 1933 al 1935 fondò e diresse la rivista d’arte e cultura Pan, indirizzata all’aggiornamento su un ampio ventaglio di campi della cultura contemporanea – dalla musica alla pittura al cinematografo – offerto con grande varietà di voci. Nelle sue riviste seppe valorizzare giovani talenti letterari e giornalistici, fra cui Pietro Pancrazi, Alberto Moravia, Guido Piovene, Giovanni Comisso, Maria Bellonci, Diego Valeri; così come, in precedenza, nel Corriere aveva dato spazio a Paolo Monelli, Dino Buzzati, Orio Vergani.
Negli anni Trenta continuò a dare alle stampe scritti d’arte: Bello e brutto (Milano 1930), Le arti nell’Ottocento, in L’Italia e gli Italiani nel secolo XIX (Firenze 1930); Andrea Mantegna (Roma 1931); Tiziano e il Cadore (ibid. 1932), La pittura ferrarese nel Rinascimento (ibid. 1933). Pubblicò poi Ottocento, Novecento e via dicendo (Milano 1936); nonché una raccolta di aforismi (Sessanta, ibid. 1937) e una di discorsi (Più vivi dei vivi, ibid. 1938). A Firenze allestì in Palazzo Vecchio la Mostra del giardino italiano (1931), e nel 1933 presiedette il primo Maggio musicale fiorentino. A Parigi, al Louvre, organizzò la Mostra dell’arte italiana (1935). Inoltre, per Treves fondò la raccolta Le più belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi (1933), mentre per Rizzoli fondò e diresse «I classici» (1934).
Nel corso del decennio la sua attività critica subì una certa sclerotizzazione, passando dal neotradizionalismo programmatico a un conservatorismo ripetitivo e privo di programma, subalterno alle posizioni di potere raggiunte e consolidate all’ombra del regime. In campo architettonico fu notevole la sua opposizione al razionalismo della scuola di Marcello Piacentini, con particolare riferimento al progetto per la nuova stazione di S. Maria Novella in Firenze (che gli fruttò l’appellativo di ‘Sua Eccellenza archi e colonne’).
Dalla fine degli anni Trenta la sua produzione subì una certa flessione. Dopo l’uscita del profilo Italo Balbo (Verona 1941) e l’anno seguente del pamphlet L’arte ha da essere italiana? (Milano), nel 1942 fece parte della commissione per la Mostra della civiltà italiana, già colpito tuttavia dai primi sintomi di una lunga malattia, che gli sottrasse progressivamente lucidità intellettuale.
Nel 1943, dopo l’8 settembre venne nominato vicepresidente dell’Accademia d’Italia. Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, venne radiato dall’Albo dei giornalisti.
Morì a Fiesole il 1° gennaio 1946.
Opere di argomento diverso uscirono postume, spesso a cura della figlia Paola, fra cui: Ricordi di un ragazzo romano - Note di un viaggio tra la morte e la vita, ricordi di un grave infortunio subito nel 1926 (Milano 1958). Postumi sono usciti anche I taccuini (1914-1943), Firenze 1954; D’Annunzio, amico, maestro, soldato (1894-1944), ibid. 1957, e le Lettere alla moglie (1915-1919), a cura di F. Ojetti, ibid. 1964.
Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale, Fondo manoscritti, 250 (da ordinare e ancora non disponibile agli studiosi); Gabinetto Vieusseux, Arch. contemporaneo Alessandro Bonsanti, Fondo Ugo e Paola Ojetti (ca 10.000 volumi); Museo degli Uffizi, Gabinetto disegni a stampa, Fondo Ojetti (negativi relativi alle fotografie di corredo agli articoli apparsi nella rivista Dedalo e altre); Istituto storico della Resistenza, Carte Ugo Ojetti, allegate al Fondo Salvemini (corrispondenza di Salvemini agli Ojetti e lettere di altri mittenti sempre relative a Salvemini); Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Carteggi U. O. (piccola raccolta di documenti di Ojetti); Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, Fondo O. (carteggi indirizzati a O., in particolare quelli scambiati con i protagonisti del mondo dell’arte); Los Angeles, J. Paul Getty Research Institute, Fondo U. O. (corrispondenza personale, manoscritti e materiale a stampa relativi all’attività di O. come critico d’arte, la sua villa a Fiesole e altro).
Fondamentale è la consultazione dei lavori di taglio biobibliografico a opera di Marta Nezzo, con particolare riferimento a il Ritratto bibliografico di U. O., Pisa 2001. Ricchi di informazioni e spunti sono inoltre: Immagini nelle parole: U. O., a cura di C. Ceccuti - M. Vannucci, Milano 1978; Carteggio D’Annunzio - O., a cura di C. Ceccuti, Firenze 1979; I. Nardi, Il primo passo. Note sulla formazione di un giornalista letterato: U. O., Napoli 1990; G. De Lorenzi, O. e Soffici, Firenze 1996; M. Nezzo, Critica d’arte in guerra: U. O., Vicenza, 2003; G. De Lorenzi, U. O. critico d’arte. Dal «Marzocco» a «Dedalo», Firenze 2004.