BORROMEO, Uguccione (Huguitio de Vercellis)
Suddiacono e canonico della cattedrale di Liegi (Lüttich, Belgio), con la bolla Vacante siquidem del 19 febbraio 1304 fu nominato vescovo di Novara dal papa Benedetto XI, il quale si era appunto riservato il diritto di assegnare a quella sede vacante il nuovo presule.
Nato, molto probabilmente, a Vercelli nella seconda metà del sec. XIII (ignoriamo la data esatta), il B. apparteneva ad una delle più cospicue famiglie cittadine - tra i suoi antenati annoverava un Pietro, console nel 1181 -, ma a Roma doveva aver ricevuto la sua formazione culturale, approfondendo lo studio del diritto ecclesiastico e civile - non possiamo affermare che egli si fosse anche addottorato in quelle discipline, dato che in nessuno dei molti documenti a lui relativi giunti sino a noi egli è definito legum doctor -; ed a Roma, nella Curia pontificia, aveva percorso tutti i gradi della sua carriera di funzionario di corte e di ecclesiastico. Cappellano papale e "causarum auditor" sotto il pontefice Nicola IV (1291), "magister" e canonico della chiesa di S. Donaziano di Bruges nel 1295, e quindi suddiacono (1297) sotto Bonifacio VIII, le sue funzioni si erano fatte più importanti e gli incarichi sempre più impegnativi negli ultimi anni di questo pontefice: come quando dovette notificare all'arcivescovo ed ai priori del clero di Colonia, nonché ad Ottone di Mattelar, l'ordine di presentarsi dinnanzi al tribunale del papa, a Roma, per rispondere e testimoniare sulle gravi irregolarità e sugli abusi commessi da quell'arcivescovo e dalla sua creatura, Ottone di Mattelar, nei confronti del monastero di S. Benedetto in Glandebach (4 nov. 1301); o come quando fu incaricato di dirimere la causa tra Riccardo di Goleto, canonico di Sèes, e Rodolfo Aligot, chierico di Costanza, per certi diritti sulla chiesa di S. Martino di Candeto "supra Aquam Nigram" in diocesi di Costanza (ante 11 dic. 1302). Tuttavia il B. non avrebbe raggiunto una posizione di rilievo se non nel corso del brevissimo pontificato di Benedetto XI (12 ott. 1303 - 7 luglio 1304), quando il nuovo papa, dopo avergli affidato l'ufficio di "litterarum contradictarum auditor" (e in tale veste il B. svolse nello scorcio dell'anno alcuni delicati incarichi per conto del pontefice), sul finire di quel medesimo 1303 lo investì del canonicato - e dell'annessa ricca prebenda - della chiesa di S. Paolo in Liegi (20 dicembre), e lo innalzò infine al soglio episcopale nei primi mesi del 1304.
Quando il B., succedendo a Bartolomeo Quirini trasferito alla sede di Trento nel 1303, dopo pochi mesi di pontificato, assunse il governo della Chiesa di Novara, era un momento particolarmente difficile per quella diocesi, scossa per la prolungata vacanza della sede episcopale - praticamente vacante dal 3 giugno del 1300, quando l'allora vescovo Papiniano Della Rovere fu trasferito alla sede di Parma -, agitata dai fermenti autonornistici e di rivolta che percorrevano - specie nelle campagne e nelle valli - i ceti più umili della popolazione, spossata dall'inanità delle continue lotte intestine che dilaniavano la città compromettendone la vita economica, minacciata, infine, dalla stessa crisi politica ed istituzionale, che travagliava allora l'Italia tutta. Contrastare e porre rimedio alle pericolose ripercussioni che un simile concorso di circostanze aveva avuto all'interno della diocesi fu la costante preoccupazione del ministero episcopale del B., che si dedicò appassionatamente e con abnegazione ai suoi doveri di pastore di anime, curando il progresso spirituale del popolo affidatogli; inoltre riordinando la gerarchia ecclesiastica all'interno della diocesi e ristabilendo l'antica disciplina nei monasteri sottoposti direttamente alla sua giurisdizione, cercò di porre un freno ai disordini sorti durante la vacanza della sede episcopale.
Appunto nel quadro di questa fervida attività apostolica per l'elevazione del popolo ed il miglioramento del clero diocesano debbono essere viste sia le frequenti, periodiche visite pastorali, che compì, nel corso del suo episcopato, nelle diverse parrocchie sottoposte alla sua giurisdizione - come quelle del 1311 nell'Isola d'Orta ed a Gozzano -, sia i numerosi provvedimenti d'ordine religioso e disciplinare da lui presi per regolare la celebrazione degli uffizi divini, salvaguardare dagli abusi l'amministrazione dei beni ecclesiastici e la concessione delle prebende canonicali, disciplinare la vita ed il ministero sacerdotale dei canonici preposti o no alle varie chiese, parrocchiali o no, della diocesi, dotare i templi che ne fossero sprovvisti di rendite che ne permettessero un'officiatura regolare. Così, nel 1304, confermava il privilegio di un suo predecessore, il vescovo Sigebaldo (1250-1268) in favore dei canonici di S. Giulio all'Isola d'Orta - è il suo primo atto ufficiale come vescovo -; quindi promulgava i decreti relativi alla disciplina dei canonici del capitolo della cattedrale di Novara (1307) e della basilica di S. Gaudenzio (1309), nonché gli statuti dei canonici di S. Giulio dell'Isola e di S. Martino di Gozzano (1311); nel 1324, infine, prendeva il provvedimento di unire alla chiesa di S. Martino di Mollia il monastero di S. Lorenzo, in piena crisi economica, e, nel 1328, autenticava e confermava il testamento del presbitero Marchesio da Cerano (una norma di diritto canonico faceva espresso divieto di testare agli ecclesiastici): con esso il presbitero fondava una pia casa d'ospedale nel suo borgo natio, legandole tutte le sue proprietà.
L'intensa attività pastorale da lui esplicata, tuttavia, così come non lo estraniò agli ambienti della Curia pontificia ed alle manovre della grande politica ecclesiastica - lo dimostrano tanto la sua partecipazione al concilio di Vienne (1308-1312), quanto il suo prolungato soggiorno in Provenza dopo la morte di Clemente V (20 apr. 1314): sappiamo infatti che il B. vi si trattenne per oltre due anni, spostandosi da Valence (Drôme) a Lione, per seguire più da vicino le vicende del conclave ed i maneggi (di cui egli fu certamente parte) che portarono all'elezione al soglio pontificio di Giacomo d'Euse, "il Caorsino", col nome di Giovanni XXII (7 ag. 1316) -; non fece, allo stesso modo, perdere al B. di vista nemmeno quei compiti - e quei diritti - temporali che Enrico II con diploma del 1014, Corrado II il Salico con privilegio del 1025, e Federico I nel 1155 avevano attribuito ai vescovi di Novara in quanto signori dei comitati di Pombia e di Ossola, e conti di Novara. Il primoproblema politico che il B. dovette affrontare fu infatti quello della pacificazione dell'Ossola e dei rapporti, tesi, tra gli abitanti di quest'ultima e le comunità svizzere dell'alto Vallese. I cronisti coevi - e così anche alcuni storici moderni - parlano di disordini e di agitazioni interne provocati dalle continue scorrerie degli Svizzeri, per difendersi dalle quali gli Ossolani si sarebbero visti costretti ad armarsi ed a fortificare il loro capoluogo - col consenso dell'immediato predecessore del B., Bartolomeo Quirini. In realtà si trattò di un episodio della lunga lotta combattuta da Domodossola nel tentativo, da un lato, di sottrarsi ai propri obblighi feudali ed alla soggezione del suo signore naturale, il vescovo di Novara, e di prevenire, dall'altro, una conquista od un rapporto di vassallaggio nei confronti degli Svizzeri, pericoli che si profilavano inevitabili una volta ottenuta l'autonomia, per il vuoto di potenza che si sarebbe venuto a creare nella regione.
Come fa giustamente notare il Cognasso (Novara nella sua storia, pp. 313 ss.), che la lotta dei Domesi fosse in realtà rivolta contro l'autorità del vescovo, è dimostrato dal fatto che già nella metà del secolo precedente il castellano dell'Ossola si faceva consegnare dai Domesi, per ordine del vescovo, ostaggi a garanzia del loro lealismo; e che tra le popolazioni dell'Ossola e le comunità svizzere esistesse uno stato di tensione permanente, tale da degenerare in continui scontri armati accompagnati da vicendevoli stragi e devastazioni, è provato dai capitoli dell'atto di pace stipulato nel 1267.
Desideroso di instaurare rapporti di buon vicinato con gli Svizzeri - molto probabilmente il B. intendeva in tal modo premunirsi contro l'eventualità di un loro intervento, nel caso in cui egli si fosse trovato impegnato nella repressione di un moto insurrezionale nell'Ossola -, il vescovo avviò subito trattative per regolare le questioni di confine ed appianare le altre vertenze in sospeso tra le comunità, giungendo infine, dopo essersi abboccato con Bonifacio di Challant, vescovo di Zülpich e conte del Vallese, in due convegni al Sempione, a concludere un accordo soddisfacente per le due parti (1307). Risiedeva allora presso la chiesa collegiata dei SS. Gervasio e Protaso a Domodossola, ove si era fermato per tutta la durata delle trattative con gli Svizzeri; oltre alla vicinanza del confine, anche altri motivi dovevano aver concorso a trattenerlo nella valle: il desiderio di controllare più da vicino l'evolversi degli avvenimenti interni nel capoluogo, ed il preciso proposito di farvi sentire il peso della sua autorità.
Quando il B. aveva assunto il governo della diocesi di Novara e dei benefici feudali ad essa inerenti, la situazione nella Val d'Ossola e nel suo capoluogo era già tesa. Traendo a pretesto la persistente minaccia rappresentata dalle continue incursioni e dalle rovinose razzie degli Svizzeri, i Domesi avevano proceduto ad armare la popolazione civile, ed iniziato la costruzione di una cinta muraria a baluardo della città. Erano iniziative chiaramente illegittime, perché in patente violazione degli statuti, che regolavano i rapporti tra i vescovi-conti di Novara e le comunità ossolane loro soggette, a suo tempo giurati dai rappresentanti delle due parti; e contro di esse aveva infatti preso immediatamente posizione il B. già all'indomani del suo avvento sulla cattedra pontificale, vietando la prosecuzione dei lavori e ordinando la distruzione del tratto di mura già costruito. All'ingiunzione le autorità laiche di Domodossola avevano risposto in termini evasivi, riaffermando la loro fedeltà alla persona del vescovo; ma, illustrando le preoccupazioni per la sicurezza interna e le necessità della difesa da attacchi esterni che li avevano indotti a fornire la loro città di un valido baluardo, avevano dichiarato perfettamente legittimo il loro modo di procedere, asserendo di aver dato inizio ai lavori solo dopo averne ottenuto l'esplicito permesso dall'immediato predecessore del B., Bartolomeo Quirini. Tuttavia, nonostante le proteste di fedeltà delle autorità laiche del municipio di Domodossola (e contro quanto è stato scritto anche di recente da storici moderni), risulta chiaramente dal contesto degli avvenimenti successivi che non il timore delle incursioni svizzere, quanto piuttosto evidenti motivi di sicurezza interna e di difesa delle autonomie comunali contro i poteri giurisdizionali e politici del vescovo B. in quanto conte di Novara, di Pombia e dell'Ossola avevano motivato tali iniziative rivoluzionarie. Tutta la lunga contesa tra il B., da un lato, e la comunità di Domodossola, dall'altro, non fu che un episodio dell'aspra lotta combattuta da quel municipio per svincolarsi una volta per sempre dalla soggezione feudale al vescovo di Novara - già esautorato, di fatto, dalla signoria di questa città -: lo provano, da un lato, la riluttanza dei Domesi a versare alla Camera vescovile il fodro (il tributo di 500 lire di imperiali dovuto da quella comunità per ogni ingresso del vescovo), le pressioni esercitate per ottenere lo sborso del primo - che fu pagato, con qualche ritardo, nel 1306 -, e la metodicità con cui il B., evidentemente allo scopo di creare una consuetudine, compì le sue visite pastorali nella valle ogni quattro anni, esigendo ogni volta il tributo connesso - dai documenti in nostro possesso risulta che il fodro fu regolarmente pagato negli anni 1306, 1310, 1314; non abbiamo notizie relative ai tributi del 1318, ma, poiché nella sentenza arbitrale del 12 sett. 1321 vengono riconosciuti i diritti di fodro spettanti al vescovo di Novara e si impone alla comunità di Domodossola di onorarli; e poiché dal 1320, salvo brevi intervalli, il B. risiedette non a Novara, ma in Val d'Ossola, nel castello vescovile della Mattarella (attuale Monte Calvario), è legittimo ritenere che il fodro sia stato riscosso anche negli anni successivi.
La situazione precipitò improvvisamente nel 1307, quando tutti questi motivi di contrasto sfociarono in un vero e proprio tentativo di insurrezione armata, capeggiato da un certo Guglielmo di Pietrazzano da Pallanzene: uccisi nel corso dei disordini - il notaio ed il vicario vescovile, lo stesso vescovo B. fu assediato dai rivoltosi nel campanile della chiesa dei SS. Gervasio e Protaso, dove si era asserragliato con alcuni fidi. Conquistata la rocca vescovile della Mattarella - il presidio del castello venne trucidato -, i ribelli ne iniziarono lo smantellamento, utilizzando le pietre così ricavate per proseguire febbrilmente nella costruzione delle mura di Domodossola. Il trionfo degli insorti fu, tuttavia, di breve durata, perché il B., riuscito a riparare in Novara, aveva ripreso saldamente in pugno la situazione: dopo aver lanciato l'interdetto contro la Val d'Ossola ed il suo capoluogo, ed ordinato la confisca dei beni di Guglielmo di Pietrazzano, Uguccione aveva infatti provveduto a mettere sul piede di guerra i propri reparti militari, il comando dei quali aveva affidato ad uno dei suoi castellani più capaci, Pietro da Montemorfoso. La repressione fu durissima, ma rapida. Pietro da Montemorfoso col suo piccolo corpo di spedizione - rinforzato da un contingente milanese inviato in sostegno dal cimiliarca della cattedrale ambrosiana, Maffeo Visconti - risalì la Val d'Ossola, devastando coltivazioni ed abitati, e respingendo davanti a sé le bande dei rivoltosi: l'uno dopo l'altro caddero in suo potere i centri minori della valle, ed anche Domodossola fu occupata in breve volger di tempo, dopo un'accanita difesa opposta dagli assediati, che seppero egregiamente valersi del baluardo rappresentato dal tratto già eretto delle mura.
L'atteggiamento intransigente assunto dal B. nei confronti delle richieste avanzate dagli abitanti di Domodossola, in un primo momento; quindi, la sua pronta reazione di fronte all'improvviso precipitare della situazione; la fulminea, dura repressione della rivolta, infine, e lo stesso aiuto trovato presso il cimiliarca del duomo di Milano: più che in una collusione del B. con i Visconti - la quale sembrerebbe per altro confermata dal rinnovo dell'investitura delle decime ecclesiastiche di Ornavasso e Castelletto Ticino in favore di Uberto e di Ottorino Visconti, rispettivamente fratello e nipote del grande Matteo, disposto dal B. per quell'anno 1307 (in ogni caso è prematuro attribuirli - come pure è stato fatto anche di recente - a contatti con i ghibellini; di partito ghibellino si può parlare, per il Piemonte e la Lombardia, solo dopo la discesa di Enrico VII del Lussemburgo) -, trovano il loro giusto inquadramento nel complesso di dolorosi avvenimenti che, tra il 1304 e la settimana santa del 1307 (19-25 marzo), sconvolsero la Lomellina, l'alto Novarese e la Valsesia, sulle cui montagne si era conclusa tragicamente la folle avventura di fra' Dolcino, eresiarca e condottiero, e dei suoi seguaci. Appunto in un simile contesto deve essere dunque inserita e valutata l'intera vicenda della controversia politica tra il vescovo di Novara ed i cittadini di Domodossola. L'azione per la conquista dell'autonomia promossa da questi ultimi contro l'autorità del presule cadeva infatti in un ambiente suggestionato e commosso dall'ondata di misticismo, che le correnti gioachimite ed il movimento francescano di riforma avevano, già nel secolo precedente, contribuito a formare: ondata di misticismo in cui l'attesa di avvenimenti destinati - secondo quanto avevano predicato gli apostolici e, di recente, anche lo stesso fra' Dolcino - a purificare la vita interna della Chiesa attraverso una rivoluzione che non sarebbe stata solo morale, rispondeva al bisogno, profondamente sentito dagli strati più umili della popolazione, di liberarsi, appunto mediante l'avverarsi di tali eventi, dalle misere condizioni di vita.
Nel 1308, quale rappresentante del pontefice, il B. si recò a Milano dove, in una fastosa cerimonia svoltasi nella cattedrale, consacrò arcivescovo di quella città Cassone Della Torre, figlio secondogenito di Mosca (12 ottobre). L'anno successivo accolse ed ospitò degnamente in Novara Arnaud de Pelagrue, diacono cardinale dal titolo di S. Maria in Porticu e legato di Clemente V in Italia settentrionale per la questione di Ferrara. Ciò vale a testimoniare che il vescovo Uguccione stava allora seguendo una sua politica di fedeltà alla Sede apostolica e di fiancheggiamento dell'attività diplomatica pontificia del tutto autonoma - anzi, spesso in contrasto - rispetto all'indirizzo adottato dalle autorità laiche del Comune. Una siffatta conclusione è confermata, d'altro canto, anche dal contegno tenuto da quel presule durante la visita di Enrico VII a Novara.
Entrato in città il 18 dic. 1310 proveniente da Vercelli - ove si era abboccato con i rappresentanti della universitas extrinsecorum, la lega degli sbanditi novaresi favorevoli ai Visconti, che gli avevano affidato il compito di trattare con i loro avversari -, il re fu investito dalle assemblee municipali con voto unanime della balia sulla città per ristabilire la concordia delle fazioni. Il 20 dicembre, dopo aver ricevuto l'omaggio feudale ed il giuramento di fedeltà da parte dei procuratori del partito al potere, Enrico VII presiedeva, nelle sale dell'episcopio, al solenne rito di riconciliazione tra i Brusati e i Cavallazzi, da un lato, ed i capi della sbandita fazione dei Tornielli, rientrati in città al seguito del sovrano. Il documento giurato e sottoscritto allora dalle due parti fu rogato da Mercato di Yenne, notaio "imperiali et apostolica auctoritate"; lo controfirmarono tutte le alte cariche dell'Impero, i dignitari ecclesiastici, le autorità municipali presenti alla cerimonia. Ma fra tanti illustri uomini di Chiesa e di corte le fonti non ricordano il vescovo B.; così come non viene ricordato per tutto il periodo in cui il re si fermò a Novara (21-22 dicembre). L'assenza del presule non può essere se non intenzionale, ed ha un evidente significato politico; quello stesso che egli volle esprimere non intervenendo al rito dell'incoronazione di Enrico VII a re d'Italia, celebrato nella basilica ambrosiana dall'arcivescovo Cassone Della Torre (6 gennaio 1311).
Inseriti in un contesto del genere, un nuovo e ben diverso significato vengono ad assumere il diploma del 6 apr. 1311, nel quale Enrico VII dichiara di riconoscere e confermare, a richiesta del B., tutti i diritti, i privilegi e le concessioni fatte, a suo tempo, da Enrico II e da Federico I alla Chiesa ed al vescovo di Novara; e l'altro, del 19 aprile successivo, con cui venivano riconosciuti e confermati i privilegi concessi, a quei vescovi ed a quella Chiesa, da Corrado II il Salico. Il riconoscimento e la conferma da parte del nuovo re d'Italia della signoria e del complesso dei diritti feudali spettanti al B. in quanto vescovo e conte non rappresentano dunque il segno tangibile della gratitudine del sovrano per la fedeltà del suo vassallo, quanto piuttosto un mezzo usato dal primo per acquistarsi l'appoggio del secondo. Tuttavia né l'atteggiamento né la politica del presule sembrano essersi per questo modificati; anzi rimasero sempre improntati a completa indifferenza - per non dire ostilità - nei confronti dell'imperatore e dei suoi fautori italiani, come è dimostrato sia dai successivi sviluppi della questione ossolana, sia dai rapporti che il B. ebbe, dapprima, con i vicari imperiali che dal 22 dic. 1310 al 1314, si succedettero a Novara (il genovese G. Meloncello e Luchino di Matteo Visconti), poi, tornata la città all'istituto della podesteria (1314), con i nuovi magistrati, creature e strumenti del dominio visconteo.
Al ritorno dal suo viaggio in Provenza, dove aveva partecipato ai lavori del conclave da cui era uscito papa Giovanni XXII, nel 1317 il B. dovette affrontare un nuovo contrasto con gli abitanti di Domodossola, i quali, traendo profitto dalla lontananza del vescovo e contando sicuramente sull'appoggio dei Visconti, avevano ripreso la costruzione delle mura cittadine. In risposta al perentorio divieto di proseguire, sotto pena d'interdetto, l'impresa, e all'ordine altrettanto perentorio di abbattere il tratto già costruito, i rappresentanti di quel Comune si appellarono all'arcivescovo di Milano, alla cui giurisdizione era sottoposto il B., revocando in dubbio, nonché il potere di quest'ultimo di dare ordini alla comunità, l'intero complesso dei diritti inerenti al vescovo-conte di Novara (comitati di Ossola e di Pombia, valli di Antigorio e Vegezio, corti di Gravelona e di Vespolate, curia di Vogogna con i villaggi di Masera e Trontano). Il metropolita milanese pronunziò una sentenza interlocutoria, contro la quale il B. interpose istanza ad Avignone, appellandosi direttamente al papa (1318); la causa, introdotta davanti all'auditore del Sacro Palazzo e ristretta alla legittimità dei diritti del B. sulla sola Domodossola, venne rinviata al legato apostolico in Lombardia, Bertrando del Poggetto, presbitero cardinale del titolo di S. Marcello, il quale riuscì a convincere le parti ad accettare l'arbitrato di due persone capaci, scelte da loro stesse. Furono così scelti arbitri della vertenza Guglielmo Revelli, decano di Burlazio (diocesi di Castro), cappellano del papa ed auditore del Sacro Palazzo; e Tebaldo Brusati, prevosto di Novara (compromesso di Alba: 24 ag. 1321). La sentenza, favorevole al B., venne solennemente pronunziata dagli arbitri in Asti il 12 settembre successivo, alla presenza del cardinal legato e di Guizardo Fracti, "per autorità apostolica e imperiale publico notaro" incaricato di stendere l'atto relativo: il Comune di Domodossola doveva abbattere le mura, illegittimamente costruite e veniva condannato a pagare la multa di 1.000 fiorini d'oro; alla cittadinanza si imponeva il pagamento di 100 lire di imperiali, da versarsi metà alla Camera imperiale e metà alla Camera episcopale di Novara, per aver usurpato regalie; a questa somma si doveva aggiungere l'altra, di 500 fiorini, da versarsi metà alla Camera apostolica, e metà a quella vescovile; al B. venivano solennemente riconosciuti, infine, tutti i diritti di pedaggio, regalia e fodro, inerenti - per privilegio imperiale - alla funzione di vescovo di Novara.
Secondo la tesi esposta, dinnanzi al cardinal legato, da Obizzo da Forno "sindaco e procuratore dei Consoli, dei Credenzieri, degli uomini e della Università del luogo di Domo nel comitato di Ossola, soggetti alla giurisdizione spirituale del predetto vescovo e della Chiesa Novarese", le autorità municipali di Domodossola avevano deciso ed iniziato la costruzione delle mura cittadine perché, "per diritto comune, è lecito a ciascuno di fare ciò che più gli torna a grado nelle sue proprietà"; e perché, seppure fosse stato necessario averne licenza dal vescovo di Novara, essi l'avevano ottenuta da Bartolomeo Quirini, tanto che lo stesso B. si era impegnato a far costruire a sue spese il tratto del baluardo compreso tra il suo nuovo palazzo vescovile e la basilica dei SS. Gervasio e Protaso. Quali fondamenti avessero simili affermazioni, è testimoniato dalle richieste pregiudiziali che la comunità avanzava per accettare la sentenza arbitrale: essere esonerata dall'obbligo di produrre prove documentarie a sostegno delle sue tesi, ed abolizione del divieto di proseguire nella costruzione delle mura.
Allontanatosi da Novara in concomitanza all'affermarsi del predominio visconteo sulla città, il B. scelse a sua residenza il castello della Mattarella, ove abitò continuativamente dal 1320; mantenutosi fedele a Giovanni XXII durante la calata, di Ludovico il Bavaro (accanto a quest'ultimo è ricordato infatti nei documenti un secondo vescovo di Novara, Giovanni, probabilmente consacrato dall'antipapa Niccolò V), il B. dovette morire fra il 30 ott. 1330 (giorno in cui datò, dal castello vescovile della Mattarella, il suo testamento) ed il 31 luglio 1331, data in cui fu nominato a succedergli Giovanni Visconti, canonico della cattedrale di Milano.
Il testamento redatto dal B. nel 1330 testimonia la sua sollecitudine nei confronti della sua diocesi: oltre a numerosi legati e lasciti per le chiese parrocchiali, le opere pie, gli ospedali ed i conventi - tra i quali un fondo di 20 lire di imperiali per le chiese di S. Gaudenzio in Novara, S. Giulio d'Isola, S. Giuliano di Gozzano, SS. Gervasio e Protaso di Domodossola; ed un secondo di 250 fiorini d'oro per dotare 25 fanciulle non abbienti -, il B. disponeva che il proprio patrimonio personale venisse distribuito tra i poveri della diocesi. Fondava inoltre quattro nuove cappellanie con beneficio (reddito annuo di 400 lire di imperiali) nel duomo e nella chiesa di S. Gaudenzio a Novara, in S. Giulio d'Isola e in S. Giuliano a Gozzano.
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