TOGNAZZI, Ugo
(Ottavio Ugo). – Nacque a Cremona il 23 marzo 1922, primogenito di una famiglia piccolo borghese, seguito da Ines due anni dopo.
Il padre Ermenegildo, detto Gildo, un assicuratore milanese che serviva le provincie contadine, di malavoglia si era trasferito lì dopo il matrimonio con Alba Giavardi. Se la mamma casalinga, che lo voleva sacerdote, incarnò il languore della provincia, il padre fu per il piccolo Ugo un difficile interlocutore affettivo che gli incuteva soggezione. Forse anche per questo Tognazzi giocò, con le sue interpretazioni e nella vita, a sovvertire lo schema classico della famiglia tradizionale.
Il lavoro di Gildo fece trasferire più volte i Tognazzi nelle città d’area lombardo-veneta: un nomadismo che lasciò traccia nella tendenza di Ugo adulto a comprare terreni per costruire accoglienti dimore di campagna.
Il battesimo della scena lo ebbe da bambino in un paio di recite in teatro, senza riscuotere alcun successo, quasi un annuncio della lunga ‘gavetta’ che attendeva il futuro attore. Disinteressato agli studi e poco seguito dai genitori impegnati in frequenti traslochi, il ragazzino sentì il richiamo dell’avanspettacolo, in voga tra le due guerre: comicità, belle donne, spirito irriverente verso la morale borghese, una mistura di suggestioni che fece nascere in lui l’istinto istrionico, anche come antidoto alla timidezza.
Una grave malattia nervosa del padre provocò il dissesto finanziario della famiglia. Tornato nella città natale, dopo le scuole dell’obbligo, nel 1936 Ugo trovò un impiego al salumificio Negroni, continuando a coltivare la sua passione presso la filodrammatica del dopolavoro ferroviario, dove raccolse i primi consensi: nel 1939 si distinse interpretando due ruoli nella commedia Il ladro sono io di Giovanni Cenzato. Il servizio di leva pose fine alla placida vita cremonese. Fu arruolato in Marina a La Spezia, dove insieme al cantante Lucio Ardenzi, futuro impresario teatrale, allestì vari spettacoli per le truppe, in cui si esibiva con barzellette e imitazioni.
Dopo l’8 settembre 1943 tornò a Cremona, dove riprese il lavoro in ufficio, ma, ancor meno motivato, si fece licenziare. Spinto dalla necessità, Tognazzi si trovò a vestire la camicia nera. Gli venne trovato un nuovo incarico all’Ufficio Ammasso e fieno, ma era nelle ore serali che il giovane dava il meglio di sé, partecipando a spettacoli di varietà. Con l’appoggio del partito ne organizzò e interpretò uno al teatro Ponchielli (Una nuvola in vacanza, 1944), impegnandosi a devolvere l’incasso alla Repubblica sociale italiana (RSI). Secondo le cronache però la serata, alla quale presenziò anche il potente gerarca Roberto Farinacci, si chiuse in deficit, come pure il successivo spettacolo tenutosi al Politeama, Invece del cenone.
La difficile situazione spinse il giovane a tentare fortuna nella grande città, sfruttando l’appoggio di vari zii paterni a Milano, come egli raccontò: «partecipai a un concorso per dilettanti dal quale uscii trionfatore, e a cui seguì l’immediata proposta di diventare comico di varietà, di avanspettacolo. Da quel momento inizia il mio lavoro di attore, perché da quel momento diventa lavoro veramente, mi danno 150 lire al giorno, nel ’44 ci potevo campare» (cfr. Follie del varietà. Vicende, memorie, personaggi, 1890-1970, a cura di S. De Matteis - M. Lombardi - M. Somaré, Milano 1980, pp. 208 s.). Notato da due impresari della compagnia di Wanda Osiris, fu messo a contratto, ma non utilizzato, fino a che il precipitare degli eventi bellici culminati nel 25 aprile 1945 non fece sfumare l’occasione: avrebbe dovuto subentrare come comico di Osiris a Carlo Dapporto che il giovane cremonese considerava un maestro e imitava nelle sue serate di avanspettacolo in provincia.
Dopo la Liberazione Tognazzi debuttò ai microfoni della neonata RAI nella radiocommedia Cosa succede in casa Rossi? e fu scritturato in una delle nuove compagnie di giro del teatro di rivista: la dura vita di tournée lungo la penisola distrutta dalla guerra poteva toccare anche duecento piazze all’anno, per un magro guadagno.
In Viva le donne (1945), di Marcello Marchesi e Dino Gelich, Tognazzi si fece apprezzare come imitatore, affermandosi nei cast teatrali di cui fu protagonista per circa dodici anni. Con Polvere di Broadway (1946) incontrò la soubrette Elena Giusti, formando con lei il primo sodalizio in carriera. Mise a punto in quel periodo la sua comicità amichevole e sottotono, senza travestimenti, basata sulla dialettica verbale più che sul dialetto. Oltre all’eleganza surreale di Dapporto, suo riferimento era la simpatia di Walter Chiari (ancora evidente in successivi film come Tu che ne dici?, diretto da Silvio Amadio nel 1960), di due anni più giovane, ma già campione della rivista. Altro faro per lui fu Erminio Macario, grande divo che Tognazzi ebbe la fortuna di affiancare negli spettacoli Cavalcata di donne (1947) e Febbre azzurra (1948), ottenendo qualche notorietà. Su quei modelli Tognazzi innestò una vena tutta sua, provinciale, agrodolce, sorniona, che rimase sempre nel suo personaggio scenico.
Prese parte poi a due fra le riviste di maggior successo di quegli anni: Paradiso per tutti (1950) e Castellinaria (1951), entrambe di Gelich, con musiche di Alfredo Bracchi e Giovanni D’Anzi. La collega ‘soubrettina’ Lauretta Masiero fu una delle sue prime, innumerevoli partner, anche sentimentali. La crescente affermazione nel corso degli anni Cinquanta permise a Tognazzi di proporsi come attore anche nella prosa, in televisione e nel cinema.
Il suo esordio sullo schermo fu nel fortunato I cadetti di Guascogna (1950) di Mario Mattoli, basato sul mondo della rivista con una sceneggiatura di Marchesi e Vittorio Metz, in compagnia di affermati comici dell’epoca, tra i quali Chiari, Carlo Campanini, Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Croccolo, Aldo Giuffré. Inizialmente era il bellimbusto sprovveduto di esili trame come quelle di La paura fa 90 (1951, di Giorgio Simonelli), L’incantevole nemica (1953, di Claudio Gora), Mia nonna poliziotto (1958, di Steno), Femmine di lusso (1960, di Giorgio Bianchi), accanto a giovani dive come Delia Scala e Silvana Pampanini.
Arrivò a girare anche dieci film all’anno, ottenendo i primi ruoli da protagonista, come in Le olimpiadi dei mariti (1960, di Giorgio Bianchi), ma a far esplodere la sua popolarità furono la televisione e un importante sodalizio artistico con Raimondo Vianello. La loro coppia risultò longeva e irresistibile grazie anche alla collaborazione con un’altra coppia, quella degli autori fiorentini Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi. Per anni i quattro affiatati amici, cui si aggiunse Giusti, conquistarono consensi oltre che in teatro (Dove vai se il cavallo non ce l’hai?, 1951; Ciao fantasma!, 1952), alla radio, con programmi come Chicchirichì (1952), Cappello a cilindro (1953), La rivista delle luci (1954). La vera consacrazione però avvenne con il primo, popolarissimo show televisivo, Un, due, tre (1954-59 sul programma nazionale), dal numero di telecamere dello studio RAI di Milano. I due amici comici si presentavano in una veste nuova rispetto alla classica accoppiata di un buffo e una spalla (come Chiari e Campanini per esempio), porgendosi le battute a vicenda, entrambi riscuotendo risate, ciascuno con il proprio stile: signorile e freddo Vianello, ammiccante e più grasso Tognazzi. Con le riviste delle stagioni successive – Barbanera, bel tempo si spera (1953), Passo doppio (1954) – il duo emerse sempre nell’ambito della compagnia, cominciando a essere identificato con la sigla T. & V.
Destinati alla televisione, vi portarono una comicità rapida e ben rodata sui toni della freddura, del cinismo anche macabro, del nonsense all’inglese. La perfetta intesa di tempi comici e movimenti scenici era favorita dalle musiche ad hoc del compositore Lelio Luttazzi. Nella squadra vincente entrarono anche l’avvenente Dorian Gray e il giovane Gino Bramieri, coinvolti anche negli sketch. Il successo della banda arrivò oltreconfine, con i debutti parigini delle riviste Flash (riedizione di Passo doppio, 1954) e Campione senza volere (1955). Ma Tognazzi mantenne anche una sua autonoma dimensione, per esempio interpretando nel 1956, per la prima volta en travesti, la commedia televisiva La zia di Carlo (1892) di Brandon Thomas.
Sul fronte privato Tognazzi, con la nomea di seduttore, intrecciò numerose relazioni nell’ambiente teatrale; la ballerina irlandese- scozzese Pat O’Hara gli diede un primo figlio, Ricky, nel 1955. Intanto il successo della coppia T. & V. si estendeva al cinema, a partire dal film musicale Assi alla ribalta (1954, di Ferdinando Baldi e Giorgio Cristallini), ma sempre basato sul crescente successo di Un, due, tre, dove Ugo e Raimondo erano inizialmente solo presentatori di attrazioni internazionali di varietà, divenendo di puntata in puntata il piatto forte della trasmissione, con la complicità del regista Vito Molinari.
Alcuni tormentoni, come quello del ‘troncio e i trucoli’, divennero celeberrimi, come pure le parodie di situazioni e personaggi popolari (Marlon Brando, Gina Lollobrigida, Mario Soldati i più riusciti, poi gli stessi volti televisivi come Mike Bongiorno). Il gruppo sfuggiva alle maglie censorie della televisione pubblica grazie al fatto che molti numeri – trasmessi in diretta, come quasi tutta la televisione degli inizi – erano improvvisati o basati su scarni canovacci. Fu così che, dopo anni di continua ascesa, arrivò l’improvviso capitombolo. Un’imitazione del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi – caduto dalla sedia nel corso di un incontro ufficiale – fu sanzionata con la chiusura del programma al termine della stagione 1959 (la quinta) e l’allontanamento dal piccolo schermo dei suoi artefici.
In seguito Tognazzi spese la sua grande popolarità soprattutto nel cinema e in teatro, cominciando a sentirsi stretto nell’abito del comico. Si fece impresario di compagnia con Lia Zoppelli e Gianni Agus per portare in tournée un repertorio di prosa brillante – Il medico delle donne di Alfredo Bracchi (1955), Il fidanzato di tutte (1956, di Max Shulman e Robert Paul Smith), Papà mio marito (1957, di Alfred-Néoclès Hennequin e Albert Millaud) – senza molto successo. Il filone boulevardière incrociò la rivista in Uno scandalo per Lili (1957, di Scarnicci & Tarabusi) con Masiero, Gianrico Tedeschi, Mario Scaccia, le musiche jazz di Luttazzi e la regia di Luciano Salce, che divenne per Ugo un importante amico e complice.
Dopo un ultimo episodio teatrale nel 1960 (Gog e Magog di Roger McDougall e Ted Allan), Tognazzi esordì come regista di cinema, dirigendosi in Il mantenuto (1961) come tranquillo impiegato dalla doppia vita notturna scambiato per protettore di prostitute. Pur nella chiave dell’equivoco traspare nella trama il gusto di Tognazzi per il ribaltamento della morale borghese che fu sempre nelle sue corde. Il film uscì nel 1961, anno di svolta per l’attore grazie soprattutto a Il federale.
Diretto da Salce, Tognazzi è un fascista tanto convinto quanto ingenuo – come certi italiani di vent’anni prima – che sogna la promozione a federale, mettendo tutto il suo zelo nel trasporto di un prigioniero politico, intellettuale antifascista, il quale alla fine lo salverà da una brutta fine. Partner del cremonese doveva essere l’amico Vianello, ma fu lo stesso protagonista a chiederne un altro (Georges Wilson) per non ricadere nel cliché della coppia comica. Una scelta vincente che mise in evidenza un’attitudine autoriale, propria di pochi attori: Il federale fu campione d’incassi stagionale e svelò ai critici – come allo stesso Tognazzi – un attore nuovo: «Ho capito che [...] non dovevo imporre una maschera, che di volta in volta sarei stato Tognazzi calato in un personaggio» (cfr. L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1960-1969, a cura di F. Faldini - G. Fofi, Milano 1981, p. 113).
L’anno dopo la formula fu ripresa con successo in La marcia su Roma di Dino Risi, in cui Tognazzi duettò con Vittorio Gassman. Dopo dieci anni nel cinema e circa cinquanta pellicole di scarso rilievo, con questi due film Tognazzi approdò alla sua maturità professionale, con la lenta progressione che gli era propria.
Il moltiplicarsi di proposte per lo schermo lo fece allontanare dal teatro e dalla televisione, tranne rare occasioni negli anni Settanta come la serie gialla FBI - Francesco Bertolazzi investigatore (1970) sceneggiata da Age (Agenore Incrocci) e Furio Scarpelli, un’edizione di Milleluci (1974) ancora in coppia con Vianello e vari divertenti spot pubblicitari, tra i quali quello per il salumificio Negroni (1960-77) da cui era stato licenziato in gioventù per ‘scarso rendimento’.
La versatilità conquistata dall’attore lo rese uno dei volti ideali nella stagione aurea della commedia all’italiana, capace tanto di caricare la sua prestazione di deformazione grottesca, quanto di lavorare per sottrazione a personaggi più introspettivi, come l’inquieto investigatore del Commissario Pepe (1969, di Ettore Scola). Il suo spettro interpretativo si può apprezzare per esempio nei film contemporanei del 1970, Venga a prendere un caffè da noi di Alberto Lattuada e Cuori solitari di Franco Giraldi, o nei due ruoli sostenuti nel 1974: Permettete signora che ami vostra figlia? di Gian Luigi Polidoro e Romanzo popolare di Mario Monicelli.
Dagli anni Sessanta fu annoverato tra i cinque ‘colonnelli’ del cinema italiano con Alberto Sordi, Gassman, Nino Manfredi e Marcello Mastroianni, gli stessi colleghi che Tognazzi evocò ironicamente nel racconto Kuatter contro Kuatter, pubblicato dalla rivista Panorama nel 1980. Seppe anche – meglio di altri - scegliere personaggi variegati, spesso a lui vicini; ma anche ruoli sgradevoli, come l’industriale milanese rampante di La voglia matta (1962, di Salce) che si rende ridicolo nel tentativo di sedurre una ragazzina o il gretto provinciale di Il magnifico cornuto (1964, di Antonio Pietrangeli). Lo dimostra anche il longevo e felice sodalizio artistico – nato in quello stesso snodo di anni – con l’allora misconosciuto regista Marco Ferreri, che lo diresse nel suo primo film italiano, Una storia moderna: l’ape regina (1963), che fu oggetto di una lunga vicenda censoria. Nei panni di un uomo distrutto da un matrimonio borghese Tognazzi fu insignito del Nastro d’argento del 1964 come miglior protagonista (lo ottenne poi anche per La bambolona, 1969, di Franco Giraldi; La tragedia di un uomo ridicolo, 1981, di Bernardo Bertolucci; e come non protagonista per una caratterizzazione di pochi minuti in Io la conoscevo bene, 1965, di Antonio Pietrangeli). Sempre del 1964 è La vita agra di Carlo Lizzani, dall’omonimo romanzo di Luciano Bianciardi, di cui Tognazzi aveva acutamente acquistato i diritti per ritrovarsi poi a essere lo splendido protagonista di uno dei film che meglio fotografano Milano in tumultuosa trasformazione.
Ancor più deformante e grottesco del primo fu il secondo film con Ferreri, La donna scimmia, sempre del 1964, in cui Tognazzi è il cinico sfruttatore di una povera sfigurata (Annie Girardot) resa un fenomeno da baraccone con drammatiche conseguenze. La singolarità della pellicola è pari alle censure e ai tentativi di manipolazione che subì, a partire dagli interventi dal suo stesso produttore Carlo Ponti. L’adesione di Tognazzi al cinema abrasivo di Ferreri non gli precluse il successo in progetti più commerciali, come I mostri (1963) di Dino Risi, in cui lo stesso cinismo è virato al comico-grottesco in brevi e folgoranti episodi. In alcuni Tognazzi forma una coppia formidabile con Gassman, in un altro è il pessimo padre di suo figlio Ricky, che recitò diverse altre volte accanto al genitore. Questa alternanza di maschere popolari e ruoli scomodi è più marcata in Tognazzi rispetto ai già citati colleghi del suo rango.
L’attore condivise con tanti suoi personaggi il debole per le donne: nel 1962 incontrò l’attrice norvegese Margarete Robsahm, sua prima moglie (nel 1963) e madre del suo secondo figlio, Thomas (n. 1964): un’unione breve. In seguito ad altre relazioni, un secondo matrimonio lo legò dieci anni dopo all’attrice Franca Bettoja, dalla quale aveva già avuto altri due figli, Gianmarco (n. 1967) e Maria Sole (n. 1971). Nella sua tenuta di Velletri Tognazzi creò una ‘famiglia allargata’ in anticipo sui tempi, dove vivevano o erano ospitati tutti i figli.
La stessa dimora diventò sede di un torneo annuale di tennis – lo sport più amato da Ugo insieme al calcio – oltre che cenacolo di amici e colleghi in cui Tognazzi si esibiva come cuoco. La passione culinaria, anch’essa rappresentata nei suoi ruoli, portò l’attore a pubblicare libri di ricette e a dirigere la rivista Nuova cucina negli anni Ottanta. Fu uno sperimentatore tanto come cuoco che come attore.
Per molti anni la carriera cinematografica di Tognazzi non conobbe crisi, con qualche episodio internazionale come Barbarella (1968) di Roger Vadim dove, accanto a Jane Fonda, incarnava l’amore fisico e la mascolinità in un futuro asessuato. Fu sempre disposto a essere prosaico, come in La terrazza (1980, di Ettore Scola) o grottesco come in Il gatto (1977, di Luigi Comencini) in una gustosa tenzone con Mariangela Melato.
Tra gli altri riconoscimenti importanti, nel 1967 ebbe il primo David di Donatello per L’immorale di Pietro Germi – nel ruolo molto tognazziano di un poligamo schiantato da troppe partner – premio che vinse anche per La califfa (1971) di Alberto Bevilacqua e per Amici miei (1975) di Monicelli.
Quest’ultimo film, primo di una trilogia di grande successo commerciale – Amici miei atto II (1982) sempre di Monicelli e Amici miei atto III (1985) di Nanni Loy – permise a Tognazzi di cesellare un personaggio comico leggendario, il nobile decaduto Lello Mascetti, costruito su storie toscane degli amici Scarnicci e Tarabusi. La stessa cosa accadde poi, in proporzioni ancora maggiori e su scala internazionale (tre candidature all’Oscar, tra i molti premi), con un’altra trilogia, quella francese di Il vizietto (1978), di Édouard Molinaro, seguito da Il vizietto II (1980) sempre di Molinaro e Matrimonio con vizietto (1985) di Georges Lautner. In un gustoso duetto con Michel Serrault, l’italiano poté giocare mirabilmente con un mai celato gusto per l’interpretazione dell’ambiguità sessuale, già messo a frutto nel precedente Splendori e miserie di Madame Royale (1970) di Vittorio Caprioli.
Ma è ai propri progetti di regia che Tognazzi teneva di più, come il notevole Il fischio al naso (1967), sceneggiato con Scarnicci, Tarabusi e Alfredo Pigna da un racconto di Dino Buzzati, interpretato con membri della sua famiglia – il padre (ristabilitosi), la moglie – oltre all’amico Ferreri. Da quest’ultimo fu poi diretto in un capolavoro rimasto nella memoria collettiva, La grande abbuffata (1973), apoteosi delirante e scandalosa dell’intreccio sesso-cibo-morte che rappresenta anche un’estremizzazione di lati della personalità dello stesso Tognazzi (il personaggio ha precisi riferimenti tognazziani). Se il sodalizio con Ferreri fu felicissimo, l’attore rimase invece assai deluso da un mancato appuntamento con Federico Fellini, che gli promise il ruolo da protagonista del suo film mai realizzato Il viaggio di G. Mastorna. La vendetta ‘creativa’ dell’attore fu il film Satyricon (1968) di Gian Luigi Polidoro, fatto uscire poco prima dell’omonimo capolavoro felliniano per danneggiarlo. Eppure le occasioni di qualità non mancarono a Tognazzi, come In nome del popolo italiano (1971) di Risi, una delle sue migliori interpretazioni, ancora con Gassman, o L’anatra all’arancia (di Salce, 1975) in coppia con Monica Vitti.
Non pago del successo, Tognazzi volle dirigersi ancora una volta (cinque le sue regie, con i meno riusciti Sissignore del 1968 e Cattivi pensieri del 1976) in un film ambizioso e cupo, I viaggiatori della sera (1979), da un romanzo di Umberto Simonetta, sul tema della morte. Allo stesso tempo fu complice di un giornale satirico, Il Male, che lo fece credere implicato nel terrorismo come ‘grande vecchio’ delle Brigate rosse (poco dopo il caso Moro). Incassò molte critiche, rivendicando un ‘mascettiano’ diritto allo scherzo goliardico (che cela spesso un lato inquieto). Non a caso, il diradarsi di occasioni e proposte diventò motivo di depressione per Tognazzi, che ebbe la sua ultima grande occasione cinematografica con La tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci. Vinse come miglior attore a Cannes, ancora in un ruolo geograficamente e umanamente vicino alla sua vita (compreso il figlio Ricky nel cast).
Poi la sua filmografia si inaridì – anche a causa della crisi del cinema italiano negli anni Ottanta – e Tognazzi tornò al teatro, chiamato da Giorgio Strehler a Parigi, alla Comédie française, per interpretare, in francese, il padre dei Sei personaggi in cerca d’autore: sfida che assecondava la sua ancora inappagata sete di riconoscimento come attore drammatico.
Per lo stesso anelito aveva già interpretato Il Tartufo di Molière nel 1975 per Mario Missiroli e poi volle stesso autore e stesso regista nel 1988 per L’avaro, salvo poi litigare con Missiroli e completare da solo la regia: successo di pubblico, ma non di critica.
La stagione seguente, la voglia di sperimentare dettò la scelta di M. Butterfly, scivoloso dramma di David H. Hwang all’insegna della totale ambiguità gender. I sequel di precedenti successi e qualche buon ruolo minore, come Il petomane (1983) di Pasquale Festa Campanile, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984) di Monicelli, Ultimo minuto (1987) di Pupi Avati e I giorni del commissario Ambrosio (1988) di Sergio Corbucci, segnarono il declino di una esemplare carriera d’attore autodidatta. Colpito da un ictus, morì a Roma il 27 ottobre 1990.
Fonti e Bibl.: U. Tognazzi, L’abbuffone, Milano 1974 (2ª ed., L’abbuffone. Storie da ridere e ricette da morire, con una testimonianza di A. Bevilacqua, Cava de’ Tirreni 2004); A. Bernardini, U. T., con introduzione di C.G. Fava, Roma 1978; Un, due, tre. U. T. e Raimondo Vianello, a cura di R. Buffagni, Milano 2001; U. T. regista, a cura di F. Francione - L. Pellizzari, Alessandria 2002; La supercazzola: istruzioni per l’Ugo, a cura di R. Buffagni, Milano 2006; V. Pattavina, La quarta T: U. T., dal teatro leggero ai grandi film, Torino 2010; T.: l’alter... Ugo del cinema italiano, a cura di M. Causo, Nardò 2011; Io lo conoscevo bene. Viaggio semiserio nei personaggi di U. T., a cura di E. Mosconi, Cremona 2015; G. Rigola, Una storia moderna. U. T.: cinema, cultura e società italiana, Torino 2018.