ULISSE ('Οδυσσεύς, Ulixes)
Uno dei più noti eroi greci. Del suo nome si diedero varie etimologie: la più comune è quella da ὀδύσσασϑαι, che risale alla stessa epopea (Odyss., XIX, 407, 409), per cui il nome significherebbe l'"iroso", carattere peraltro senza preciso riscontro nel mito che fa di lui piuttosto il paziente. D'altronde questa etimologia greca non spiega come il nome ricorra nella forma Olysseus, o in forme affini, a Corinto, in Atene, in Beozia almeno fino dal sec. VII o VI, perché in greco il passaggio di δ in λ sembra ignoto, quello di λ in δ rarissimo. Il nome è dunque forse pregreco. U. è già nell'Iliade un personaggio che il poeta ritiene ben noto ai lettori e che non può essere in nessun modo eliminato dal racconto, sebbene non vi abbia quella parte essenziale che vi hanno Agamennone, Menelao, Achille e forse Aiace. La sua partecipazione alla guerra troiana è dunque antichissima, ma la parte da lui avuta in questa guerra col consiglio o con l'opera è in aumento in carmi dell'Iliade non antichissimi, come nella sua forma odierna l'Ambasceria (lib. IX), o relativamente recenti, come la Dolonia (lib. X), e si arricchisce ancora di episodî nei poemi ciclici: così la sua contesa con Palamede, la contesa con Aiace per le armi d'Achille, la parte avuta nel ricondurre da Lemno fra gli assedianti Filottete e nel condurvi da Sciro il figlio di Achille Neottolemo, la cattura di Eleno, il rapimento del Palladio e infine l'episodio del cavallo troiano, nel quale egli sarebbe stato a capo dei Greci ivi rinchiusi e autore della loro salvezza. Ma la stessa Iliade sembra mostrare che erano note al poeta altre favole su U. oltre quelle che egli narrava. Ciò si desume, p. es., dall'epiteto datogli cinque volte di paziente, che nell'Iliade egli non par meritare più d'altri eroi; da quello di distruttore di città (πτολίπορϑος), il quale non sembra si possa spiegare come riferentesi proletticamente alla distruzione di Troia. Anche sono caratteristici due altri passi, dove egli viene qualificato come padre di Telemaco (Il., II, 260; IV, 354), ciò che fa presupporre note al poeta avventure cui U. ha partecipato insieme col figlio. Il carattere del resto delle avventure di U. dopo la distruzione di Troia, narrate dall'Odissea, è tale da far ritenere che queste non siano, come certi episodî della guerra troiana, o come taluni dei racconti intorno ai nostoi degli eroi achei, un arricchimento posteriore della leggenda della sua partecipazione a quella guerra, ma che anzi esse rappresentino il nucleo fondamentale del suo mito e che la popolarità del racconto dei suoi errori abbia finito col far inserire U. tra gli eroi della guerra troiana. Un punto sembra particolarmente assodato in base alla doppia forma del nome: che le popolazioni della Grecia centrale lo hanno conosciuto indipendentemente dai carmi epici sorti intorno a lui nell'Asia Minore; e cioè che si tratta di una figura mitica anteriore alla colonizzazione greca oltre l'Egeo. In tale stato di cose, che egli sia un effettivo duce di una stirpe di Ithakoi, una stirpe poi scomparsa o quasi, che avrebbe partecipato alla grande migrazione dei Greci nella loro penisola (Wilamowitz), è ipotesi quanto mai rischiosa e inverosimile. Assai più verosimile appare che egli fosse originariamente un dio, e con questa ipotesi si spiegano bene molti dei suoi errori narrati nell'Odissea. È vero che in tali racconti è ricchissimo l'elemento fiabesco, ma sarebbe arbitrario escludere che questo potesse consertarsi con un elemento specificamente mitico o anzi abbarbicarsi su esso. Ad ogni modo è difficile negare che molti dei racconti intomo ad U. rappresentassero in origine il suo viaggio tra i morti. Tale viaggio non solo è narrato esplicitamente nella Nékyia (lib. XI) dell'Odissea, ma è adombrato anche nel soggiorno dell'eroe presso Calipso, "la nasconditrice", che lo vuole accanto a sé nelle cave spelonche della sua isola oceanica, Ogigia, là dove il sole muore. E analogamente va spiegato anche il suo soggiorno presso i Feaci, "i Grigi", abitanti dell'isola di Scheria, che vengono puniti dagli dei per avere osato ricondurre Ulisse nella patria, sicché da allora in poi si asterranno dal ricondurre tra gli altri uomini chi che sia. E forse, sebbene vi confluiscano elementi estranei e originariamente di natura diversa, a un simile significato sono stati attratti anche altri miti, più di ogni altro quello di Circe che trattiene presso di sé per sempre gli uomini che hanno la sventura di approdare nella sua isola. Da tutti questi racconti sembra apparire chiaro il carattere di U. come dio solare che, simile agli dei solari di altre mitologie, scende nell'Ade come il sole che va al tramonto, ma riesce a liberarsi con la forza o l'astuzia dai mostri del mondo sotterraneo per risorgere al mattino. Al pari d'altri eroi solari, con i suoi dardi (raggi del sole), egli disperde i nemici: da ciò la parte essenziale che il suo grande arco ha, o per lo meno aveva nella strage dei proci. Questi lineamenti caratteristici del mito di Ulisse mostrano come sia da respingere l'ipotesi che vi cerca tracce di sciamanismo e vede nei carmi che ne trattano risonanze d'antichissima poesia sciamanica.
Altri fatti o altri dati del racconto omerico sono meno facilmente analizzabili. Così è figura miticamente scialba quella di Laerte, il padre di U., nel quale è del tutto arbitrario vedere un dio della vegetazione. La piccola Itaca deve forse alla sua posizione occidentale d'essere stata considerata come la reggia di U., al modo stesso come la reggia di Neleo, la quale si trovava in origine sulle porte dell'Ade (ἐν πύλῳ ἐν νεκύεσσιν, Iliade, V, 397), è stata localizzata sulle sponde occidentali del Peloponneso, e uno degl'ingressi dell'Ade nello estremo occidente della penisola greca, fra i Tesproti. Certamente la piccola isola non può essere stata mai la sede d'una potente monarchia achea. Ma ciò spiega solo, non giustifica gli sforzi dei modemi per considerare l'antica Itaca come tutt'altra da quell'isola che ha poi sempre portato tale nome. La fida consorte di U., Penelope, la quale resistendo alle lusinghe e alle minacce dei proci attende lo sposo lontano, appare altrove localizzata in Arcadia come sposa di Hermes e madre del dio arcadico Pan. Fare delle due Penelopi due personaggi diversi con lo stesso raro e strano nome, che si collega con quello d'un uccello πανέλοψ, pare arbitrario; e d'altronde essendo chiaro che il legame di U. con Itaca è secondario, non riesce affatto strano che egli sia collegato con figure mitiche attinte ad altro ambiente, tanto più che tracce antiche di sue particolari relazioni con l'Arcadia e con la Laconia non mancano e che considerarle tutte in blocco come posteriori a Omero e dovute al suo influsso, pare affatto arbitrario. Quanto ai figli di U., i nomi dei due più noti, Telemaco e Telegono, sono troppo trasparenti per poter competere d'antichità con quello del padre. Più antico è Telemaco, il cui viaggio alla ricerca del padre era l'oggetto di un particolare poemetto inserito nella nostra Odissea, poemetto che si chiudeva col racconto della strage dei proci. Telemaco, "il combattente da lungi", cioè, come sembra, l'arciere, pare nome analogo a quello dato al figlio di Aiace, Eurisace, dall'ampio scudo paterno. E tuttavia il suo nome è istruttivo, perché si collega con l'arco di U., cioè con un'arma che già nell'Iliade non appare più come la sua. Quanto a Telegono, "il nato di lontano", figlio di U. e di Circe, esso è certamente più recente di Telemaco e il suo nome è foggiato ad esempio di quello. La Telegonia narrava come egli partisse da Eea , in cerca del padre e, sbarcato ad Itaca, venisse in lotta con U. da lui non riconosciuto e lo uccidesse. Questa lotta non è soltanto la tarda applicazione a U. del vecchio motivo fiabesco della lotta tra padre e figlio l'uno all'altro sconosciuti (cfr. nel mito greco Edipo e Laio), ma presuppone, è da credere, un più profondo sostrato mitico, cioè l'antichissima concezione del Sole nuovo come figlio del vecchio Sole e suo vincitore.
Nel mito originario gli errori d'U. non potevano essere precisamente localizzati, sebbene dovessero in massima riferirsi all'estrema regione occidentale dove il Sole muore. Nella nostra Odissea, salvo l'impresa contro i Ciconi nella Tracia sud-orientale, essi sono tutti localizzati a occidente del capo Malea. Non vi mancano però tracce di una più antica localizzazione in parte contraddittoria. In massima peraltro non è dubbio che il poeta ha avuto sempre la mira ai mari occidentali. Può darsi che il redattore dell'Odissea, il quale poetava circa la fine del sec. VIII o il principio del VII e non poteva non avere un'idea almeno vaga della Sicilia, della Libia e dell'Italia meridionale, avesse egli stesso in mente qualche approssimativa localizzazione delle vicende da lui narrate nei mari occidentali simile a quelle che sorsero e si accreditarono poi. Già infatti in epoca assai antica la Teogonia esiodea, e sia pure in una aggiunta al nucleo originario, collocava certo Circe in un'isola vicina alle sponde italiane poiché diceva che essa generò ad U. Agrio e Latino, il quale nel golfo delle sacre isole regna su tutti gl'incliti Tirreni. Era infatti ben naturale che i coloni, i quali popolarono le coste della Sicilia e della Magna Grecia, credessero di ritrovare nelle terre ove si stabilivano, le tracce delle peregrinazioni di U.; ed era anche naturale che gl'indigeni con cui essi vennero a contatto, a mano a mano che acquistarono la conoscenza di quei miti, amassero glorificare le proprie origini collegandole con U., il quale divenne di fatto popolare tanto fra gli Etruschi quanto fra i Latini. Ma è caratteristico che questi e quelli desunsero dai Greci in modo affatto indipendente il ricordo dell'eroe. Infatti presso gli Etruschi il suo nome conserva la dentale (Utuze, Uthuste), mentre presso i Latini e gli altri Italici esso presenta la liquida (Ulixes, Uluxe).
Tra le più antiche localizzazioni è senza dubbio quella di Scilla e Cariddi nello Stretto di Messina. L'isola delle Sirene si cercò presso il promontorio Ateneo al vertice della Penisola Sorrentina, e le loro tombe si additarono nella regione campana o non lontano da essa: più famosa di tutte, nel luogo dove poi sorse Napoli, la tomba della Sirena Partenope. Circe si localizzò nel promontorio Circeo considerato come un'antica isola. Non molto a sud si localizzò la Nékyia nelle vicinanze di Cuma presso il lago i cui vapori si riteneva avessero la capacità di uccidere gli uccelli, detto perciò "Αορνος (Avernus), ed ivi si ritenne che abitassero in cavità sotterranee i Cimmerî vivendo delle miniere e delle consultazioni ad essi affidate dell'oracolo ctonio. L'isola di Eolo si cercò a Strongile (Stromboli) o in altra delle Lipari che finirono poi con essere tutte denominate isole Eolie; i Ciclopi si localizzarono presso l'Etna. Qui vicino con minore fondamento si cercarono anche i Lestrigoni, di cui pare invece indubitato il carattere nordico, nella piana di Leontini; e più tardi con verosimiglianza anche minore i Lotofagi, di cui sono chiare le attinenze libiche, presso Camarina o presso Agrigento. Accolta generalmente fu pure l'identificazione della Thrinakie omerica, l'isola di Helios, dove i compagni di U. eccitano l'ira del dio cibandosi dei suoi sacri armenti, con la Sicilia (Trinacria). La critica moderna suggerendo che Thrinakie vuol dire isola a forma di tridente o di forchetta, afferma che con quel nome il mito non può avere designato che il Peloponneso (Wilamowitz, Robert). Ipotesi inammissibile, perché sarebbe un mistero, come la patria degli Achei, la penisola ben nota al poeta, in cui dominavano Argo, Sparta e Micene, potesse trasformarsi nella remota isola disabitata, possesso esclusivo del Sole. Quanto all'isola di Ogigia, la si cercò in qualche località intermedia tra i punti estremi occidentali toccati da U. e la sua patria: così nell'isola di Gozzo a sud di Malta o nell'isola di Melite (Meleda) nell'Adriatico. Infine Scheria, l'isola dei Feaci, si ravvisò in Corcira, e questa è localizzazione assai antica, accettata dagli stessi Corciresi.
Tiresia nell'Odissea impone ad U. di placare lo sdegno di Posidone, tornato che egli sia ad Itaca, offrendo al nume sacrifizî espiatorî dopo essersi recato in luogo del continente, dove fossero del tutto ignoti il mare e i remi. Compiuto ciò egli sarebbe vissuto felicemente in patria dove poi avrebbe trovato da vecchio una morte serena, lungi dai pericoli del mare, ἐξ ἁλός. Questa espressione è stata interpretata da qualche antico e da qualche moderno nel senso di una morte proveniente dal mare, cioè come un oscuro accenno alla Telegonia. Comunque, sia l'oracolo di Tiresia sia la norma vigente in Grecia di espiare il sangue versato con l'esilio temporaneo o permanente, diedero origine a nuovi errori di U. Lo si condusse in cerca del popolo cui il mare era ignoto nell'Arcadia o nella Tesprozia, due regioni del resto dove il mare non poteva essere che ben noto. Particolarmente il soggiorno nella Tesprozia, cantato nella Tesprotide, diede origine a una serie di favole che non è qui il luogo di seguire. Basterà notare che si finì con ricondurre U. nell'Occidente e più specificamente nella penisola italiana. Così Aristotele (fr. 507) e Teopompo (fr. 354, Jacoby), secondo il quale U. si recò in Tirrenia ed abitò la Gortinea (Cortona) ed ivi morì altamente onorato dagli Etruschi. In Etruria, secondo alcuni moderni che si fondano sull'interpretazione di un luogo oscurissimo dell'Alessandra di Licofrone (v. 806), U. sarebbe stato identificato con un eroe indigeno Nanas o Nanos. Altri ha voluto ricavare da una lezione, probabilmente errata, di un passo di Ellanico presso Dionisio di Alicarnasso (I, 72, 2) che egli partecipasse, secondo una forma della leggenda, alla fondazione di Roma. Ma con la fondazione di Roma e d'altre città latine si finì a ogni modo col connetterlo, se non direttamente, almeno indirettamente. Già vedemmo come Latino secondo Esiodo era figlio di U. e di Circe. Un antico logografo dava come figli a U. e a Circe Romo, Anteias e Ardeas, gli eponimi delle tre città laziali. Per altri, Latino e Roma, la eponima di Roma, erano figli di Telemaco e di Circe. Altri narravano che Telegono aveva fondato Preneste e Tuscolo. Questa leggenda ebbe molta diffusione tra i poeti latini, e i Mamilî di Tuscolo si considerarono come discendenti di Mamilia, figlia di Telegono. Infine da Telegono e Penelope (che, secondo una leggenda molto diffusa, egli sposò dopo la morte del padre mentre Telemaco sposava Circe) nacque Italo, l'eponimo dell'Italia. Questo ciclo di leggende ebbe peraltro minore fortuna della leggenda d'Enea, perché l'unificazione d'Italia non partì da Tuscolo o da Preneste ma da Roma, dove la leggenda delle origini troiane aveva gettato più salde radici.
Ulisse nella letteratura e nell'arte antica. - La figura di U. è rappresentata con grande coerenza nei due poemi omerici. Guerriero destro e robusto, prode nella battaglia, egli eccelle per sagacia e per scaltrezza. La sua impavida costanza tra i pericoli e i travagli è pari alla sua perenne presenza di spirito nel cercare per sé e per gli altri via di salvezza. Amante della patria e della famiglia, egli ne sente sempre in mezzo ai suoi errori la nostalgia. In campo è fedele al duce Agamennone e alla causa per cui combatte. Non è crudele con i nemici, è fido verso gli amici, per i sudditi d'Itaca è un padre, con i servi fedeli è un padrone amorevole, degli infedeli è punitore severo. La sua pietà verso gli dei è esemplare, l'affetto di lui verso la sua patrona divina Atena ha una rispettosa intimità alla quale di rado assurgono nel paganesimo classico le relazioni tra uomini e dei. Con questa immagine non contrastano, purché teniamo conto dei sentimenti di quell'età e della ingenuità di espressione propria di quei poeti, né una sua fuga di fronte ai Troiani, quando tutti fuggono, né le lusinghe di Circe che gli fanno per un anno dimenticare la patria e la consorte. Qualche contraddizione intorno alla figura fisica di U., che una volta appare biondo un'altra bruno, è senza alcuna importanza. Ma questa unità di rappresentazione, caratteristica dei due maggiori poemi omerici, viene meno già nei poeti ciclici, secondo che poggiano più sull'una o più sull'altra delle doti dell'eroe, unificate dalla vigorosa intuizione degli aedi omerici. E s'intende che la sagacia, la quale finiva col divenire astuzia e frodolenza, si prestava soprattutto a introdurre nel racconto elementi nuovi dai quali la figura di U. esce in parte deformata e peggiorata. Che nella madrepatria all'ideale eroico più ricco delle progredite colonie d'oltremare fosse preferito un ideale eroico più rozzo e diritto, impersonato in Eracle, spiega forse quella certa avversione per U., che si manifesta qua e là nell'età classica, a cominciare da Pindaro che non lo ama, e poi anche in Sofocle il quale ne tratteggia bensì una nobile figurazione nell'Aiace, ma lo deprime nel Filottete, e più di tutti in Euripide, il quale, lasciando da parte il Ciclope dove segue le tracce di Omero, nelle Troadi, nell'Ecuba e nell'Oreste ci dà un U. rozzo e spregevole. Non tutti peraltro in quella età pensavano così: non così particolarmente, a testimonianza di Platone, Socrate (Hipp. min., 369 e). Ciò spiega come poi, nell'età ellenistica, pur mentre si continuava a favoleggiare di lui nel modo più libero e più vario, i filosofi, specie gli stoici, lo considerassero come il tipo del saggio e i politici, p. es. Polibio, come il tipo del duce (ἡγἐμονικώτατος, IX, 16, 1) e dell'uomo d'azione (πραγματικός, XII, 27).
Presso i Romani è anch'egli una delle figure più popolari della mitologia greca e i giudizî su lui sono assai contraddittorî, da quelli favorevoli di Cicerone, che sono luoghi comuni delle sue fonti retoriche o filosofiche (De or., I, 196; Tusc., II, 48), a quelli piuttosto malevoli dei poeti che mettono in luce soprattutto la sua duplicità e i suoi inganni, ciò che in parte si spiega con la necessità di contrapporre ai suoi errori, esaltandole, le peregrinazioni dei Troiani d'Enea cui si facevano risalire le origini di Roma. E tuttavia le favole intorno ad U. continuavano ad elaborarsi anche in età abbastanza tarda; quando si cominciarono a conoscere le sponde europee dell'Atlantico, si attribuì ad U. la fondazione di Lisbona (Olissipo) e si narrò perfino di suoi viaggi nella Gallia tra gli Elusati, nella Caledonia e nella Germania, dove avrebbe fondato Asciburgium (Tac., Germania, 3).
Sui monumenti figurati di età classica U. appare più raramente che gli altri eroi non tanto perché egli godesse di minore popolarità, quanto perché le sue gesta, nelle quali riluce soprattutto un grande acume psicologico, erano meno atte a divenire oggetto di una rappresentazione artistica che non le prodezze dei mitici prototipi dell'ideale atletico. Inoltre quasi mai U. appare da solo nelle sue avventure, ciò che costituiva un grave impaccio per l'arte arcaica, che amava le scene con due o al massimo tre personaggi. Sui vasi attici del sec. V troviamo rappresentato U. che si presenta a Nausicaa, il riconoscimento della vecchia ancella Euriclea, l'uccisione dei proci, la disputa per le armi di Achille e la discesa nell'Ade (su un magnifico vaso italiota); sui vasi del sec. IV il vano tentativo di seduzione da parte delle Sirene, l'accoglienza di Circe, il ratto del Palladio e la cattura di Dolone (questi tre episodî anche in parodia); su un affresco etrusco del sec. III l'accecamento di Polifemo; sui bellissimi affreschi dell'Esquilino, che si sogliono attribuire come età al regno di Augusto, l'episodio dei Lestrigoni; e su rilievi romani del sec. II d. C. il ratto del Palladio e il riconoscimento da parte del cane Argo. Gli episodî della vita di L. vengono rappresentati più frequentemente dopo il sec. V, il che ben si spiega con la preferenza che l'arte diede via via ai conflitti di anime sulle manifestazioni della forza bruta.
Bibl.: J. Schmidt, in Roscher, Lexicon der griech. u. röm. Myth., III, i, coll. 602 segg.; C. Robert, Die griechische Heldensage, III, i, Berlino 1923, p. 1050 segg.; III, ii, ivi 1926, p. 1342 segg.; U. v. Wilamowitz, Homerische Untersuchungen, ivi 1884, p. 163 segg.; id., Die Heimkehr des Odyassaeus, ivi 1927, p. 183 segg. (dove l'autore corregge non sempre felicemente le sue tesi di prima); E. Bethe, Homer. Dichtung und Sage, II-III, Lipsia-Berlino 1922-27, passim; K. Meuli, Scythica, in Hermes, LXX (1035), p. 167 segg. (per l'interpretazione sciamanistica). - Per l'etimologia del nome e delle varie forme di esso, v.: F. Solmsen, in Zeitschrift für vergleichende Sprachforschung, XLII (1914), p. 207 segg.;. E. Fiesel, Namen des griechischen Mythos im Etruskischen, Gottinga 1928, p. 48 segg. - Per la geografia dei viaggi di U., oltre agli scritti già citati, si vedano le opere metodicamente deficienti, ma ricche di notizie e di congetture, di V. Bérard, Les Phéniciens et l'Odyssée, Parigi 1902-03, e R. Hennig, Geographie des homerischen Epos, Lipsia-Berlino 1934.
Ulisse nelle letterature moderne. - La figura di U. subì un'importante alterazione per opera di Dante, che, per il famoso episodio nel XXVI canto dell'Inferno attinse in parte alle tradizioni che volevano che l'eroe da Itaca intraprendesse un secondo viaggio.
Anche un passo di Cicerone (De Off., III, 26) influì sulla concezione dantesca, che rappresentò l'eroe non trattenuto da dolcezza di figlio, né da pietà del vecchio padre, né dall'amore per la moglie. Da questi esigui spunti Dante creò la possente figura di navigatore anelante "a divenir del mondo esperto - E delli "vizi umani e del valore", simbolo dell'umana sete di sapere e dell'ardimentosa volontà (simbolo universale, e insieme intimamente espressivo dell'anima dantesca), figura che di tanto trascende quella dell'astuto guerriero che Dante conosceva dall'Eneide e che, come autore della frode che rovinò Troia, punì nel fuoco dell'ottava bolgia. Guida ai compagni verso una più alta umanità, U. diventa così figura affine a Prometeo, vinto anch'egli per avere sorpassato i limiti oltre i quali non conviene che l'uomo si metta, ma pure ammirevole nel suo "folle volo". Una tale figura non poteva mancare di fare appello alla fantasia romantica. A essa s'ispirò A. Tennyson nel suo soliloquio lirico Ulysses (1842), la cui prima battuta pare suggerita dal passo ciceroniano, mentre l'ultima risponde alla concezione prometeica. Da un lato l'atteggiamento dell'U. tennysoniano si colora di sfida prometeica, aliena alla concezione dantesca, dall'altro la sua avventura si tinge di esotismo romantico, non è più sete di sapere vietato, ma sete dell'impossibile. Questo motivo supremamente romantico, di vanità dell'umana ricerca simboleggiata in U., si stempera nei poeti italiani che si misero sulle orme del Tennyson: Arturo Graf, nel suo Ultimo viaggio di Ulisse, d'un pessimismo ingenuamente ostentato, e Giovanni Pascoli, nel suo più sottile e alessandrino Ultimo viaggio (nei Poemi Conviviali), tutto pervaso d'un elegiaco esotismo, tinto "dell'azzurro color di lontananza". Invero il poema pascoliano è una serie di eleganti variazioni su uno dei più popolari temi romantici, formulato alla fine del Settecento in due famosi versi del Campbell: "'Tis distance lends enchantment to the view -And robes the mountain in its azure hue". Ulisse torna vecchio ai luoghi delle sue avventure, magnificate nella distanza del ricordo e del sogno; non più pago di sognare, ma bramoso di sapere, insegue ombre che si dissolvono forever and forever com'egli si avvicina. E nel punto che, ardendo di uscire dal sogno nella piena coscienza, affronta senza difesa le Sirene, e rivolge loro la suprema domanda: Chi sono io? chi ero? - egli stesso si dissolve, e riapproda in seno alla "Nasconditrice solitaria", a Calipso, l'eterno mistero dell'essere. Se nel poema del Pascoli U. perde quanto di dantesca energia ancora rimaneva nella concezione tennysoniana, nei versi che a U. ha dedicato D'Annunzio nella Laus Vitae si esaspera invece l'aspetto prometeico dell'eroe, fino alla frase, tipica del paganismo romantico: "O Galileo - men vali tu che nel dantesco fuoco - il piloto re d'Itaca Odisseo".
Nell'Ulysses di James Joyce l'Odissea, vista attraverso l'interpretazione di Victor Bérard (Les Phéniciens et l'Odyssée), sottende, come simbolo, le avventure di personaggi moderni: l'ebreo Mr. Bloom è come un riflesso talora umoresco, di U.
Bibl.: A. Bertoldi, U. in Dante e nella poesia moderna, in Rassegna nazionale, 1° luglio 1905 (ristampato in Nostra maggior Musa, Firenze 1921); A. Roviglio, in Annuario del R. Istituto Tecnico di Udine, 1928-29; G. Bertoni, U. nella "Divina Commedia" e nei poeti moderni, in Atti dell'Accademia degli Arcadi, n. s., XIV, v-vi (1930); S. Gilbert, James Joyce's Ulysses, Londra 1930.