DELLA GHERARDESCA, Ugolino
Nacque nella prima metà del sec. XIII, probabilmente a Pisa da Guelfo di Ottone conte di Donoratico e da Uguccionella di Uguccionello di Uguccione degli Upezzinghi da Calcinaia, forse ancora vivente alla fine del 1282.
Il ramo dei Della Gherardesca cui appartenne il D. era detto dei conti di Donoratico, dall'omonimo castello maremmano nei pressi dell'odierno Castagneto Carducci, fin dai primi decenni del sec. XIII; incerti comunque appaiono non solo i rapporti genealogici tra i conti di Donoratico e il resto della casata, ma anche quelli tra i tre gruppi in cui, all'epoca del D., essi sono divisi. Del nonno del D., Ottone, conosciamo solo il nome; personaggio ben noto e di un certo rilievo nella vita pisana del quarto decennio del sec. XIII fu invece il padre, Guelfo. Egli infatti condivise la politica antiviscontea ed antipopolare dei consanguinei Alberto di Segalari e Ranieri di Bolgheri: fu in Sardegna con Ranieri nel 1234-35 e compare con Alberto e Ranieri tra i rappresentanti della fazione nobiliare antiviscontea nell'arbitrato che il 4 maggio 1237 tentò di porre fine in Pisa alle lotte di parte. In quell'anno Guelfo faceva parte del Senato; compare vivente per l'ultima volta nel maggio del 1249.
La prima notizia sul D. risale al 2 marzo 1252, allorché si trovava in Sardegna, nel Giudicato di Torres, come vicario di re Enzo, prigioniero già dal 1249 dei Bolognesi.
Fin dal primo momento quindi, il D. appare proiettato nella politica sarda, che fu l'elemento più importante non solo delle sue vicende personali ma anche di quelle politiche della città di Pisa della seconda metà del XIII secolo. Alla metà del Duecento i Pisani controllavano buona parte dell'isola: pisani erano i Visconti giudici di Gallura e i Da Capraia giudici d'Arborea, e alleati di Pisa erano i marchesi di Massa giudici di Cagliari. Nel Giudicato di Torres la giudichessa Adalasia aveva sposato nel 1238 re Enzo. A sua volta poi una figlia di Enzo - ma non di Adalasia -, Elena, sposò Guelfo, figlio primogenito del D.: fatto questo che permise al conte di agire in Sardegna.
Pochi anni dopo il D. ottenne una posizione di rilievo anche nel Giudicato di Cagliari. Quivi infatti il giudice Chiano, passato nel 1256 dall'alleanza pisana a quella genovese, fu vinto e ucciso nella campagna che Pisa intraprese nel 1257-1258 per riconquistare il Giudicato. Il Cagliaritano venne allora diviso tra quegli eminenti cittadini pisani che avevano partecipato alla spedizione e che già avevano forti interessi nell'isola: Guglielmo conte di Capraia, giudice di Arborea, Giovanni Visconti, giudice di Gallura, e i conti Gherardo e Ugolino di Donoratico, ai quali ultimi andò il terzo meridionale. In particolare al D., che d'allora s'intitolò "dominus sexte partis regni Kallaretani", spettò il Sulcis, ove egli dette ungrande impulso alla città di Villa di Chiesa - odierna Iglesias - eretta per lo sfruttamento delle miniere d'argento della zona. Poco dopo, nel 1259, morì la giudichessa di Torres Adalasia e si accese la lotta tra i vari contendenti, le famiglie genovesi degli Spinola e dei Doria, imparentate con quella famiglia giudicale, e il Comune di Genova da una parte, il D., campione dei diritti che ai suoi nipoti venivano dal re Enzo, il Comune di Pisa e i giudici d'Arborea suoi alleati dall'altra: in particolare sappiamo che nell'estate del 1267 il D. aveva invaso il giudicato di Torres.
Il calendimaggio del 1270 si riaccese lo scontro delle fazioni in Pisa: contro i Visconti, che tentavano d'impadronirsi del potere, si levarono i Gualandi e altri pisani, tra cui erano anche Guelfo e Lotto, figli del Della Gherardesca. Due anni più tardi, il 3 luglio 1272, il D. era testimone in un accordo tra il Comune di Pisa è Carlo d'Angiò. Nel medesimo anno morì Enzo, il re di Sardegna: nel suo testamento lasciò eredi dei suoi diritti sul Giudicato di Torres e in Sardegna i nipoti Enzo, Ugolino detto Nino il Brigata e Iacopo detto Lapo, figli di Elena e del conte Guelfo di Donoratico. Gli affari sardi tornavano così in primo piano, ma questa volta il D., nel rivendicare diritti in quell'isola, si scontrò col Comune pisano e finì con l'accordarsi con Giovanni Visconti, anch'egli in urto con quel Comune a causa della Sardegna.
I motivi di questo contrasto non ci sono pienamente noti: sappiamo che sul finire del 1272 il Comune di Pisa era stato costretto dal papa Gregorio X ad interrompere la guerra in Torres, fatto che poteva scontentare il D., ma l'elemento decisivo, capace di colpire anche Giovanni Visconti fu - come sembra - il desiderio del Comune di Pisa di controllare direttamente i possessi sardi di questi due eminenti cittadini.
Nell'ottobre 1273, a distanza di dieci giorni l'uno dall'altro, uscirono da Pisa per recarsi in Sardegna Giovanni Visconti e il Della Gherardesca. Ma diverso fu il loro atteggiamento: il Visconti, sconfitto nell'isola dal giudice Mariano d'Arborea, fedele alleato dei Pisani, si rifugiò presso i guelfi conti Aldobrandeschi di Santa Fiora e fu posto al bando da Pisa il 29 luglio 1274, mentre il D. - della cui attività in Sardegna non abbiamo notizie -, tornò in patria. Qui, alla richiesta del capitano del Popolo di rinunciare a favore del Comune di Pisa ai suoi beni e diritti in Sardegna, dapprima rifiutò e fu perciò imprigionato il 14 luglio 1274 nel palazzo degli Anziani; alla fine però cedette e fu liberato, ma l'8 giugno 1275 lasciò la città per unirsi a Giovanni Visconti e ai guelfi ribelli che, collegatisi con le città guelfe della Toscana, combattevano contro Pisa.
La sorte delle armi non fu favorevole al Comune pisano: sappiamo ad esempio che i figli di Ugolino, Guelfo e Lotto, sconfissero nel giugno 1275 truppe pisane a Bolgheri. Più tardi i Pisani, dopo aver subito due dure sconfitte - ad Asciano il 9 sett. 1275 e al Fosso di Rinonico il 9 giugno 1276 - furono costretti, il 13 giugno 1276, ad accettare una pace assai gravosa, contemplante anche il rientro di tutti i fuorusciti, in primo luogo del D., dei suoi figli, e dei figli minorenni di Giovanni Visconti, morto poco prima, dei quali il D. era tutore in quanto nonno materno. In quella pace il Comune pisano s'impegnò anche a restituire al D. i suoi beni, in particolare quelli sardi, annullando così il contratto stipulato l'anno precedente.
Queste vicende sembrano dunque segnare un avvicinamento tra i Visconti e i conti di Donoratico del ramo di Guelfo, famiglie che per tutto il Duecento - fino al 1270 almeno - avevano capeggiato due opposte fazioni, e che invece tra il 1274 e il 1276 appartennero al medesimo schieramento. Probabilmente mantennero anche negli anni successivi un atteggiamento analogo, come sembrano suggerire alcuni accenni reperibili nelle poche fonti pervenuteci su quel periodo. Dobbiamo intanto osservare che né la pace di Rinonico significò un allineamento del Comune di Pisa alla politica guelfa né è possibile parlare tout court di un'adesione al guelfismo del D. o dei Visconti. In questi anni comunque l'ostilità dell'importante famiglia pisana dei Gualandi ai Visconti si estese anche al D., mentre si faceva sempre più evidente una differenza di comportamento tra gli stessi conti di Donoratico, cioè tra il D. da una parte e i figli del conte Gherardo, Bonifazio e Ranieri, dall'altra.
Nell'agosto del 1282 riprese la guerra con Genova, per la cui conduzione nel 1284 i Pisani dettero i pieni poteri al D. e ad Andreotto Saraceno Caldera. Alla battaglia della Meloria, il 6 ag. 1284, parteciparono sia il D. sia il figlio Lotto, che fu preso prigioniero: inesatta appare, e influenzata dal racconto dantesco, la notizia di una cronaca più tarda, che accusa il D. di aver abbandonato per primo la battaglia con dodici galee, provocando così lo scompiglio tra i Pisani.
Come è noto, questa sconfitta inferse a Pisa un gravissimo colpo, da cui non riuscì più a risollevarsi, e provocò la formazione, il 13 ott. 1284, di una lega antipisana comprendente Genova, Firenze e Lucca, estesasi poi alle minori città toscane. Di fronte ad un pericolo così grave i Pisani il 18 ottobre nominarono il D. podestà e pochi mesi dopo, nel febbraio 1285, con il parere dei prigionieri detenuti a Genova, lo confermarono Podestà per dieci anni, ritenendolo persona accetta ai guelfi toscani. Il calcolo si rivelò giusto. Prima cura del D. fu di allentare la morsa che stava soffocando la città: nei primi mesi del 1285, dopo un fallito tentativo di pace separata con Genova, tentò di ottenere, mediante la cessione dei castelli di Viareggio e di Ripafratta, un atteggiamento meno ostile da parte dei Lucchesi, e riuscì a raggiungere un accordo, non sappiamo come e su che basi, con la Parte guelfa di Firenze, si che quando, nel giugno 1285, i Genovesi mossero per mare contro Pisa e richiesero secondo i patti la prevista azione per terra ai Lucchesi e ai Fiorentini, i Lucchesi occuparono solo i castelli di confine di Quosa, Ponteasserchio e Avane, mentre i Fioretini'non si fecero vedere: anzi indussero i Senesi ad inviare alcuni cavalieri a Pisa per difenderla ed agirono affinché il papa Onorio IV proibisse sotto pena d'interdetto qualsiasi ostilità contro la città. Forti di tale divieto Fiorentini e Lucchesi, che già avevano ottenuto ciò che desideravano, lasciarono i Genovesi soli a condurre la guerra sul mare e in Sardegna. Nel 1286 il D. si associò al potere il nipote Ugolino Visconti detto Nino, il "giudice Nin gentile" cantato da Dante nell'VIII del Purgatorio (vv. 46-84).
Il governo sia del D. da solo sia del D. e Nino assunse i caratteri di una reazione aristocratica dopo un ventennio di predominio popolare, come appare dalla legislazione relativa alle corporazioni da essi emanata, tendente a diminuire l'importanza politica delle sette arti maggiori e dei tre ordini, i quali rappresentavano la massima organizzazione politica ed economica della più agiata borghesia artigianale e mercantile, il "popolo" appunto. È evidente quindi come sia abbastanza fuorviante parlare di guelfismo e di ghibellinismo, se non nel senso che il "popolo" si era identificato con la politica ghibellina ed era portato ad accusare di guelfismo coloro che, come il D. e Nino, svolgevano una politica filoaristocratica e antipopolare.
L'anonimo autore dei Fragmenta historiae Pisanae narra con una certa ricchezza di particolari come tra il conte di Donoratico e il giudice di Gallura sorgessero contrasti, mentre in città si manifestava un sempre maggior desiderio di giungere alla pace con Genova, alla quale anche Nino Visconti si mostrava favorevole. Intanto a Genova i Pisani prigionieri trattarono la pace con quel Comune: le erano contrari non solo il D. - come afferma l'anonimo cronista pisano - ma anche Nino Visconti - secondo l'annalista genovese Jacopo Doria - perché colpiva fortemente i loro interessi in Sardegna, ma, per non scatenare l'ostilità popolare, furono costretti ad approvarla. Il trattato di pace fu stipulato il 15 apr. 1288.
Ma il D. e il Visconti, per ostacolare l'attuazione del trattato, istigarono contro i Genovesi i corsari sardi, alcuni dei quali armarono le loro navi a Cagliari, in quel momento governata proprio dal figlio del D., Guelfo. Allora l'arcivescovo di Pisa Ruggeri degli Ubaldini, insieme con Bacciameo Gualandi ed altri cittadini, trattò segretamente con l'ambasciatore genovese, che si trovava a Pisa, per rovesciare il D. e suo nipote. Il governo genovese, che non volle apparire immischiato nella faccenda, consentì però all'ambasciatore di tornare a Pisa con lettere del conte Bonifazio di Donoratico - prigioniero a Genova -, incitanti alla rivolta. Ma allorché le navi genovesi giunsero alla foce dell'Arno, tutto era già compiuto.
L'Ubaldini infatti, servendosi sia della rivalità tra i due signori, sia del malcontento provocato dall'accaparramento del grano operato dal D. riuscì a distruggere il potere del Della Gherardesca. Dapprima, accordatosi con lui, fece insorgere il 30 giugno 1288 la città contro Nino Visconti, che prudentemente lasciò Pisa e così si salvò. Il D. intanto, per apparire estraneo alla vicenda, si era ritirato nella sua casa di Settimo, donde rientrò a Pisa il 1° luglio, sperando di rimanete unico signore della città. Diverso era invece il progetto dell'arcivescovo e dei capi della congiura, che chiamarono alle armi i loro seguaci: dopo una strenua lotta combattuta nella stessa piazza degli Anziani e nelle vie circostanti - in cui caddero del D. un figlio illegittimo, Banduccio, e un nipote, Enzo di Guelfo -, il conte venne catturato con i figli Gherardo (Gaddo) e Uguccione, i nipoti Nino il Brigata, figlio di Guelfo, e Anselmuccio, figlio di Lotto, e con il pronipote Guelfuccio, figlio di Enzo di Guelfo, ancora lattante. Quest'ultimo fu risparmiato per la sua tenera età, ma visse in prigionia per ben venticinque anni; gli altri furono rinchiusi nella torre dei Gualandi, detta della Muda - vi si tenevano infatti al buio i falconi nel periodo della muta - che da loro si disse poi della Fame.
Secondo un uso esistente non solo a Pisa, il ribelle - cioè l'avversario politico dei detentori del potere - doveva, entro tre giorni dalla richiesta, pagare la taglia posta sulla sua testa, altrimenti non gli si dava più da mangiare né da bere: per ben tre volte, avvalendosi di questa norma, l'arcivescovo estorse, al D. e ai suoi, ingenti somme di denaro, ma alla fine i parenti e gli amici dei carcerati non poterono più pagare. Nel marzo del 1289 i prigionieri furono allora lasciati morire di fame, e si negò loro persino ogni conforto religioso. La torre fu riaperta quando non si sentì più alcun gemito, il 18 marzo 1289, e i corpi furono sepolti nella chiesa di S. Francesco.
Del D. sono note due mogli: la prima, Ildebrandesca, di cui non conosciamo la famiglia, compare in un documento pisano del 9 genn. 1275. La seconda, che sopravvisse al marito, fu Capuana, figlia del conte Ranieri da Panico e vedova del lucchese Lazzaro di Lanfranco Gherardini, dal quale aveva avuto un figlio,Maghinardo;dopo la cattura del D. essa si rifugiò a Lucca insieme con i figli avuti dal conte di Donoratico, Matteo - nato dopo il 1278 e prima del 1284 - e Beatrice. Capuana morì a Lucca il 26 dic. 1307 e fu sepolta nella chiesa di S. Romano insieme con la figlia Beatrice, morta il 12 marzo di un anno imprecisato.
Del D. ci sono noti cinque figli maschi: di essi due, Gaddo, che era stato capitano del Popolo nel 1285, e Uguccione, morirono col padre nella torre della Fame, gli altri tre sopravvissero, ma nessuno di essi riusci a risollevare le sorti della famiglia o a vendicare la morte dei propri congiunti. Il D. ebbe anche quattro figlie: una, di cui non conosciamo il nome,sposò Giovanni Visconti;Gherardesca sposò il conte Guido Novello dei Guidi; Giacomina fu moglie prima - nel 1286 pare - del giudice Giovanni d'Arborea, morto nel 1308, e poi del conte Tedice di Giovanni di Donoratico, del ramo di Bonifazio; di una quarta, Beatrice, già si è detto.
L'abitazione del D., una domus o palatium con una turris, preceduta da una loggia sul fiume, sorgeva a Pisa nel quartiere a sud dell'Arno, chiamato Chinzica, nella cappella di S. Sepolcro. L'edificio fu distrutto dopo la caduta del conte e ne fu proibita la ricostruzione: ora, unico spazio non edificato sui lungarni pisani, ospita il giardino del palazzo dell'Ufficio dei fiumi e fossi. Del patrimonio del D., confiscato dal Comune di Pisa e mai più restituito ai suoi eredi, possiamo avere un'idea dall'inventario steso a Lucca il 30 ag. 1292 dal curatore del conte Matteo, al quale sarebbe toccato un terzo dei beni paterni, spettando gli altri due terzi ai fratelli Guelfo e Lotto: il patrimonio comprendeva i castelli maremmani di Donoratico, Bolgheri e Montescudaio, i beni upezzinghi spettanti a sua madre Uguccionella, un terzo del Giudicato di Cagliari, la casa di Pisa di cui si è detto e beni vicino alla città, a Campo e a Settimo.
Il D., personaggio senza dubbio notevole della vita politica italiana del Duecento, deve comunque in gran parte la sua notorietà e la sua "fortuna" al ruolo di protagonista che Dante gli assegna in un episodio dell'Inferno non solo fra i più ampi (c. XXXII, vv. 124-139; c. XXXIII, vv. 1-90), ma anche fra i più densi di stilemi, di ricalchi, di reminiscenze di Virgilio, Lucano, Ovidio, tesi tutti a nobilitare attraverso uno stile "tragico" la cruda materia cronachistica per farla assurgere alla dignità di exemplum. L'elemento poetico dell'episodio, come già intuì il De Sanctis, è certamente quello della paternità offesa, ma l'attenzione dei lettori e di gran parte della critica si è appuntata piuttosto su quello della fame e dell'ipotetica antropofagia cui il D. si sarebbe piegato. Il tema della fame è certamente presente in forme ossessive in tutto l'episodio, ed è accompagnato da suggestioni cannibaliche fin dall'inizio: il D. rosicchia la testa dell'arcivescovo "come il pane per fame si manduca" (XXXII, v. 127), spingendo Dante a rivolgerglisi dicendo "O tu che mostri per sì bestial segno / odio sovra colui che tu ti mangi" (vv. 133 s.). Nel canto seguente il tema riprende fin dal primo verso ("il fiero pasto"), e continua insistentemente: la torre della Muda "la qual per me ha il titol della Fame" (v. 23), i figli che chiedono piangendo il pane (v. 39), e poi, in un tragico crescendo, il D. che si morde le mani per disperazione, i figli che equivocando si offrono quale cibo per il padre, il tragico mutismo del D. che se li vede morire ad uno ad uno dinnanzi e infine le ambigue e notissime parole finali ("Poscia, più che il dolor, poté il digiuno", v. 75) che il D. pronunzia prima di riprendere il suo pasto ferino.
Da tale verso, è noto, nacque la vexata - forse fin troppo - quaestio dell'antropofagia del D., giunto secondo molti interpreti a cibarsi, spinto dalla fame, delle carni dei suoi stessi figli. C'è comunque da chiedersi se Dante, convinto della realtà di un tal fatto, avrebbe ugualmente riservato al D. quello stile "tragico" che è negato a tutti gli altri personaggi dell'ultimo cerchio, tranne forse nell'accenno a Bruto. Non può tuttavia escludersi che il dettato del famoso v. 75, sia volutamente sibillino: Dante cioè potrebbe aver avuto della morte - così come del presunto "tradimento" - del D. solo voci incontrollabili, e avrebbe quindi volutamente usato parole ambigue, lasciando al lettore di interpretare se il D. rimpianga di essere morto di inedia e non di dolore, o se lo stimolo della fame lo abbia indotto a cibarsi dei figli defunti. Da tal punto di vista è ambigua anche la natura del contrappasso subito dall'Ubaldini, giustificabile, a seconda delle ipotesi, sia dall'aver fatto morire di fame l'amico con i figli, come dall'averlo obbligato a cibarsene.
Questo per il nodo dantesco, poiché da un punto di vista storico l'"antropofagia" del D. appare altamente improbabile. Non solo infatti essa non è testimoniata nelle cronache dell'epoca, ma appare esclusa dalle modalità stesse della crudele morte cui furono sottoposti il D. e i suoi congiunti. Ai Della Gherardesca, nell'"orribil torre", furono negati, come si disse, non solo il cibo, ma anche le bevande. Da ciò la relativa brevità della loro agonia, durata secondo Dante quattro giorni per Gaddo ed otto per il D., ultimo dei sopravvissuti. Gli stessi sintomi di ipereccitazione nervosa tramandati da Dante - forse riferiti dai Pisani che, di guardia alla torre, aspettavano com'è noto che cessassero i lamenti provenienti dall'interno - appaiono tipici del delirio da sete, e non del graduale indebolimento tipico delle lunghe agonie indotte dalla mancanza di alimenti solidi.
L'episodio clantesco presenta peraltro un ulteriore nodo, più raramente rilevato da lettori e commentatori: quello del "tradimento". Infatti Dante, pur dando per scontato che il D. avesse tradito la propria patria, non lo incolpa esplicitamente del cri i mine che egli aveva scontato con la tragica morte: che la cessione dei castelli ai Lucchesi fosse tradimento, e non una ragionevole operazione diplomatica, è per Dante solamente una "voce" incontrollabile (Inferno, XXXIII, v. 85). Dante nel D., molto probabilmente, intende condannare non tanto il protagonista di fatti specifici, ma l'atteggiamento mentale tipico della nobiltà, fedele più agli interessi del casato che agli ideali di giustizia, oscillante tra il partito guelfo e quello ghibellino nell'unico intento di assicurarsi potere e ricchezza. Rispetto all'ideale vagheggiato da Dante, quello del cittadino che - qualsiasi sia la sua parte - agisce disinteressatamente, il D. rappresenta l'antitesi di Dante stesso e di quella che nell'Inferno è la sua ipostasi politica, Farinata degli Uberti. Comunque, il motivo strutturale del lungo episodio dedicato al D. appare un altro: il pathos suscitato gradualmente nel lettore fino all'orrore ha il suo acme, il suo scioglimento, la sua profonda giustificazione nell'invettiva finale contro Pisa, in cui sarebbe ingenuo leggere l'espressione di una polemica puramente municipale. Dante, attraverso Pisa, intende colpire la bestiale crudeltà delle lotte di parte, che indiscriminatamente colpiva, insieme con l'avversario, i suoi figli e i suoi congiunti: l'invettiva contro Pisa sottintende insomma quella contro Firenze che, sia pure meno crudelmente, aveva sottoposto i figli del poeta alla sua stessa pena, costringendoli all'esilio al raggiungimento della maggiore età. L'esperienza personale, come spesso in Dante, si trasforma in exemplum. Di qui il "falso", certo voluto, di presentare come adolescenti i figli e i nipoti del D.: Dante, se vide in lui l'antitesi del proprio ideale politico, vi colse anche il simbolo - come intuì il De Sanctis - della propria paternità ferita, se non forse anche quello del proprio rimorso di uomo di parte, chinatosi ad osservare le tragiche conseguenze delle faide comunali.
G. Ballistreri
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M. L. Ceccarelli Lemut