MARTELLI, Ugolino
– Nacque a Firenze il 21 sett. 1519, terzogenito di Luigi di Luigi e di Margherita di Giovanvittorio Soderini.
Pur continuando a praticare un avviato commercio di seta, il padre del M. fu per tutta la vita al servizio dei Medici, ricoprendo numerose cariche pubbliche e incrementando così il patrimonio di famiglia, sia con acquisizioni fondiarie sia impreziosendo con opere d’arte la sua dimora fiorentina.
Compiuti i primi studi sotto la guida di maestri privati, è probabile che intorno al 1530 il M. abbia avuto come precettore Benedetto Varchi, al quale sarebbe rimasto legato per quasi un ventennio. Del 1534 risulta il suo primo viaggio, a Roma, di poco preceduto da quella che resta la sua prima scrittura ufficiale: una versione in ottava rima della favola di Dafne mutata in alloro descritta da Ovidio, un esercizio forse propostogli da Varchi. Pochi anni più tardi, in una Firenze scossa per l’assassinio del duca Alessandro de’ Medici e la quasi immediata ascesa al potere di Cosimo de’ Medici, l’ancora adolescente M. inaugurò i suoi rapporti con i potenti fratelli Ridolfi, Lorenzo e il cardinale Niccolò, allora entrambi su posizioni sostanzialmente antimedicee. Nel dicembre 1536, con l’appoggio di Piero Vettori e tramite Varchi, allora a Padova, venne in contatto epistolare con Pietro Bembo e con Pietro Aretino e, più o meno nello stesso giro di tempo, con Francesco Maria Molza, Benvenuto Cellini, Annibale Caro, con i quali scambiò a più riprese composizioni poetiche. Tra l’autunno di quell’anno e il 1542, il M. si stabilì a Padova per studiare diritto, senza tuttavia concludere gli studi. Questo periodo, trascorso nell’orbita di Varchi, fu quanto mai significativo ai fini della sua maturazione intellettuale, mano a mano caratterizzata da interessi di segno specificamente letterario e filosofico.
In una lettera di Varchi a Luca Martini, sullo scorcio del 1539, si delinea una precisa testimonianza delle giornate padovane: «Tutto il dì siamo alle squole, contando la mattina che usciamo a dì e torniamo a hora di desinare; dopo desinar [usciamo] quasi subito et torniamo a la Avemaria. Et la sera et il dì delle feste studiamo le lettioni» (in Bramanti, p. 17). Giornate, dunque, almeno sulla carta dense di impegni didattici, anche se i reali interessi del M. erano ormai lontani dai curricula degli studi di diritto. A parte le amareggiate lettere inviategli dal padre, preoccupato per il suo scarso interesse per le discipline giuridiche, è attraverso lo scambio epistolare con Vettori che appare la complessità dei rapporti imbastiti dal M.: in ambito fiorentino i nomi di maggiore spicco sono quelli del medico e docente Francesco Del Garbo, del filosofo Francesco di Vieri, dell’umanista Giovanni Battista Adriani; sul versante veneto, oltre ai già ricordati Bembo e Aretino, Gabriele Trifone e Giovanbattista Ramusio, insieme con Vincenzo Maggi e Lazzaro Bonamico, entrambi professori dello Studio padovano. Nel giugno 1540, sempre a Padova, iniziarono le sedute dell’Accademia degli Infiammati, all’interno della quale Varchi e il M. svolsero un ruolo di primo piano. Secondo quanto è rimasto, il M., che per qualche tempo esercitò le funzioni di segretario, presentò in Accademia almeno due contributi: un commento, oggi perduto, della canzone petrarchesca Chiare, fresche e dolci acque e una lezione tenuta domenica 19 sett. 1540 sul sonetto bembesco Piansi e cantai lo stratio e l’aspra guerra, il cui testo, a conferma della stima che circondava la figura dell’appena ventunenne letterato, poche settimane dopo circolava tra i suoi amici a Firenze.
Tra l’ottobre e il novembre 1541 una grave malattia, il cui decorso si svolse tra Padova e Venezia, ridusse il M. in fin di vita: Varchi, che si era trasferito a Bologna, si affrettò a raggiungere e soccorrere il suo giovane amico, il quale recuperò la salute. Nell’aprile 1542, dopo una tappa a Bologna per rendere visita a Varchi, il M. rientrò a Firenze. Il 12 maggio fu chiamato a far parte dell’Accademia Fiorentina, nata per volontà di Cosimo I dalle ceneri di quella degli Umidi, per la quale non mancò di profondere le sue energie sia impegnandosi in numerosi interventi e lezioni, sia cercando di tamponare le inevitabili ingerenze filomedicee (tra l’altro fu chiamato alla carica di console dal 25 febbr. 1544). Tra le sue lezioni, da ricordare almeno quelle dedicate a due componimenti petrarcheschi, il sonetto Anima, che diverse cose tante (11 giugno 1542) e la canzone Sì debile il filo a cui s’attene (4 genn. 1543), intramezzate dalle lezioni «della providentia e del fato» (11 e 19 nov. 1542). Durante il suo consolato dovette affrontare il boicottaggio del gruppo dei cosiddetti Aramei (Cosimo Bartoli, Giovan Battista Gelli, Pierfrancesco Giambullari, Carlo Lenzoni), che, in palese contrasto con gli ex Umidi, si rifiutarono di svolgere le lezioni alle quali erano tenuti, cosicché il M. fu costretto a spendersi in una serie di interventi di mediazione. Collaborò altresì con il musicista Francesco Corteccia alla realizzazione dei madrigali per gli intermezzi della commedia Il furto di Francesco D’Ambra, rappresentata il 9 nov. 1544 nella sala del Papa in S. Maria Novella, sede ufficiale dell’Accademia Fiorentina. L’8 nov. 1545 prese di nuovo la parola per commentare il sonetto di Bembo Verdeggi a l’Apenin la fronte e ’l petto; nell’aprile 1546 tenne una lezione sul XIX del Paradiso; infine, nel gennaio e nel luglio 1547, fu la volta di un approfondito commento al sonetto petrarchesco Quando giugne per gli occhi al cor profondo.
Se questo resta il contributo principale del M. in seno alla maggiore istituzione culturale fiorentina del tempo, è da segnalare inoltre, accanto a una sparsa produzione in versi, un ragguardevole esercizio in prosa. Oltre l’ancora inedita Vita di Massimiliano, redatta nel 1544, una Vita di Numa Pompilio, da assegnare con ogni probabilità al 1545, a riprova della fortuna fiorentina del genere biografico e, nel caso specifico, dell’esempio plutarcheo. Entrambe le opere sono dedicate al duca di Firenze, il cui «modo […] del reggimento» viene assimilato a quello del saggio re di Roma. Risalgono a questi anni anche gli inediti Del flusso et reflusso del mare; Non qual si voglia moto più ne riscaldi che la quiete e Degli problemi, contributi d’impronta scientifica, che attestano l’ampiezza degli interessi del M. e ribadiscono la sua scelta a favore del volgare, mentre più tardi, in un contesto d’ordine religioso, si registrerà un persistente ricorso al latino.
Frattanto, ancora con l’aiuto di Vettori, nel corso del 1543, c’era stato un tentativo di trasferimento allo Studio di Pisa, con la speranza di poter ottenere «qualche sorte di lettione e massimamente nelle cose dell’etica» (Bramanti, p. 22), lezioni che era costume affidare a giovani che si erano particolarmente distinti. Nei primi mesi di quell’anno, infatti, il M. soggiornò a Pisa, assiduo alle lezioni di lettere umane tenute da Francesco Robortello e ai corsi di anatomia; tuttavia, nonostante le pressioni esercitate da Vettori su Francesco Campana, segretario del duca Cosimo e preposto allo Studio pisano, le ambizioni del M. non si realizzarono.
Poco dopo, l’esistenza del M. cambiò radicalmente: al posto degli abituali letterati fiorentini, altri nomi presero a emergere, a cominciare dai Ridolfi, il cardinale Niccolò e suo fratello Lorenzo, e Carlo Strozzi, già compagno di studi a Padova, ora alle dipendenze del cardinale Niccolò Ridolfi, presso il quale lo stesso M. si trasferì nel febbraio 1548. Di lì a poco seguì l’impiego in qualità di segretario presso Lorenzo Strozzi, uno dei figli più giovani di Filippo, allora vescovo di Béziers. Questo passo contribuì a sconnettere quasi completamente le relazioni del M. con Firenze, dal momento che egli era al servizio del figlio di quello che era stato il maggiore oppositore del regime mediceo. Interrotti bruscamente i rapporti con Varchi, il solo a mantenere viva una corrispondenza più o meno stabile con il M. fu Vettori. Le lettere tra loro costituiscono la fonte principale per seguire la non semplice vicenda del M. in terra di Francia, negli anni compresi tra i regni di Enrico II ed Enrico III. Nel corso di molti viaggi compiuti con il vescovo Strozzi al seguito della corte francese, dominata dalla forte personalità di Caterina de’ Medici e dagli italiani al suo seguito, il M. ebbe modo di legarsi d’amicizia con Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzino, l’omicida del duca Alessandro: con lui, al tempo della guerra mossa da Cosimo I contro Siena (1554), soggiornò per alcuni mesi a Roma, dove visse, dopo essere stato di nuovo in Francia, tra il 1558 e il 1560 cercando invano di ristabilire contatti con i vecchi amici fiorentini, ormai tutti schierati sulla sponda medicea. Travolto nel 1560 dalla caduta dei Carafa, nell’orbita dei quali aveva vissuto, riparò di nuovo presso Lorenzo Strozzi, ora cardinale, dimorando costantemente in Francia, tra Linguadoca e Provenza. Nel 1561 aveva rivolto una supplica a Cosimo I, cercando di difendere la propria condotta. La sospirata grazia arrivò in virtù della politica di riconciliazione di Cosimo ma, nonostante gli fosse stata in pratica offerta la possibilità di rimpatriare, il M. continuò a rimanere Oltralpe. Qui nell’estate del 1568, forse per interessamento della regina Caterina, fu nominato vescovo di Glandèves (il M. aveva ricevuto i primi ordini religiosi nel 1531). In mezzo alle «montagne asprissime» delle Alpi Marittime, come scrive a Vettori, era suo proponimento «poter ritornare a quelle muse donde ho preso altra volta singolarissimo piacere», con la novità di «aver presa alcuna leggier cognitione delle lettere ebraiche» (ibid., p. 46). Sempre dall’epistolario con Vettori, affiorano i suoi interessi di studioso, con richieste di pareri rivolte all’illustre filologo su Aristotele, Cicerone e Orazio, ma anche difficoltà di ordine economico che, dopo la morte nel 1571 del suo antico protettore, il cardinale Strozzi, vennero a unirsi ai pericoli derivanti dalle incursioni degli ugonotti. Finalmente, nell’ottobre 1573, a Pisa, dopo un quarto di secolo il M. poté rivedere suo padre, quasi ottantenne; passò poi a Firenze, dove rimase per due settimane, accolto con favore dal vecchio Cosimo, granduca di Toscana, ormai malato e alla fine della sua vita, e dal principe Francesco. Dopo aver soggiornato circa due mesi a Pisa insieme con il padre, che a dispetto dell’età era locale commissario mediceo, rientrò nella sua diocesi, inaspettatamente occupata dagli ugonotti, per cui fu costretto a rimettersi di nuovo in viaggio alla volta di Firenze.
Al di là di ogni auspicio, si rinnovò nella vita del M. una costante instabilità: in primo luogo l’intenzione di stabilirsi a Glandèves, frustrata dagli incessanti disordini, poi alcuni anni trascorsi a Nizza, interrotti da alcune incursioni in Piemonte, infine, soltanto nel 1588, l’estremo radicamento nella sua proprietà di Vitiana, nei pressi di Empoli. Fra i non molti episodi significativi di questi anni, nel 1581, a Nizza, sembra che il M. si sia distinto nella lotta contro chi viveva in modo «poco conforme ai sentimenti e dogmi cattolici» (ibid., p. 49) e per la pubblicazione di alcuni testi a sfondo erudito: il De anni integra in integrum restitutione (Firenze, Giunti, 1578, dedicato al cardinale Guglielmo Sirleto) e la Chiave del calendario gregoriano (Lione, F. Conrad, 1583, dedicato al referendario apostolico Ottavio Bandini), con i quali prese parte alla discussione, allora di grande rilievo, intorno alla riforma del calendario voluta da Gregorio XIII. Su un altro versante, la stampa della In odem secundam libri quarti Carminum Q. Horatii Flacci commentatio (Firenze, Giunti, 1579, dedicata al granduca Francesco) ribadiva i suoi interessi classicistici, coltivati senza soluzione di continuità per decenni. Dopo la scomparsa di Vettori (dicembre 1585), ulteriori elementi sugli orientamenti intellettuali del M. emergono dal carteggio con un discepolo dell’umanista Roberto Titi. In queste lettere, insieme con vari propositi di lavori filologici e storico-letterari (tra l’altro, il progetto di «una operetta De fide et sindone»), con richieste di libri (per esempio il De Virgilii Culice et Terentii Fabulis di Bembo), quello che traspare è una rinnovata insofferenza per una situazione sempre precaria a causa dei «molti e continui fastidi» che affliggevano il suo vescovado, avendo dovuto lasciare a Nizza «libri, scritture, memorie, pensieri e studi», impegolato in una serie infinita di «piati, processi, litigi» (Bramanti, p. 51), senza poter leggere niente di gratificante. A testimonianza della sua continua operosità videro la luce a Firenze nel 1588 l’Expositio primi salmi gradualium (B. Sermartelli), nel 1590, nel M. Aurelii Olympii Nemesiani… edito da R. Titi, l’Epistula in qua Calpurnii et Nemesiani loci aliquot illustrantur (Giunti), il De expedita discendi ratione ad Ausonii poetae carmen inscriptum De Demosthene (B. Sermartelli, 1591, dedicato alla gioventù fiorentina); nel 1589 fu incaricato di pronunciare l’orazione ufficiale in occasione del trasferimento nella chiesa fiorentina di S. Marco delle spoglie di s. Antonino Pierozzi (Sermone sopra la traslazione del corpo di sant’Antonino… fatto… mentre che la solenne processione passava, ibid.).
Il 1° nov. 1592 il M. morì a Vitiana, dove fu sepolto nella chiesa di S. Martino; nel 1783, in seguito alla sconsacrazione dell’edificio, i suoi resti furono traslati a Firenze e deposti nella cappella di famiglia nella chiesa di S. Lorenzo.
Un ritratto del M. giovane, opera di Agnolo Tori detto il Bronzino, è conservato nella Staatliche Gemäldegalerie di Berlino (cfr. R. Wildmoser, Das Bildnis des U. M. von Agnolo Bronzino, in Jahrbuch der Berliner Museen, XXXI [1989], pp. 181-214).
Fonti e Bibl.: V. Bramanti, Ritratto di U. M. (1519-1592), in Schede umanistiche, 1999, n. 2, pp. 5-53; S. Lo Re, La «Vita di Numa Pompilio» di U. M., in Bruniana & Campanelliana, I (2004), pp. 59-71.