UMBRIA
Regione dell'Italia centrale, tra Toscana, Marche e Lazio, compresa nell'alto e medio bacino del Tevere e limitata verso E dalla catena appenninica.
I confini dell'U. attuale corrispondono solo in parte alla Regio VI augustea, che giungeva fino all'Adriatico. Nella riforma di Diocleziano l'od. territorio umbro venne incluso nella provincia di Tuscia et Umbria (Bullough, 1978). Con la conquista longobarda si ebbe una divisione del territorio in Tuscia Romana, Tuscia Langobardorum e Tuscia ducale (compresa nel ducato di Spoleto), mentre il termine U. veniva sostituito poi fino al Rinascimento dall'indicazione di ducato di Spoleto (denominazione che faceva riferimento anche alle aree di Città di Castello, Assisi, Norcia, Terni), mentre Perugia veniva annoverata tra le città della Toscana (Mochi Onory, 1954; Grohman, 1978) Alla fine dell'epoca antica la regione si trovò ad avere un ruolo importante, in quanto attraversata dalla via Flaminia (tratto Narni, Bevagna, Foligno, Forum Flaminii; tratto Narni, Terni, Spoleto, Forum Flaminii) e dalla via Amerina (che si staccava dalla Cassia all'altezza di Baccano e raggiungeva Amelia, Todi, Bettona, Perugia), due vie che costituivano entrambe il tramite tra Roma e l'esarcato di Ravenna. Per questa posizione strategica l'U. fu prima occupata dai Goti, che si stanziarono a Spoleto, Norcia, Perugia, Assisi, Narni e Todi (sono attestati alcuni restauri alle città a opera di Teodorico), e poi fu al centro della guerra greco-gotica (535-553), che completò il processo di decadenza degli antichi centri urbani, accelerato anche dalla distruzione degli acquedotti durante gli assedi.Allo stesso modo in cui per l'età romana è possibile osservare una continuità di insediamento con le antiche località umbre, così avvenne anche per il Medioevo, essendo del resto le città maggiori (quasi tutte coincidenti con le ventidue sedi diocesane tardoantiche dell'U.) disposte lungo la Flaminia e l'Amerina.
Significativi per lo sviluppo culturale dell'U. furono gli insediamenti monastici, a partire da quelli del Monteluco - organizzati intorno al monastero di S. Giuliano (presso Spoleto) secondo il sistema delle laure - e della Valnerina, dove la tradizione agiografica fa risalire un insediamento eremitico dei monaci Felice e Mauro nel luogo in cui ora sorge la chiesa di S. Felice di Narco; ancora un antichissimo insediamento monastico sarebbe esistito nella località dove successivamente fu edificata l'abbazia di S. Pietro in Valle presso Ferentillo (Pani Ermini, 1983); nel Nursino va inoltre citato l'insediamento di S. Eutizio, attestato già nel sec. 6° (Penco, 1965; Meloni, 1966; Pani Ermini, 1983).Con il costituirsi del ducato longobardo di Spoleto (576) nell'area a E del Tevere, si venne a formare nella regione una fascia di territorio, detta 'corridoio', che rimase in mano bizantina, anche se in modo non continuativo, per permettere il collegamento tra Roma e Ravenna, attraverso le città di Amelia, Narni e Perugia. Il ducato di Spoleto, che i possedimenti bizantini isolavano dal regno longobardo, ebbe confini spesso variabili e scarsamente documentabili: il suo territorio giunse fino alla regione marchigiana e comprese, oltre allo Spoletino, le città di Assisi e Foligno, l'alta valle del Nera, la conca di Norcia, la conca di Leonessa e, per un certo periodo, il Reatino con gran parte della Sabina.Entrato a far parte del Sacro romano impero, il ducato perse la propria autonomia e i duchi divennero semplici rappresentanti del potere centrale; solo alla fine del sec. 9° il ducato riacquistò una posizione di primo piano.Tra la fine del sec. 11° e l'inizio del 12° sorsero in U. i primi comuni: Perugia, Assisi, Foligno, Spoleto, Todi, Orvieto, Gubbio e Città di Castello. Nonostante il ducato di Spoleto conservasse nominalmente la propria unità, la storia dell'U. appare ora risolversi nelle vicende delle singole città.Nel 1198 Innocenzo III, approfittando della decadenza di Spoleto - dovuta alla distruzione subìta da Federico Barbarossa nel 1155 -, poté affermare la propria supremazia sulla regione, tramite un'assidua opera volta alla frammentazione del territorio, per impedire lo sviluppo dei centri maggiori (va letta in questa prospettiva la nascita di comuni di modesta entità, quali Otricoli e Stroncone; Nicolini, 1978), mentre continuavano a reclamare il ducato gli imperatori, da ultimo Federico II (1220-1250), che dovette fronteggiare una lega guidata da Perugia, poi battuta a causa di controversie interne.Nel frattempo sorgeva proprio in U. un nuovo movimento religioso destinato a influire in modo profondo nella cultura e nell'arte della regione: l'Ordine francescano, che, insieme agli altri Ordini mendicanti, colonizzò in maniera capillare con i propri insediamenti il territorio umbro.Nel sec. 14° vi fu una forte espansione di Perugia, che giunse a controllare gran parte della regione, nonché la nascita delle prime signorie cittadine (Trinci a Foligno, Gabrielli a Gubbio). Dal 1353 il legato pontificio Egidio Albornoz riuscì per breve tempo a ricondurre le città umbre sotto il dominio papale, sottolineando le proprie conquiste con la costruzione di una serie di rocche.L'U., che all'epoca romana era una delle aree maggiormente urbanizzate, conservò nel Medioevo gran parte dei suoi insediamenti; in molti di essi però si verificò uno spostamento dell'abitato verso l'alto, spesso con veri e propri arroccamenti, determinati, come a Trevi, dall'impaludamento delle aree pianeggianti. Così furono numerosi i centri pedecollinari romani che si spostarono verso l'alto: a Gubbio, l'antico centro romano venne del tutto abbandonato e l'abitato medievale si trasferì sulle pendici del monte Ingino. Una situazione analoga si ritrova a Otricoli - dove il borgo medievale (Castrum Utriculi) fu edificato in collina sul sito dell'antico centro preromano -, a Spello, ad Acquasparta (Cagiano de Azevedo, 1965) e a Gualdo Tadino. Quest'ultima città sorse nel 1180 come un centro del tutto nuovo rispetto alla romana Tadinum e nel suo impianto regolare sono stati ravvisati i caratteri delle fondazioni federiciane (Guidoni, 1978).Altre città rimasero invece all'interno delle mura romane, come Spoleto - dove non si effettuò nemmeno l'ampliamento per recuperare gli edifici tardoantichi e l'anfiteatro, che poté così essere utilizzato come fortezza da parte dei Goti - o Perugia, che si giovò di una sostanziale continuità di occupazione bizantina e che comunque era già posta su un'altura. Restarono invece in pianura, perché in posizione strategica, Terni, Foligno, Bevagna e Città di Castello.Rispetto alle ordinate città romane, quelle altomedievali crebbero in modo disordinato, in particolare in area longobarda, ed erano in genere meno salubri a causa della distruzione degli acquedotti (Cagiano de Azevedo, 1965). Nel Tardo Medioevo furono riattivate le antiche cisterne romane e realizzati nuovi acquedotti, come quelli su pilastri di Perugia (L'acquedotto medievale di Perugia, 1997) e di Spoleto (Guidoni, 1978). A partire dalla metà del sec. 12° vi fu una grande attività edilizia finalizzata alla ricostruzione delle città, come nel caso di Gubbio (prima metà sec. 13°). Entro il Duecento molti centri ampliarono le mura, come Todi (prima metà sec. 13°), Foligno (1250) e Spoleto (fine sec. 13°). Ad Assisi l'ampliamento del 1316 venne effettuato per includere la basilica di S. Francesco; le fondazioni degli Ordini mendicanti ebbero un ruolo importante anche per le altre città, determinando in alcuni casi la struttura a triangolo già osservata altrove (Guidoni, 1978) o addirittura decretando le direttrici dell'espansione urbana, appoggiandosi alle vecchie mura o 'scavalcandole' come avvenne a Spoleto (Romanini, 1983).
Ricostruire uno sviluppo architettonico nell'U. risulta piuttosto difficile fino all'epoca romanica, sia per la scarsità di edifici conservati anteriori al Mille sia anche per la frammentazione dell'area in subregioni spesso distinte dal punto di vista politico e caratterizzate da influssi culturali diversi. Risulta inoltre decisamente superato il concetto di una sostanziale autoctonia artistica della regione (De Angelis d'Ossat, 1954) e si chiariscono invece molteplici direzioni di influenza, dovute alla posizione geografica dell'U. e al suo diverso assetto politico nel corso dei secoli. Così, a una complessiva dicotomia della regione in epoca longobarda e alla virtuale riunificazione territoriale in età carolingia si sostituì, nei secc. 11° e 12°, una frammentazione culturale corrispondente all'area di influenza delle maggiori città (Città di Castello, Perugia, Gubbio, Spoleto, Narni, Orvieto) e quindi una nuova riunificazione sotto il dominio papale, a partire dai primi anni del Duecento (Gigliozzi, 2000).
Rari sono i monumenti paleocristiani conservati. A Spoleto (v.) si trova la basilica di S. Salvatore, termine di confronto quasi obbligato per l'architettura successiva, in particolare per la sua decorazione plastica. L'edificio, frutto di due distinte fasi, la prima delle quali è evidente nella zona orientale, risulta un unicum architettonico, non avendo modelli di riferimento conservati e restando sostanzialmente privo di imitazioni. L'unico edificio a esso affine, sebbene tipologicamente molto diverso, è il Tempietto del Clitunno. Le due chiese, accomunate dalla dedicazione e dal legame con l'acqua (presso S. Salvatore sarebbe esistita una fonte) sono state recentemente oggetto di nuovi studi e nuovamente datate tra il tardo sec. 6° e i primi decenni dell'8° (Jäggi, 1998), datazione che sembrerebbe confermata dalle strutture. Si tratterebbe di monumenti sorti in contesto longobardo, vista anche la dedicazione, mentre i caratteri orientali, già individuati nei due edifici, potrebbero essere dovuti alla presenza di artisti provenienti da Oriente, cosa che troverebbe una conferma nell'alta qualità delle opere.L'altra importante costruzione tradizionalmente datata a epoca tardoantica (secc. 5°-6), e posta comunemente in relazione con il S. Stefano Rotondo di Roma, è il tempio circolare di S. Angelo a Perugia (v.). L'edificio, suddiviso in un vano centrale e in un ambulacro da un giro di sedici colonne di spoglio, con quattro cappelle disposte a croce, è stato in seguito datato al sec. 6°-7° e quindi riportato in contesto bizantino (Scortecci, 1991a). Una recente rilettura delle fonti storiche, nonché il confronto con una serie di edifici di area longobarda e la dedicazione a s. Michele Arcangelo ne renderebbero possibile una collocazione in contesto longobardo (Castellani, 1996).
La fondazione della collegiata di S. Maria Assunta a Otricoli viene assegnata al sec. 7°, quindi all'epoca in cui l'abitato si trasferì sul colle. L'impianto attuale dell'edificio viene generalmente attribuito al sec. 9°, epoca in cui sarebbe stata aggiunta anche la cripta semianulare a due accessi laterali (Pardi, 1975, pp. 19-54; Pietrangeli, 1978). Uno studio più recente mette in dubbio la tradizionale attribuzione al sec. 9° e retrodata l'impianto nel suo complesso al 7°, ritenendo di fase carolingia soltanto l'inserimento della cripta (Castellani, 1999). Singolare nell'edificio è l'uso dell'opus mixtum, come a S. Maria in Pantano a Massa Martana (Pardi, 1975, pp. 55-77), edificio ora a tre navate ma in origine ad aula, datato agli anni intorno al Mille, con facciata trecentesca (Gigliozzi, 2000).Per quanto riguarda l'epoca immediatamente successiva, le testimonianze sopravvissute a rielaborazioni posteriori degli edifici sono costituite per lo più dalle cripte. In U. la presenza del tipo semianulare è attestata dalla citata cripta di Otricoli e da quella della c.d. tribuna di S. Primiano a Spoleto, del sec. 9°, probabilmente parte dell'antico complesso vescovile posto a ridosso delle mura, con corridoi anulare e centrale coperti da volta a botte.A partire dal sec. 10° è testimoniato nella regione il passaggio verso la tipologia 'a oratorio', che si evidenzia in una serie di cripte dall'impianto rettangolare con volta priva di sottarchi e sostenuta da una o tre colonne (Assisi, S. Maria Maggiore, sec. 10°; S. Benedetto al Subasio, presso Assisi, inizi sec. 11°; Bettona, S. Crispolto, inizi sec. 11°; Collepino, S. Silvestro, sec. 11°; Isola Polvese, S. Secondo, sec. 11°; Gigliozzi, 1995).La tipologia 'a oratorio' si ritrova in forme compiute nella nuova abbaziale di S. Benedetto al Subasio (seconda metà sec. 12°) ed è ampiamente diffusa in molte altre fondazioni, monastiche e non, fino agli inizi del Duecento (Lugnano in Teverina, collegiata di S. Maria Assunta; San Giovanni Profiamma, pieve di S. Giovanni Battista). Talvolta le cripte costituiscono delle vere e proprie chiese inferiori, come nella parrocchiale di San Terenziano presso Gualdo Cattaneo (sec. 11°) e nell'abbaziale di S. Salvatore a Montecorona (fine sec. 11°).Una tipologia particolare è quella della cripta triabsidata con maggiore sviluppo orizzontale, attestata nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo a Colle San Paolo (sec. 11°), presso Perugia, con l'aggiunta di absidi laterali, e ancora nelle abbaziali di S. Egidio a Petroia, di S. Bartolomeo a Camporeggiano e di S. Maria di Montelabate, e che è presente anche nell'Aretino nell'abbaziale di Farneta, presso Cortona.I diversi aspetti dell'architettura di primo Romanico nell'U. meridionale sono maggiormente evidenti in area narnense (Narni, S. Cassiano; Visciano, S. Pudenziana; Taizzano, S. Martino; Sant'Angelo in Massa, S. Angelo). Caratteristiche peculiari, che si mantennero anche nel secolo successivo, sono la copertura a capriate, il consistente impiego di laterizio, gli elementi della muratura posti a formare decorazioni geometriche e l'arco ribassato.L'uso della copertura a volta è invece attestato per il sec. 11° a Petroia, nel blocco orientale della chiesa, dove i bracci del transetto sono coperti da volta a crociera, mentre sulla campata d'incrocio si imposta un alto tiburio coperto a tetto. Il corpo longitudinale a tre navate, successivamente alterato, era suddiviso in due zone, caratterizzate dall'impiego di un diverso tipo di sostegni. Una copertura a volte caratterizza anche il blocco orientale dell'abbaziale di S. Pietro in Valle presso Ferentillo (v.), edificio a navata unica, terminante in un'abside preceduta da un avancorpo, con transetto sporgente e absidato coperto a botte e tiburio sulla campata d'incrocio.Un esempio interessante, di non facile lettura, è la c.d. rotonda del S. Salvatore di Terni (v.), databile al sec. 12°, dove a una struttura cilindrica cupolata si aggiungono una navata a due campate voltate a crociera e un'abside rettilinea coperta da volta a botte ribassata.Dall'esempio di Ferentillo sembrerebbe derivare la relativa diffusione nella regione della tipologia a T, presente nel S. Benedetto al Subasio, e talvolta associata con una copertura a botte spezzata (Sitria, S. Maria, secc. 12°-13°) o a crociera (Assisi, S. Giacomo de muro rupto, fine sec. 12°).
Nell'architettura umbra del sec. 12° si distingue per caratteristiche specifiche il c.d. gruppo spoletino, individuato da Martelli (1957) nelle chiese di S. Gregorio Maggiore a Spoleto, S. Felice a Giano, S. Brizio presso Spoleto, S. Pietro di Bovara presso Trevi. Si tratta di edifici a tre navate, privi di transetto, con presbiterio sopraelevato e cripta 'a oratorio'; una navata centrale alta e stretta dà come risultato una forte verticalizzazione dello spazio. Anche se alcune di queste chiese presentano attualmente coperture lignee, in origine esse dovevano probabilmente essere voltate a botte nella navata centrale, sull'esempio di Giano e Bovara, e a botte rampante o a crociera sulle laterali, come nel S. Silvestro di Bevagna e nel S. Gregorio Maggiore di Spoleto. Con alcune varianti seguono questo schema le chiese di S. Giuliano e S. Ponziano a Spoleto e quelle di S. Silvestro e di S. Michele Arcangelo a Bevagna. Queste ultime, poste l'una di fronte all'altra sulla stessa piazza, che successivamente ospitò il palazzo dei Consoli (1270), sono pressoché coeve e realizzate dallo stesso maestro Binello, che a S. Michele lavorò insieme a Rodolfo, come attestano le iscrizioni poste sui portali di entrambi gli edifici. Lo schema di presbiterio sopraelevato e cripta sottostante coincide in entrambi gli edifici, ma mentre il S. Michele presenta attualmente una copertura lignea frutto di un intervento di ripristino, S. Silvestro mostra ancora le coperture a botte nella navata centrale e a botte rampante sulle laterali.Per il duomo di Foligno, sebbene l'interno sia ormai irriconoscibile nella sua veste medievale, è stata ipotizzata, per l'edificio del 1133, una struttura non dissimile da quella del S. Michele Arcangelo di Bevagna, con presbiterio sopraelevato, cripta e forse copertura a botte nella navata centrale, mentre il transetto ebbe un'imponente facciata sulla piazza nel 1201. Va sottolineata qui a Foligno, come anche nelle chiese di Bevagna e nel S. Pietro di Bovara, la presenza di iscrizioni. Tuttavia, mentre negli ultimi tre edifici esse attestano la consapevolezza degli artisti romanici della regione, a Foligno il personaggio a cui fa riferimento l'iscrizione va considerato come il committente dell'opera (Pardi, 1993).Per l'U. meridionale il duomo di Narni codifica nella prima metà del sec. 12° alcuni elementi architettonici e decorativi (archi ribassati, bicromia delle ghiere, decorazione geometrica della muratura) già presenti nelle citate fondazioni dell'11° secolo. L'edificio, dedicato a s. Giovenale, fu costruito extra moenia, a ridosso delle mura antiche, un tratto delle quali è riconoscibile all'interno della cattedrale, edificata a partire dalla metà del sec. 11°, a ridosso del sacello dei Ss. Giovenale e Cassio (poi inglobato), e consacrata nel 1145. Il motivo caratterizzante del duomo di Narni è costituito dagli eleganti archi fortemente ribassati, impostati sulle colonne che dividono le navate; il motivo ritorna nella stessa città anche in S. Maria in Pensole - dove gli archi ribassati, oltre che nell'interno, sono impiegati anche nel portico - e nel S. Domenico, mentre fuori del contesto narnense si ritrovano nel portico di S. Maria Assunta a Lugnano in Teverina. Questo edificio, però, se riprende la tipologia dell'arco ribassato all'esterno, si distingue all'interno per caratteri che, nell'impiego della volta a botte sulla navata centrale e di crociere sulle laterali, appare piuttosto improntato all'architettura di area spoletina.Un monumento singolare, situato poco fuori Narni, è l'abbazia di S. Cassiano, datata alla fine del sec. 12° e recentemente ricondotta nell'ambito del primo 11° (Gigliozzi, 2000). L'edificio presenta attualmente un impianto basilicale, ma la ricostruzione di Pardi (1975) mise in luce un impianto con transetto absidato e ripartito in tre navate. La tipologia della pianta veniva quindi fatta derivare da S. Maria di Portonovo presso Ancona, che però presenta una copertura a volta ed è datata al 12° secolo. Gli elementi dell'alzato (tipo di muratura, doppie ghiere in laterizio, ampie monofore ad arco leggermente oltrepassato) allontanano, tuttavia, l'edificio narnense dalla piena età romanica, facendo escludere quale riferimento obbligato la chiesa di Portonovo, mentre non sembrerebbe fuori luogo ricordare il duomo di Pisa come importante modello tirrenico, del sec. 11°, per il tipo di impianto a transetto absidato e tripartito.In età comunale vi fu, nelle città dell'U. come altrove, uno spostamento dell'attività edilizia dai centri monastici alle città, dove il passaggio dal Romanico al Gotico è maggiormente evidente: innanzitutto si pose mano a una ricostruzione delle sedi vescovili già nel sec. 12° (Narni, Assisi, Foligno, Spoleto, Todi), ma anche in seguito, come nei casi di Orvieto (v.), con un progetto definitivo risalente alla fine del sec. 13°, Gubbio (v.), nel sec. 14°, e infine Perugia (v.). A tale spostamento verso la città contribuì il carattere 'urbano' degli insediamenti dei nuovi ordini religiosi, che intorno alla metà del sec. 13° divenne inequivocabile anche per i Francescani.
Per quanto riguarda la basilica di S. Francesco ad Assisi (v.) si accenna soltanto alla sua funzione di cerniera nell'architettura regionale. Non imitabile per la sua imponenza, anche per le scelte dell'Ordine, essa divenne però, almeno in parte, modello tipologico per numerosi edifici nella regione; del resto, a fronte del suo carattere eccezionale, la chiesa mostra una pianta (navata unica, ampio transetto, coro innestato direttamente sulla campata d'incrocio) che aveva già trovato impiego nella regione in ambito monastico (Sitria, S. Maria; S. Benedetto al Subasio).Per quanto riguarda i Francescani, vanno menzionati alcuni edifici coperti da volta a botte con andamento grosso modo archiacuto, edificati o restaurati dai Frati Minori (oppure dallo stesso Francesco), come S. Damiano e la Porziuncola ad Assisi, che non si discostano da coevi romitori della regione quali la chiesa dell'Eremita presso Sangemini, S. Maria della Vittoria presso Gubbio, la Spella al Subasio. Si tratta di piccoli edifici dal carattere programmaticamente antiarchitettonico, legati alle origini dell'Ordine, all'epoca dei piccoli insediamenti.Dalla metà del sec. 13°, con il diminuire delle differenze programmatiche tra gli Ordini mendicanti, anche le tipologie finirono in molti casi per essere intercambiabili. Krönig (1971) ne distingueva sostanzialmente cinque: edificio a navata unica voltata a crociera, sul modello della basilica superiore di Assisi (Assisi, S. Chiara; Gualdo Tadino, S. Francesco); edificio a navata unica priva di volte, sul modello del S. Francesco di Cortona (Trevi, S. Francesco; Montefalco, S. Francesco e S. Domenico, che aggiunsero poi una seconda navatella); edificio a navata unica con archi trasversali (chiese francescane di Nocera, Piediluco, Sangemini, nonché numerose altre fondazioni secolari; Gubbio, cattedrale); edificio 'a sala' pseudo-basilicale (Gubbio, S. Francesco); Hallenkirche con volte a crociera (Todi, S. Fortunato; Orvieto, S. Domenico, oggi priva del corpo longitudinale; Perugia, S. Domenico, con volte crollate nel 1614; Perugia, duomo, sec. 15°).Tale fervida attività edilizia interessò non soltanto l'architettura sacra, ma anche quella civile: agli ampliamenti murari e alla costruzione di edifici residenziali, cui si è già accennato, vennero aggiunti, tra Duecento e Trecento, numerosi edifici pubblici. Oltre all'imponente palazzo dei Priori a Perugia (iniziato nel 1293) e al palazzo dei Consoli a Gubbio (iniziato nel 1332), quest'ultimo attribuito, come il palazzo Comunale di Città di Castello, ad Angelo da Orvieto (v.), vanno ricordati il palazzo Comunale di Spello (1270) e quello dei Consoli di Bevagna, tradizionalmente assegnati a un maestro Prode, e il palazzo Comunale di Montefalco (post 1249-ante 1329).Al sec. 13° appartiene la torre civica di Gualdo Tadino, mentre al Trecento il palazzo Comunale di Bettona, edificato secondo moduli toscani; trecenteschi sono anche il palazzo Comunale di Norcia e quello di Trevi, entrambi rimaneggiati nei secoli successivi.
Un carattere del tutto diverso hanno gli edifici civili della fine del 14° secolo. Le rocche albornoziane, che vennero edificate con l'intenzione di sottolineare la riconquista, da parte della Chiesa, del territorio tra U. e Lazio e che ne determinarono una forte militarizzazione, furono costruite o nella parte più elevata della città, come a Spoleto, o di fronte al palazzo Comunale, come a Spello. Vanno menzionate: la fortezza di porta Sole a Perugia, edificata (1372) per ristabilire l'ordine nella città e già distrutta dai Perugini in rivolta nel 1375 (Bacile di Castiglione, 1906); la rocca di Assisi, in costruzione nel 1374; la rocca di Spoleto, iniziata nel 1362, e di cui, insieme agli esempi di Perugia e Assisi, fu soprastante Matteo Gattapone (v.); le rocche di Narni (dal 1366) e Orvieto (dal 1364), della cui costruzione fu invece incaricato Ugolino da Montemarte; la rocca di Foligno, di cui resta soltanto la denominazione Cassero; infine, la rocca di Montefalco.Edificate a spese della popolazione locale (Abate, 1941), tali fortificazioni assorbirono tutte le risorse delle città, bloccandone il successivo sviluppo urbanistico (Guidoni, 1978) e ponendo fine in U. all'età comunale.
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La produzione scultorea umbra tra i secc. 6° e 11°, a parte i rari esemplari di sarcofagi superstiti, consiste essenzialmente nella decorazione architettonica e nell'arredo di edifici di culto, quali recinzioni presbiteriali, paliotti d'altare, amboni e cibori. Questi sono inoltre spesso di difficile identificazione a causa della quasi totale decontestualizzazione generata dalle successive ricostruzioni dei complessi cultuali e dalle alterazioni dell'area presbiteriale, determinate dal cambiamento di rito. I frammenti scultorei si vengono così a trovare reimpiegati oppure, caso assai frequente, utilizzati come materiale da costruzione.Un'altra difficoltà è rappresentata da alcuni complessi scultorei sui quali la critica ha espresso pareri disomogenei e non ancora definitivi, quali i fregi del S. Salvatore di Spoleto e del Tempietto del Clitunno, variamente datati tra i secc. 4°-5° e 7°-8° (Emerick, 1998; Jäggi, 1998), veri e propri unica del patrimonio scultoreo italiano, destinati inoltre a costituire una tradizione locale tra le più radicate. Questi diversi aspetti convergono a delineare un quadro della scultura altomedievale in U. incerto e ancora da indagare compiutamente.La posizione di questo territorio, alla confluenza di correnti artistiche dalle matrici culturali non omogenee, e spesso cronologicamente compresenti, emerge già nei primi esemplari di scultura altomedievale, ascrivibili per tipologia decorativa e per tecnica scultorea agli inizi del sec. 6°: ne sono un esempio alcune lastre decorate dal consueto motivo a squame, di probabile origine romana, e riquadrate da cornici incise (Spoleto, duomo; Raspi Serra, 1961, tav. XXVIII; Narni, S. Giovenale e palazzo Comunale; Bertelli, 1985, tavv. XXXI, XXXIII).
Collegati invece con la presenza di monaci siriaci, il cui arrivo dovrebbe risalire ai secc. 5°-6°, appaiono alcuni lacerti di scultura della prima metà del 6° secolo. In particolare nella chiesa di S. Giuliano presso Spoleto - fondata nel 528 dal monaco siriaco Isacco e giunta nella più recente redazione del tardo sec. 12° (Raspi Serra, 1961, pp. 86-89) - si trovano reimpiegati nel portale romanico resti di architravi decorati su un lato da riquadri con animali singoli o affrontati, un cantaro da cui dipartono tralci vegetali e motivi a squame, e sull'altro lato da un fregio a palmette, dentelli e fuseruole.Apporti paleocristiani sono inoltre evidenti in altri rilievi della regione: in due mense d'altare custodite a Otricoli (S. Maria Assunta) e ad Amelia (palazzo Comunale), e nella lastra di sarcofago del sacello dei Ss. Giovenale e Cassio nel duomo di Narni, che la lunga iscrizione superiore concorre a datare alla seconda metà del sec. 6° (Bertelli, 1985, pp. 156-160). In questi esemplari, dove compare il motivo dell'adorazione della croce degli agnelli di tradizione paleocristiana, sono ancora evidenti una trattazione plastica del rilievo e una campitura spaziale naturalistica.
Allo schiudersi del sec. 7°, con l'affermazione politica e militare del ducato di Spoleto, l'U. si venne a trovare ancora una volta in una posizione di confine tra le maggiori realtà politiche del tempo: il regno longobardo e l'Esarcato. Tuttavia le fonti tacciono circa il primo secolo di dominazione: le vicende del ducato sono note solo a partire dal sec. 8° grazie al Chronicon Farfense del monaco Gregorio da Catino (1060-1132), che, nonostante conferisca una posizione privilegiata alla Sabina, costituisce un monumento di grande valore documentario (Gasparri, 1983). A questo fa eco la quasi totale assenza di documenti scultorei; uniche eccezioni, se si accreditano le relative ipotesi critiche circa la datazione (Raspi Serra, 1961; Bertelli, 1985), sono alcuni frammenti di Amelia (duomo, lastra con croce e lettere apocalittiche; Bertelli, 1985, tav. I) e di Spoleto (duomo, plutei con cervi affrontati al cantaro e con pavone; Raspi Serra, 1961, tav. XXV), dal rilievo estremamente stilizzato, ottenuto mediante semplice abbassamento del piano di fondo.All'apparente vuoto di testimonianze artistiche del secolo precedente fece seguito nel sec. 8° una cospicua produzione, tra le più eterogenee dal punto di vista di apporti culturali e di preesistenze autoctone. Caso tra i più emblematici della plastica altomedievale rimane il complesso decorativo dell'abbazia di S. Pietro in Valle a Ferentillo (v.), fondata da Faroaldo II, realizzato negli anni del ducato di Ilderico (739-742), il cui nome, Hildericus Dagileopa, è inciso nell'iscrizione dedicatoria del pluteo di Ursus magester. Tuttavia, sebbene lo stesso Ilderico fosse stato eletto duca dal re Liutprando, in un clima che sembrerebbe denunciare un più deciso indirizzo politico rivolto verso la corte pavese, gli esemplari di Ferentillo se ne discostano decisamente, rappresentando uno dei rarissimi casi di figura umana che non trova confronti con esempi della Langobardia Maior. La fortissima astrazione e il più totale disinteresse verso qualsiasi realismo della raffigurazione, qui intesa quale immagine-concetto, scartata l'invalsa ipotesi di povertà culturale, permettono di ipotizzare una scelta consapevole della committenza a favore delle maestranze locali, tesa a enfatizzare il legame tra il duca e il territorio a lui affidato (Capo, 1990, pp. 228-230). Alla committenza ducale vengono inoltre ascritti, oltre al pluteo, altri frammenti variamente identificati come pilastrini, capitelli e lastre di recinzione presbiteriale (Raspi Serra, 1961).A un periodo variamente compreso tra la seconda metà del sec. 8° e gli inizi del successivo è da ascrivere una serie di opere di straordinaria qualità, quali il ciborio di S. Prospero a Perugia (v.), ancora intatto, i capitelli a stampella di S. Agata a Spoleto (Ispettorato Archeologico per l'Umbria), il sarcofago di Gubbio (Mus. e Pinacoteca Com.), il pilastro di S. Eufemia a Spoleto, l'altare di S. Martino a Taizzano (Narni, S. Domenico). Tutti questi manufatti presentano una molteplicità di componenti culturali, variamente collegate con opere dell'Italia settentrionale, dell'area ispano-visigota, dell'ambiente merovingio-aquitanico, queste ultime mediate dall'abbazia di Farfa (Betti, 1992), fino a suggestioni tardoantiche e paleocristiane rivisitate secondo il gusto dell'epoca. Questi esemplari, nonostante la dicotomia generata dalla confluenza e dalla coesistenza di matrici classiciste e di tradizioni molteplici, sono dunque testimoni del raggiungimento della maturità del linguaggio scultoreo altomedievale in Umbria.
A una tradizione eminentemente locale fanno invece riferimento due lastre con la raffigurazione della crux florida (Spoleto, S. Gregorio Maggiore; Raiano, chiesa parrocchiale, proveniente da S. Maria di Contra), di chiara ascendenza spoletina, nei limpidi precedenti del S. Salvatore e del Tempietto del Clitunno. Negli esemplari altomedievali è stato riconosciuto lo sviluppo coerente del motivo iconografico, quale emblema della vita eterna e annuncio della salvazione, teso a una continua innovazione del codice linguistico di matrice cristiana, rielaborato mediante l'utilizzo di nuovi elementi salvifici, quali i grappoli d'uva, i melograni e i pavoni. Le variazioni apportate, pur dimostrando la sostanziale fedeltà ai prototipi e il ruolo di 'testo dominante' a questi conferito nell'Alto Medioevo, dimostrano il valore tipologico del modello originario della forma crucis, non riprodotto pedissequamente ma consapevolmente reinventato e arricchito (Casartelli Novelli, 1990; 1996). Collegato iconograficamente a queste opere è anche il sarcofago rinvenuto sotto il pavimento della chiesa di S. Maria Maggiore ad Assisi, che mostra, nella decorazione della fronte, un'ulteriore rielaborazione del motivo secondo un gusto più linearistico (Ciotti, 1966).Il sec. 9° costituisce un evidente approssimarsi della regione alla cultura romana, confermato anche dalle vicende politiche. Esemplari in tal senso, solo per citare i casi più famosi che partecipano del gusto artistico della capitale, sono: a Spoleto il pluteo e i pilastrini murati nella facciata del duomo (Raspi Serra, 1961, tavv. XXIX, XXVI), i frammenti di S. Ponziano (Pani Ermini, 1984-1985), la lastra del Mus. Civ. (Raspi Serra, 1961, tav. XLII); a Terni i frammenti di S. Alò (Raspi Serra, 1961, tavv. LVII, LIX-LX); a Spello il pluteo murato di S. Lorenzo (Raspi Serra, 1961, tav. XXIV); a Montecorona il ciborio proveniente da S. Giuliano alle Pignatte (Salmi, 1966); ad Amelia il ciborio della cattedrale e la lastra del palazzo Comunale (Bertelli, 1985, tavv. II-III, XIV); a Orvieto il ciborio di S. Lorenzo de Arari; presso Massa Martana le lastre ricomposte in ambone nella chiesa dei Ss. Fidenzio e Terenzio (D'Ettorre, 1993, tavv. VIII-IX). Il repertorio carolingio, ottenuto mediante l'uso del nastro bisolcato, di rigoroso modulo geometrico, unito a motivi decorativi cristologici di contenuto salvifico, quali la vite, il lignum crucis, i pavoni e il cantaro, di origine paleocristiana e trascritti secondo una evidente astrazione, denota un atteggiamento programmatico della committenza, di forte connotazione politica, in rapporto con le teorizzazioni iconoclastiche dell'epoca. È stato reso evidente come, durante la prima metà del sec. 9°, l'ispirazione e la continuità della scultura di questo tipo sembrino generare dall'ambiente romano, dove poteva aver luogo la rivisitazione degli archetipi del patrimonio figurativo paleocristiano (Melucco Vaccaro, 1999). A questa rinnovata produzione di suppellettile fece seguito una standardizzazione di repertorio e di esecuzione, mediante un forte rigore lineare tradotto su pietra a Kerbschnitt, tecnica che consentiva un nitido intaglio diagonale sul liscio piano di fondo. Sempre alla corrente astrattizzante sembrano infine far riferimento anche alcuni frammenti dell'abbazia di S. Pietro in Valle a Ferentillo (Raspi Serra, 1961, tavv. XIII-XVII), da identificarsi con una successiva campagna decorativa dell'edificio di culto, che presentano compiutamente quasi tutto il repertorio di nastri intrecciati.Testimone, ancora una volta, del pluralismo culturale della scultura altomedievale in U. è un frammento, forse parte di un pilastrino, della chiesa di S. Maria Assunta a Otricoli, datato alla prima metà del sec. 9° (Bertelli, 1985, pp. 244-245, tav. LXX). Decorato da due cerchi di nastri viminei bisolcati, includenti le rare iconografie dell'elefante e del leone alati, il manufatto sembra partecipe di una diversa cultura, in relazione con l'arte sasanide, giunta nell'Italia centrale attraverso l'importazione di stoffe (Pietrangeli, 1978, p. 288).Il sec. 10° si mostra scarso di episodi scultorei. I pochi esemplari identificabili - peraltro generalmente datati tra lo scorcio del secolo e gli inizi del successivo, quali la lastra di S. Illuminata presso Massa Martana (già datata al sec. 9°; D'Ettorre, 1993, tav. XLVII) e le formelle scolpite murate nella parete di fondo dell'area presbiteriale della chiesa abbaziale dei Ss. Fidenzio e Terenzio presso Marta Martana (D'Ettorre, 1993) - gravitano culturalmente ancora nell'ambito delle esperienze del sec. 9°, nella riproposizione di intrecci di nastri bisolcati, sequenze di arcatelle, animali e rosette. Ma è la nuova ricomparsa della figura umana, in forma semplificata e astratta, a permettere il riferimento delle opere a un ambito culturale già protoromanico. In questa fase cronologica sembrerebbe anche rientrare l'emblematica lunetta della facciata di S. Damiano a Carsulae, che ai lati di una croce greca presenta animali resi a graffito e personaggi a rilievo di difficile lettura, ipoteticamente identificati come i Ss. Cosma e Damiano (Ciotti, 1966).
La scultura umbra del sec. 11° è essenzialmente costituita da capitelli, sia del tipo cubico scantonato, talvolta solcato da graffiti (Spoleto, S. Gregorio Maggiore, cripta; Spoleto, S. Ansano, cripta dei Ss. Isacco e Marziale; S. Sabino presso Spoleto; Giano dell'Umbria, abbaziale di S. Felice; S. Maria in Pantano presso Massa Martana) - le cui forme sommarie, in alcuni casi arricchite da figure umane e animali, sono state definite un sintomo dello sperimentalismo del secolo (Peroni, 1983, p. 687, n. 8) -, sia del tipo corinzio a foglie lisce, elaborato in forme stilizzate e spesso decorato da coppie di caulicoli negli interstizi tra le foglie (Spoleto, S. Agata, nartece; Sangemini, S. Niccolò; Taizzano, S. Martino; Sant'Angelo in Massa, S. Angelo; Visciano, S. Pudenziana).All'ultimo decennio del secolo è infine da ascrivere la lastra murata nella facciata della chiesa di S. Stefano a Collescipoli, la cui edificazione risale al 1093, raffigurante la Crocifissione con ai lati la Vergine e i ss. Giovanni, Stefano e Giovenale e, in alto, due angeli; quest'ultima, nonostante un moderato plasticismo, sembra ancora legata, sotto il profilo spaziale e iconografico, alla produzione ottoniana, della quale costituirebbe una tarda imitazione (Bertelli, 1985, p. 152).
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Una ricognizione della scultura romanica in U. può prendere le mosse dalle sintetiche e tuttavia lucide note di Toesca (1927), che vedeva nella regione il convergere di più apporti: dalle influenze lombarde, all'incontro con i marmorari romani, alla ripresa di un gusto locale, a volte rude, altre più sottile, modellato sui celebri e assai influenti esempi tardoantichi e paleocristiani, come quelli del S. Salvatore di Spoleto e del Tempietto del Clitunno. Su questa trama, verificabile grazie anche alla capillare inventariazione dell'arte umbra (e della Sabina) condotta da Tarchi (1937-1940), si sono successivamente intrecciati nuovi contributi storico-critici tesi a precisare o ad ampliare singoli aspetti.In merito alle componenti lombarde, è stato sottolineato (de Francovich, 1937) come la tradizione locale longobarda avesse costituito un favorevole presupposto per l'accoglienza delle forme decorative comasco-pavesi, avvertibili già nei rilievi con le figure dei Ss. Pietro e Paolo murate negli stipiti della porta laterale dell'abbaziale di Ferentillo (fine sec. 11°), ma ancor più in risalto nel portale della chiesa di S. Costanzo a Perugia, fuori l'omonima porta urbica (prima metà sec. 12°), o nella lunetta della pieve di Castel Ritaldi presso Spoleto (1141), dove il fregio, affollato da una esuberante decorazione a motivi vegetali e zoomorfi, mostra un intaglio di tipo ancora bidimensionale, segnato in superficie da semplici solchi e da fori di trapano, o nell'impaginazione 'stipata' dei portali del duomo di Assisi (sec. 12°), dove il fitto ornato alterna motivi classicheggianti alle più fantastiche invenzioni tratte dai bestiari. È presente nella regione, in anni poco più inoltrati, anche una componente settentrionale di diversa impronta, già antelamica, testimoniata dall'importante, ma sostanzialmente isolato, architrave con scene del Martirio di s. Biagio, forse della fine del sec. 12° (Spoleto, Mus. Civ.; Quando Spoleto era romanica, 1984).D'altro canto risulta utile a distinguere la varietà dell'operato delle botteghe attive nel territorio, al di fuori o a lato della tendenza più spiccatamente classicista, anche l'individuazione di un'apertura verso l'area reatino-abruzzese, come rivelano i confronti fra opere abruzzesi della fine del sec. 12°, come l'ambone di S. Maria a Bominaco o il portale della cattedrale valvense di S. Pelino presso Corfinio, e una serie di rilievi prodotti nell'area di confine fra U. e Sabina, come il portale del duomo di Terni, quello mediano del duomo di Rieti, le parti romaniche di quello della chiesa di S. Vittoria a Monteleone Sabino (prov. Rieti), databili entro gli anni 1156-1171, o il portale di S. Nicolò a Stroncone presso Terni, del 1171 (Gatti, 1966).
Il recupero dell'Antico è il carattere che meglio qualifica la scultura romanica dell'area spoletina. Essa manifesta una vera e propria tendenza di scuola che ha nel portale della cattedrale di Spoleto (consacrata nel 1198, ma completata all'inizio del sec. 13°) il punto più alto di un irraggiamento che interessa, in forme diverse, tutti i principali centri della valle compresa fra Perugia e Spoleto, e da essa sia in direzione del Ternano, come mostrano i portali della chiesa di S. Maria in Pensole a Narni (1175), sia in direzione della Tuscia meridionale. Il portale spoletino evidenzia una tale affinità con il modello del S. Salvatore da essere stato spesso inteso come a esso coevo, nonostante la più accentuata geometria della composizione e il rilievo quasi metallico. Il ricco fregio 'abitato' è ripreso nelle transenne (oggi frammentarie) della chiesa di S. Maria Assunta a Lugnano in Teverina, punto intermedio della penetrazione della bottega spoletina verso il Lazio, dove questi modi si rintracciano nella decorazione della facciata di S. Pietro a Tuscania (inizi sec. 13°) e, di qui, commisti con l'attività della bottega cosmatesca di Jacopo di Lorenzo (v.), fino a Civita Castellana (Noehles, 1961-1962).Quello dei rapporti tra marmorari umbri e marmorari romani (v. Cosmati) è, d'altronde, uno dei caratteri distintivi dell'arte romanica nell'area meridionale della regione. È noto, infatti, che i marmi del chiostro dell'abbazia di Sassovivo (presso Foligno) furono trasportati da Roma per via fluviale fino a Orte, per poi raggiungere via terra Sassovivo. Essi vennero lavorati dallo scultore "Petro de Maria / romano opere et mastria", come attesta l'iscrizione recante la data 1229 (che probabilmente si riferisce all'inizio dell'impresa), montati e rifiniti sul luogo.La tendenza classicista del Romanico della regione trova espressione tra le più complete nell'invenzione di un modello propriamente umbro di facciata, all'interno del quale il rapporto tra architettura e scultura si sviluppa in modo originale e con declinazioni anche assai varie dal sec. 12° fino a tutta la prima metà del Duecento. Se ne possono indicare gli esempi più semplici nelle chiese di S. Lorenzo a Spoleto e di S. Giuliano, presso la stessa città, e in quella di S. Claudio a Spello, nei quali l'operato dei lapicidi si limitò alla definizione di capitelli e cornici o anche di rosoni. Più numerosi e significativi i casi in cui il piano decorativo si estende a larghi settori dei prospetti, inserendosi nella qualificazione di portali figurati, o nell'arricchimento di cornici e mensole che li spartiscono orizzontalmente, come nelle cattedrali di Foligno (facciata del transetto), Assisi e Spoleto, e nelle chiese di S. Silvestro a Bevagna, S. Felice di Narco e S. Ponziano e S. Pietro a Spoleto. La maggior parte di queste facciate presenta inoltre il motivo figurato dei simboli degli evangelisti disposti negli angoli degli spazi quadrati che circoscrivono i rosoni, non di rado arricchiti da fregi aggiuntivi alla base di essi. La partizione in tre ordini orizzontali, tramite cornici marcapiano, associata alla scansione verticale delle lesene, dà inizio a una nuova disposizione, presente nella cattedrale di Assisi e nelle due citate chiese spoletine, la cattedrale e S. Pietro. In quest'ultimo edificio sottili ulteriori ripartizioni generano specchiature lisce, secondo uno schema arricchito, nel settore centrale, da formelle ad altorilievo che sviluppano due cicli principali: uno relativo al santo eponimo, l'altro ispirato alla favolistica dei bestiari, ai lati del portale maggiore. Qui riprende vigore il motivo decorativo principale della cattedrale spoletina (il tralcio disposto secondo il modello del S. Salvatore), affiancato da altre immagini di matrice paleocristiana, come cervi e pavoni, alternati ad archeggiature dall'elegante valore decorativo. Lo stile composito di questi rilievi deve essere stato generato da una bottega attiva anche nel portale di S. Maria in Pensole a Narni, i cui riflessi si riscontrano inoltre nei rilievi del palazzo del Podestà (od. palazzo Comunale) della stessa città (Esch, 1981).Diversa la bottega che, grazie all'iniziativa del vescovo Anselmo degli Atti, elaborò nel 1201 la facciata del transetto del duomo di Foligno, riconosciuta ipoteticamente in quella dei maestri Binello e Rodolfo, i cui nomi compaiono nelle iscrizioni dei portali di facciata delle chiese di S. Silvestro (1195) e di S. Michele Arcangelo a Bevagna, firmate rispettivamente dal solo Binello e da entrambi gli artisti. Il disegno dell'insieme, condotto in più tempi modificando il progetto originario, ripropone il tipo di facciata umbra più semplice, privo delle ripartizioni rettangolari, però caratterizzato, come il S. Rufino di Assisi, dall'alternanza coloristica di materiali diversi e dalla ricca concentrazione di ornati nel portale e nella cornice marcapiano (Foligno A.D. 1201, 1993).La scultura gotica giunge in U. tramite innesti diretti della più aggiornata cultura metropolitana, espressa nell'ultimo quarto del Duecento a Roma e nelle più vive città della Toscana. Gli interventi maggiori sono sia quelli di Arnolfo di Cambio (v.) per la fontana 'minore' a Perugia - documentati dal 1277 al 1281, di cui si conservano parti della decorazione figurata (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) - e per il monumento del cardinale Guglielmo De Braye (m. nel 1282) nella chiesa di S. Domenico a Orvieto, sia quello di Nicola Pisano (v.) e Giovanni Pisano (v.) per la fontana Maggiore di Perugia (1277-1278), sia quello, nel primo Trecento, del senese Lorenzo Maitani nel duomo di Orvieto. Queste opere, precoci ed estremamente qualificate, ebbero l'indiscusso ruolo di introdurre tecniche di esecuzione, soluzioni formali e tipologie costruttive e decorative radicalmente nuove, in grado di alimentare una serie di iniziative, i cui riflessi si colgono in un ampio raggio di altri interventi, non solo nelle stesse città di Perugia (v.) e Orvieto (v.), ma anche in altri centri, specialmente ad Assisi (v.) e a Todi (v.).
Molto controverso risulta il rapporto degli artisti venuti da fuori con maestri e maestranze locali, al punto da costituire un campo ancora aperto, difficilmente ancorabile a conclusioni incontrovertibili. Ciò che è in questione riguarda, in sostanza, l'autonomia di una scultura gotica umbra rispetto a quella prodotta dagli artisti toscani. La divaricazione critica ha visto opposti schieramenti su quasi tutte le principali opere, dai bronzi perugini dell'ultimo quarto del Duecento, alla relazione architettura-scultura nella fontana Maggiore di Perugia, ai riflessi dei monumenti arnolfiani nella scultura funeraria ad Assisi e a Perugia, culminando nelle controversie attributive e cronologiche relative alla facciata del duomo di Orvieto e alle figure di fra Bevignate, di Ramo di Paganello e di quella emergente del Maestro Sottile, identificata da Toesca (1951), con vasto ma non incontrastato consenso, con il senese Lorenzo Maitani.Un caso assai discusso è rappresentato dai gruppi bronzei di Perugia: le due imponenti statue del grifo e del leone (Perugia, palazzo dei Priori, sala del Consiglio comunale), forse le stesse che figuravano sulla smembrata fontana di Arnolfo, poi sul prospetto nord del palazzo dei Priori, realizzate intorno al 1274 da un ignoto artista (Cuccini, 1994); i quattro leongrifi (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), già sulla sommità della fontana Maggiore (rimossi in occasione della seconda guerra mondiale e definitivamente musealizzati a seguito dei restauri del 1948-1949), che manifestano comunque notevoli affinità formali con l'arte di Giovanni Pisano negli anni della realizzazione della stessa fontana; la tazza a coronamento di essa, firmata nel 1277 da un Rubeus fonditore, il cui nome si ritrova anche sull'architrave della porta di Postierla, sul lato meridionale del duomo di Orvieto, degli ultimi anni del Duecento.
Complessa è anche la questione della datazione e definizione dell'ambito culturale di alcune importanti opere decorative e monumenti funebri ad Assisi e a Perugia. Nel santuario francescano di Assisi erano attive maestranze di provenienza romana, come quella responsabile, intorno alla metà del Duecento, dell'altare maggiore della basilica superiore; invece, lo smembrato jubé della basilica inferiore, di quegli stessi anni, è stato riferito a una bottega umbra, così come, in una fase più inoltrata del sec. 13°, le sculture decorative del rosone e del portale di accesso della basilica inferiore. Un altro cantiere nel quale si può registrare una reazione locale alle forme di importazione sembra essere stato quello attivo nella cattedrale di Todi, edificio nel quale la penetrazione di maturi modi gotici è assai precoce, come illustra la serie di capitelli dei pilastri e delle colonne delle navate, eretti dopo la metà del Duecento (Prandi, Righetti, 1975). A queste stesse maestranze, forse responsabili della realizzazione delle cappelle che, dall'inizio del Trecento, si aprivano nella basilica inferiore di Assisi, è stata assegnata anche la lavorazione del monumento Cerchi, nell'atrio di essa, databile entro il 1305 (Hueck, 1990).È ancora Arnolfo di Cambio a suggerire le più significative soluzioni nella scultura funeraria: al modello del sacello funebre 'ad altare' di Bonifacio VIII (Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte) è ispirato, ma solo sul piano tipologico, il monumento di Gian Gaetano Orsini, dei primissimi anni del Trecento, nella cappella di S. Nicola, sempre nella basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi; qui il cenotafio di Giovanni di Brienne, realizzato probabilmente fra il 1339 e il 1347 e stilisticamente affine al pulpito della basilica superiore, iniziato poco prima di quest'ultima data (Wiener, 1996), riprende, a distanza di tempo, la struttura del prototipo De Braye, cui si ispira anche il monumento del papa Benedetto XI (m. nel 1304) nella chiesa di S. Domenico a Perugia, di controversa datazione (ca. 1305-1310 per Middeldorf-Kosegarten, 1996; 1315 ca. per Gardner, 1992). Lo stile delle figure che animano quest'ultimo è stato interpretato sia come diretta emanazione dalla facciata del duomo di Orvieto sia come prima affermazione autonoma di una scuola perugina, di cui sarebbe inoltre espressione la bottega attiva alla decorazione del portale e della lunetta del palazzo dei Priori (statue raffiguranti i Ss. Lorenzo, Ercolano e Ludovico da Tolosa).Estremamente controversa risulta la già citata figura di fra Bevignate, architetto documentato in relazione a diverse importanti fabbriche della regione, fra le quali la fontana Maggiore di Perugia e il duomo di Orvieto. Ritenuto da Cellini (1958; 1967) responsabile del primo progetto, monocuspidato (Orvieto, Arch. dell'Opera del Duomo, inv. nr. Q 2), della facciata di esso, avrebbe curato anche la decorazione scultorea dei due contrafforti centrali: una tesi 'panumbra' contestata da chi riconosce invece a Orvieto il dominio incontrastato di maestri senesi, autori sia del primo progetto, riferito perciò a Ramo di Paganello o a Lorenzo Maitani, sia del secondo, tricuspidato (Orvieto, Arch. dell'Opera del Duomo, inv. nr. Q 3), attribuito per lo più a Maitani stesso.Attorno al ruolo del Maestro Sottile, il più raffinato artista della fabbrica orvietana, ruota gran parte della vicenda critica della scultura gotica umbra: identificato, da un lato, con Lorenzo Maitani e considerato caposcuola senese da cui deriverebbe un seguito tutto senese (Carli, 1947; 1965; 1980; 1995; Middeldorf-Kosegarten, 1996), l'artista è stato viceversa inteso da Previtali (1965; 1970; 1982) come una personalità divergente dalla cultura egemone della città toscana. Nel disegnare una 'storia e geografia' della scultura umbra non solo sulla base della pertinenza anagrafica dei singoli autori, ma anche su quella dello specifico rapporto tra centri e botteghe, questo studioso fa emergere una distinzione per linee di tendenza e aree di influenza che vede, a ridosso o accanto al momento di più diretta irradiazione toscana o romana, un'autonoma rielaborazione di quegli stessi motivi o temi. Una tendenza sembrerebbe far capo al Maestro della S. Caterina Gualino, che prende nome da una S. Caterina lignea conservata nella Coll. Gualino di Roma. Le opere di questo maestro darebbero consistenza all'ipotesi di una corrente di scultura umbra in stretto legame con l'area adriatica, picena e teramana, come proverebbero le affinità fra la Madonna con il Bambino del duomo di Teramo e il gruppo ligneo policromo con lo stesso tema nella chiesa di S. Giovenale a Logna (presso Cascia), che gli sono stati attribuite (Previtali, 1965). A lui affine è l'autore della Madonna con il Bambino nella cattedrale di Spoleto (navata sinistra, coro d'inverno), venata di un intenso francesismo, la diffusione del quale trova giustificazione nella presenza in U. di altri gruppi scultorei dello stesso soggetto, francesi o francesizzanti, come la statuetta eburnea di Assisi (Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco), le due statue lignee di Orvieto (Mus. dell'Opera del Duomo) o la marmorea Madonna in trono con il Bambino nella cattedrale di Todi.Un'altra tendenza si sarebbe sviluppata alla destra del Tevere, a Orvieto e a Perugia, dove si evidenzierebbero gli esiti del Terzo Maestro di Orvieto, di ascendenza nicolesca, ma non privi di originalità, in una serie di opere sia orvietane, come le statue lignee dell'Angelo annunciante e della Madonna Annunciata (Orvieto, Mus. dell'Opera del Duomo) o, nello stesso museo, il gruppo marmoreo di una Madonna con il Bambino, sia perugine, come la già citata tomba di Benedetto XI o il portale maggiore del palazzo dei Priori. A questo insieme si avvicina la splendida statua lignea policroma della Madonna con il Bambino conservata a Perugia (Gall. Naz. dell'Umbria), attribuita al Maestro della Madonna di S. Agostino, dal nome della chiesa perugina di provenienza. Alla sinistra del Tevere, in un'area più appartata, compresa tra Assisi, Foligno e Spoleto, una tradizione 'espressionista', comune anche alla contemporanea pittura, caratterizzerebbe alcune opere, oggi quasi tutte in collezioni private, fra le quali si segnala un crocifisso ligneo policromo, con le braccia mobili, ancora in situ nella chiesa di S. Pietro a Bovara (presso Trevi), databile intorno al 1330 (Previtali, 1984).Il cantiere orvietano continuò a promuovere, per tutto il corso del Trecento, altre imprese decorative. Si ricordano: i notevoli gruppi scultorei a tutto tondo della facciata, in parte eseguiti quando Lorenzo Maitani era capomaestro (1325, 1329), in parte in una fase successiva da Matteo d'Ugolino da Bologna (1352-1353); gli stalli lignei del coro, del senese Nicola di Nuto (1339); gli interventi al tempo nel quale Andrea Pisano (v.) e il figlio Nino Pisano (v.) furono capomaestri (il primo dal 1347 al 1348, il secondo dal 1349); la presenza (dal 1364 fin oltre il 1390) di tre scultori senesi in qualità di capomaestri (Paolo d'Antonio, Giovanni di Stefano, Luca di Giovanni), responsabili di alcune statue di profeti e delle cinquantadue teste virili entro quadrilobi intorno al rosone, alla cui decorazione musiva, nel 1359, era stato attivo Andrea di Cione (v.). È possibile, alla luce di una recente revisione dei dati relativi a questo settore della facciata, che si debba infine riconoscere ad Andrea Pisano un ruolo cospicuo nella lavorazione del rosone, al cui centro la testa del Redentore ne rappresenterebbe una sigla (Bartalini, 1988-1989).
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Le sbiadite immagini del Salvatore, dei Ss. Pietro e Paolo e di due angeli nel Tempietto del Clitunno (Spoleto), forse databili agli inizi del sec. 8°, la croce gemmata nell'abside del S. Salvatore a Spoleto, pressappoco coeva, i lacerti di affresco nella cripta di S. Primiano nel duomo di Spoleto, di età carolingia, il mosaico con il Redentore nella fronte del sacello dei Ss. Giovenale e Cassio nel duomo di Narni, forse della metà del sec. 9°, aprono appena uno spiraglio sulla più antica fase della pittura altomedievale nell'Umbria storica. Per quanto riguarda la parte settentrionale della regione, si è supposta, per la presenza di due codici miniati dei secc. 7° e 9° a Perugia (Bibl. Capitolare, 2; 32), l'esistenza di uno scriptorium in città o negli immediati dintorni.Tracce più frequenti possono essere rinvenute dopo il Mille: gli affreschi, di modesta qualità, con i simboli degli evangelisti nella cripta di S. Rufino ad Assisi (prima metà sec. 11°), e poi a Spoleto e nei territori del ducato, dove le testimonianze si susseguono, a partire dal capoluogo, con gli affreschi della cripta dei Ss. Isacco e Marziale nel S. Ansano (seconda metà sec. 11°), quelli dell'abside e della controfacciata nel S. Gregorio Maggiore (metà sec. 12°) e i cicli, un poco più tardi, con la Genesi e i profeti nel S. Paolo inter vineas. Forse già agli inizi del Duecento va collocato uno dei maggiori monumenti della pittura romanica italiana, gli affreschi con scene dell'Antico e del Nuovo Testamento nel S. Pietro in Valle presso Ferentillo, dove si riconoscono legami di fondo con l'ambiente romano. E tuttavia si coglie in tali opere un'accentazione diversa, una maggiore propensione verso un'espressività più immediata e diretta. Altrettanto, e forse più originale, appare la pittura su tavola, come i 'crocifissi azzurri' (Norcia, Mus. La Castellina; Spoleto, Pinacoteca Com.; Vallo di Nera, S. Maria) e una testata di croce con la Vergine dolente (Baltimora, Walters Art Gall.), testimonianze di un gusto grafico tendente al linearismo e di una gamma cromatica basata su tonalità insolitamente chiare e fredde. Sono state giustamente indicate corrispondenze con la coeva produzione miniatoria sviluppatasi tra i secc. 11° e 12° in una serie di codici scritti e decorati nell'abbazia di S. Eutizio, nella valle Castoriana, in altre chiese e abbazie della zona e probabilmente nella stessa Spoleto (Lunghi, 1984).Sembra invece opera di maestranze esterne il mosaico con la Déesis sulla facciata del duomo di Spoleto, datato 1207 e firmato da un Solsternus in arte modernus, in realtà rappresentante di una cultura figurativa ufficiale, accademica, di chiara impronta bizantina. Appare diverso il bizantinismo di uno dei più importanti monumenti di età romanica su tavola, il crocifisso, forse firmato da un Alberto (v.) e datato 1187, in origine nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo (Spoleto, duomo), dove sono stati attribuiti allo stesso autore due affreschi, il Martirio dei santi titolari (Spoleto, Pinacoteca Com.) e l'Assassinio di s. Tommaso Becket, ancora in loco, probabilmente più tardo. Per quanto insistentemente collegata con una cultura figurativa tardocomnena, testimoniata soprattutto dai mosaici di Monreale, l'arte di Alberto ha tratti suoi originali; si può dire che con essa trovi conferma l'esistenza di una cifra artistica proprio spoletina, caratterizzata da un calligrafismo espressivo, icastico, dai colori vivi, delicati.Sono tratti che si trovano diffusi in tanti dipinti su tavola e a fresco, situabili tra la fine del sec. 12° e la fine del 13°, ma con conseguenze anche sulla pittura trecentesca. È nota una serie di crocifissi, dai più antichi (Assisi, S. Chiara; Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco; Spello, S. Maria di Vallegloria), alla croce di Petrus in S. Andrea a Campi Vecchio, forse del 1212, a quelle di Spoleto (Pinacoteca Com., nr. 13) e di Londra (Vict. and Alb. Mus.), fino alla croce firmata da Simone e Machilone e datata 1257 (Roma, Gall. Naz. d'Arte Antica, Palazzo Barberini). Ancora più tarde le due croci firmate da un altro spoletino, Rainaldictus, l'una conservata a Fabriano (Pinacoteca Civ. e Mus. degli Arazzi), l'altra a Bologna (Pinacoteca Naz.), quest'ultima datata 1265, con caratteri fortemente giunteschi. Simone e Machilone spoletenses firmarono anche il dossale di Anversa (Mus. Mayer van den Bergh), la cui parte centrale, la Madonna Platytéra, venne replicata in una tavola conservata a Orvieto (Mus. dell'Opera del Duomo). Altri dossali, sempre d'area spoletina, della seconda metà del secolo, sono quello proveniente dall'abbazia di S. Felice di Giano (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) e quello da Manciano presso Trevi (Spoleto, Mus. Diocesano).
Quanto agli affreschi, vari sono i reperti, tanto nel capoluogo quanto nella valle spoletana, a Terni, a Narni, come il dipinto con Cristo benedicente tra i ss. Pietro e Paolo nella cappella dell'Assunta in S. Maria Infraportas a Foligno, con la rappresentazione di un prezioso drappo di manifattura arabo-normanna: si tratta di un lavoro prossimo all'arte di Alberto e databile ai primi anni del 13° secolo. Assai meno numerose sono le testimonianze che si rinvengono sull'altra direttrice, la quale, seguendo il percorso della via Amerina, attraversa tutta la regione e ricalca, a un dipresso, il tracciato dell'antico corridoio bizantino. Qui l'influenza romana è anche più evidente, come suggeriscono le bibbie atlantiche di S. Valentino al Piano presso Amelia (Parma, Bibl. Palatina, 386), ancora dei primi del sec. 12°, del duomo di Todi (Roma, BAV, Vat. lat. 10405), un poco più tarda, e di Perugia (Bibl. Augusta, L.59), pure databile al secondo quarto del sec. 12°, opera di alta qualità, e secondo alcuni eseguita in uno scriptorium della capitale.Perdute ormai le decorazioni, certo una volta esistenti, nelle maggiori chiese perugine, restano invece in minori edifici della città e degli immediati dintorni consistenti tracce di una corrente pittorica alquanto ritardataria, dai tratti rapidi, corsivi, piuttosto popolaresca, attiva tra la fine del sec. 12° fin verso il terzo quarto del Duecento. A essa appartengono, oltre a una testata di croce con S. Giovanni Evangelista (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), i resti di pitture murali in S. Apollinare, a S della città, gli affreschi di Bonamico (1225) a S. Prospero, i resti di una decorazione (1233 ca.) nella ex chiesa di S. Giovanni del Fosso (oggi in parte abitazione privata), i due affreschi nella parrocchiale di Pieve Pagliaccia e i più antichi cicli di S. Bevignate (1262 ca.; Scarpellini, 1987; 1997).La grande svolta nella pittura umbra si ebbe quando Assisi divenne un centro internazionale d'arte, prima con la costruzione, poi con la decorazione della basilica di S. Francesco. Nel 1236 Giunta Pisano eseguì, forse per la basilica inferiore, un crocifisso d'altare con l'immagine di frate Elia, opera andata perduta. Lo stesso artista dipinse per la Porziuncola una croce più piccola, firmata (Assisi, Mus. della Basilica Patriarcale S. Maria degli Angeli). Dopo la consacrazione del S. Francesco da parte di Innocenzo IV il 25 maggio 1253, e soprattutto dopo la bolla Decet et expedit del 10 luglio dello stesso anno, si iniziò a decorare con vetrate di soggetto tipologico le tre bifore dell'abside della basilica superiore, per cui vennero impiegati maestri vetrai venuti dal Nord, secondo Wentzel (1952) dalla zona Erfurt-Merseburg, secondo Martin e Ruf (1998) da due luoghi distinti, dall'area medio renana tra Magonza e Colonia e da Salisburgo.Verso il 1260 venne decorata la basilica inferiore con motivi ornamentali nelle volte e con scene della Vita di Cristo e della Vita di s. Francesco nelle pareti della navata. A capo di questa bottega, che operò per più di un ventennio in Assisi e a Perugia, è stata riconosciuta, fin dai tempi di Thode (1885), una personalità indicata con il nome convenzionale di Maestro di S. Francesco (v.). Si tratta di una figura assai complessa, variamente interpretata dalla critica, per alcuni un umbro seguace di Giunta Pisano, per altri un seguace dei maestri vetrai nordici accasatosi ad Assisi (Marchini, 1973), per altri ancora (Martin, Ruf, 1998) un artista proveniente dall'area pisana. La sua conoscenza dell'arte della provincia bizantina e contemporaneamente del mondo gotico, la sua multiforme attività, che si esplica tanto nell'affresco quanto nelle pitture su tavola e nelle vetrate (si deve a lui il completamento delle finestrature istoriate nella basilica superiore), lo caratterizzano come uno dei grandi rinnovatori del linguaggio, specie per la parte settentrionale della regione, ma poi la sua influenza si avverte anche nelle vicine Marche e nella stessa Emilia. Il crocifisso per la chiesa perugina di S. Francesco al Prato, datato 1272 (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), il coevo paliotto a due facce per la stessa chiesa, di cui restano solo alcuni scomparti (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria; Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco; New York, Metropolitan Mus. of Art, Robert Lehman Coll.; Washington, Nat. Gall. of Art, Kress Coll.), segnano il definitivo limite cronologico dell'attardata tradizione romanica locale.Operarono in parallelo al Maestro di S. Francesco sia il pittore del crocifisso d'altare per la badessa Benedetta (Assisi, S. Chiara), databile intorno al 1260, al quale vengono spesso assegnate le due icone, nella stessa chiesa, con la Vergine con il Bambino e con S. Chiara tra scene della sua vita (1283), sia l'autore del crocifisso per la chiesa di S. Francesco a Gualdo Tadino (Pinacoteca Com.), sia il Maestro dei Crocifissi blu, delicato pittore di gusto sottilmente ellenizzante.Giungevano intanto da ogni parte al S. Francesco di Assisi, oreficerie, tessuti, avori, vetri e codici miniati, come il Messale di S. Ludovico (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco) per il servizio liturgico dell'altare maggiore della basilica inferiore, eseguito insieme ad altri libri nell'ambiente parigino tra il 1255 e il 1256 (Branner, 1977), probabile dono di s. Luigi IX re di Francia. In un momento imprecisato, ma comunque tra settimo e ottavo decennio del secolo, lavorò nella basilica superiore la c.d. bottega gotica, costituita da maestri vetrai francesi che eseguirono la grande quadrifora del transetto meridionale e due bifore della parete destra della navata più prossime al transetto. In sintonia con loro, e probabilmente nello stesso momento, un altro artista gotico, il Maestro Oltremontano, forse inglese, iniziò a dipingere il transetto destro eseguendo la decorazione delle volte, i lunettoni e, più in basso, la teoria degli apostoli nella loggetta occidentale, prima di interrompere bruscamente il lavoro poi continuato da artisti romani.Le relazioni con l'Oriente non avvennero solo per mezzo dei Francescani e degli altri Ordini mendicanti. I rapporti con la Terra Santa si svilupparono anche per altri tramiti, tra cui certamente gli ordini militari. Un capolavoro come il grande tabernacolo a sportelli (1275-1280), detto comunemente trittico Marzolini (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), è opera di un pittore che conosceva bene l'ambiente artistico palestinese, gli ateliers crociati di Acri, e che proveniva con ogni probabilità dalla chiesa templare di S. Bevignate a Perugia. In S. Bevignate un altro artista di 'lingua franca', per usare la felice espressione di Belting (1982), eseguì verso il 1280, ad affresco, le immagini dei dodici apostoli tutt'intorno alla chiesa. Motivi provenienti da tali innesti non tardarono a riflettersi sulla pittura e miniatura umbre contemporanee. Riferimenti al Maestro del Trittico Marzolini si riscontrano, per es., nei pittori perugini che operarono sia nella chiesa di S. Matteo degli Armeni a Perugia, consacrata nel 1273, dove pure, nel gruppo di apostoli, vi è un richiamo al Maestro Oltremontano (Todini, 1986), sia, un po' più tardi, negli affreschi della chiesa e dell'aula capitolare del monastero di S. Giuliana, sempre a Perugia, in cui appaiono anche forti influenze romane, sia infine in una Madonna con il Bambino nella chiesa di S. Maria di Ancaelle presso il lago Trasimeno, dove sono anche affreschi rovinatissimi, riconducibili alla stessa linea di tendenza.Sempre ai sopraddetti maggiori artisti, il Maestro di S. Francesco, l'autore delle pitture in S. Chiara e il Maestro del Trittico Marzolini, fanno riferimento numerosi pittori e miniatori umbri di quegli anni, tra i quali: i miniatori di alcuni codici, uno dei quali datato 1273 (Assisi, Mus. e Arch. Capitolare, 8); il più antico miniatore dei corali di S. Domenico a Perugia (Bibl. Augusta, 2790; 2792); la prima fase del Maestro del Messale di Deruta (Pinacoteca), la cui opera si ravvisa anche in un codice di Perugia (Bibl. Capitolare, 15); gli autori delle miniature dei corali di Gubbio (Arch. di Stato, Fondo S. Pietro A/2; C/2; E/2; F/2; H/2), e dei capolettera staccati (Città di Castello, Pinacoteca Com.); il Maestro di Montelabate, autore degli affreschi nella sala del Capitolo nell'abbazia di S. Maria di Valdiponte (1285 ca.); l'autore del Compianto di Cristo nella chiesa di S. Maria a Valfabbrica; il pittore dell'abside centrale della chiesa di S. Francesco a Gubbio. Da notare che in alcuni di questi autori si comincia ad avvertire l'ascendente di Cimabue in una fase anteriore a quella dell'attività assisiate.Il grande maestro fiorentino subentrò nei lavori di affrescatura dell'abside e del transetto della basilica superiore dopo che il Maestro Oltremontano aveva abbandonato il lavoro. Sull'attribuzione ormai tutti i critici sono d'accordo, non così per quanto riguarda la datazione. Per la maggioranza, tuttavia, l'impresa va ricondotta ai tempi del pontificato di Niccolò III (1277-1280), a cui sembra far riferimento lo stemma di famiglia che è dipinto nella veduta di Roma rappresentata nella vela sopra l'altare maggiore con S. Marco Evangelista (purtroppo un'altra vela con S. Matteo è andata praticamente perduta in seguito al devastante terremoto del settembre 1997). Altri studiosi, come Brandi (1951) e recentemente Bellosi (1998), hanno invece sostenuto che il lavoro venne eseguito ai tempi di Niccolò IV (1288-1292), primo papa francescano, che nei quattro anni del suo pontificato promulgò ben otto bolle in favore della basilica. Resta di positivo che il maggior capolavoro di Cimabue cominciò a influenzare la pittura umbra assai per tempo, come si riconosce sia nella mutila Crocifissione del convento di S. Francesco a Foligno - ispirata dalla celebre Crocifissione del transetto sinistro della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi (1290 ca.) -, sia nel Maestro della Grande Croce di Nocera Umbra (Pinacoteca Com.), sia ancora nella prima fase del Maestro della Croce di Gubbio, e anche nel Primo miniatore perugino, operoso nella seconda serie dei corali per la chiesa di S. Domenico a Perugia (Bibl. Augusta, 2781-2789; 2796). Una decisa relazione con Cimabue si riscontra anche in area spoletina, soprattutto nel Maestro delle Palazze, autore degli affreschi già nel monastero di S. Maria inter angelos a Spoleto, ora staccati e divisi tra vari musei e collezioni (principalmente nello statunitense Art Mus. di Worcester) e databili anch'essi intorno al 1290 (Toscano, 1974).
Dopo Cimabue intervennero nelle parti alte della navata della basilica superiore di S. Francesco di Assisi numerosi artisti, uno dei quali, il Maestro della Cattura, sembra più degli altri legato al pittore fiorentino, mentre la direzione dell'impresa era però oramai passata a maestri di scuola romana, tra cui emerge Jacopo Torriti. A questo autore viene da tutti i critici concordemente attribuita, per le palmari concordanze stilistiche con i mosaici firmati di S. Maria Maggiore a Roma, la volta clipeata, nella terza campata della navata, e a lui e a suoi collaboratori si devono le scene della Genesi nella parete destra. Nella continuazione dell'impresa - sempre a destra nella seconda campata (calcolando a partire dall'ingresso) - fece la sua apparizione un grande artista, affatto diverso dai precedenti, che dipinse due episodi, la Benedizione di Isacco a Giacobbe ed Esaù dinanzi a Isacco, nei quali si dispiega, attraverso un diretto rapporto con la pittura antica romana, una concezione spaziale del tutto nuova. Non c'è dubbio che qui si segni non solo il punto di svolta nelle vicende pittoriche di questa decorazione, ma anche nel processo di gestazione allora in atto della nuova, moderna pittura. Sull'identità anagrafica di questo vero e proprio deus ex machina è in corso, oramai da più di un secolo, un dibattito che non accenna a concludersi. Sono stati fatti i nomi di Pietro Cavallini (v.), Giotto (v.), Gaddo Gaddi (v.), Filippo Rusuti (v.), dello stesso Arnolfo di Cambio (v.), mentre alcuni hanno preferito lasciare impregiudicato il riferimento a un autore specifico e hanno continuato a parlare di lui come il Maestro di Isacco (v.). Resta comunque certo che tutto il resto della decorazione successiva al suo intervento, tanto nella parte alta della navata verso l'ingresso e nella controfacciata, quanto nella volta con i Dottori della prima campata (purtroppo recentemente diminuita con il crollo della vela con il S. Girolamo), risentì moltissimo della presenza di questo personaggio, che molti hanno voluto riconoscere come il nuovo maestro in capo di tutto il cantiere.Qui si innesta l'altra questione relativa alla paternità del sottostante ciclo francescano, le ventotto scene della Vita del santo, ispirate dalla Legenda Maior di s. Bonaventura. L'antica tradizione fiorentina e soprattutto quella locale legata a Ludovico da Pietralunga (1575 ca.) e Dono Doni (m. nel 1575) assegnano l'opera a Giotto (Scarpellini, in Ludovico da Pietralunga, Descrizione della Basilica di S. Francesco, 1982), ma dagli inizi dell'Ottocento in poi (Witte, 1821; Rumohr, 1827) nacque una corrente critica intesa a negare la presenza dell'artista e da allora il campo è diviso in due partiti avversi e quasi tra loro non comunicanti. Per quanto concerne l'interminabile disputa, recentemente Parronchi (1994) vede nel ciclo una collaborazione tra il giovane Giotto e il maturo Pietro Cavallini, mentre Zanardi e Zeri (in Zanardi, Zeri, Frugoni, 1996) preferiscono suddividere le varie scene tra due o tre maestri principali, tra cui Pietro Cavallini, ma escludendo di fatto Giotto. Né i recenti restauri (Zanardi, in Zanardi, Zeri, Frugoni, 1996) hanno portato elementi decisivi in favore di una soluzione rispetto all'altra, anche se l'attribuzione più attendibile resta quella tradizionale. Altra questione dibattuta riguarda la cronologia. Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 100) afferma che Giotto venne chiamato ad Assisi da fra Giovanni da Murrovalle, generale dell'Ordine tra il 1296 e il 1304, una notizia che egli certamente raccolse nell'ambiente del Sacro Convento. Tale datazione è stata tuttavia contestata da vari studiosi e, in tempi recenti, specialmente da Bellosi (1985a; 1998), che preferisce, con vari argomenti, retrodatare anche il ciclo francescano ai tempi di Niccolò IV.I pittori umbri subito intesero il nuovo rivoluzionario messaggio e lo interpretarono in vario modo, adattandolo alle particolari esigenze dei committenti locali. Una bottega che fin dalla fine del Duecento operò in questa zona dell'Umbria settentrionale e centrale, sulla riva sinistra del Tevere, produsse in gran numero tavole e affreschi. Una serie di crocifissi, come quelli di Montefalco (Pinacoteca-Mus. Com.), di Spello (S. Andrea), di Assisi (Mus. e Pinacoteca Com.), proveniente da S. Apollinare, di Gubbio (Mus. e Pinacoteca Com.), si rifanno a un prototipo giottesco, analogo alla croce di S. Maria Novella a Firenze, che doveva esistere nella maggiore chiesa francescana e che si vede rappresentato in due degli affreschi del ciclo francescano (Scarpellini, 1978). In essi si riscontra un'interpretazione fortemente arcaizzante del modello, uno spirito espressivo e icastico che sfocia talvolta nel caricaturale, e addirittura nel grottesco. Tratti molto simili si riscontrano nella basilica assisiate di S. Chiara, negli affreschi frammentari della parte terminale della chiesa, ispirati direttamente dai dipinti della basilica superiore di S. Francesco e considerati di un discepolo locale di Giotto chiamato Maestro Espressionista di S. Chiara (Scarpellini, 1969; Boskovits, 1971; Lunghi, 1994). È quanto mai incerta la sua identificazione in quel Palmerino di Guido citato in un documento del 4 gennaio 1304 quale procuratore di Giotto ad Assisi (Martinelli, 1973). È comunque probabile che il gruppo di opere a lui ricondotto non si riferisca a un solo artista, ma a una bottega operosa soprattutto nella zona Gubbio-Assisi fino alla metà del Trecento.Anche il Maestro del Farneto, l'autore del dossale per il convento omonimo (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), si ricollega in parte al ciclo francescano, pur provenendo da un'area diversa, più strettamente collegata con l'ambiente perugino. E difatti l'opera sua più cospicua si incontra nella sala dei Notari nel palazzo dei Priori di Perugia, dove, negli anni 1298-1300, fu attivo nelle pitture degli arconi che sorreggono il soffitto (Boskovits, 1981; Scarpellini, 1997).Le successive vicende della pittura perugina, a parte la presenza di alcuni maestri senesi - Vigoroso da Siena (v.; 1291), Duccio da Buoninsegna (v.; ca. 1300), Meo di Guido da Siena, naturalizzatosi perugino e operoso in città nel primo terzo del Trecento -, restarono in uno stretto rapporto di dipendenza con il susseguirsi dei maggiori avvenimenti che continuavano a verificarsi nella vicina Assisi.Qui, nel primo ventennio del nuovo secolo, si sviluppò una nuova, grande campagna pittorica intesa a rinnovare completamente tutta la decorazione della basilica inferiore di S. Francesco, dove l'opera del Maestro di S. Francesco e degli altri pittori duecenteschi era oramai divenuta obsoleta e non rispondeva più alle nuove istanze iconografiche e iconologiche. Si iniziò a quanto pare, forse già sullo scorcio del Duecento, nella cappella Orsini, all'estremità destra del transetto, dove una équipe giottesca dipinse un trittico murale e le Storie di s. Nicola, forse con la presenza stessa del maestro in capo. Si proseguì con la cappella della Maddalena, di patronato del vescovo Teobaldo Pontano, in cui l'opera di Giotto è molto estesa, e forse eseguita poco dopo gli affreschi nella Cappella degli Scrovegni a Padova, tra il 1306 e il 1309. La bottega giottesca continuò poi nel braccio destro del transetto e nelle quattro vele sopra l'altare maggiore, eseguendo i Miracoli post mortem di s. Francesco, le scene dell'Infanzia di Cristo, una Crocifissione e le tre Virtù francescane e la Gloria del santo. Qui è ravvisabile l'evoluzione dello stile verso forme più elaborate ed eleganti che presuppongono la presenza di una nuova generazione di allievi, anche se la guida e talvolta la stessa mano di Giotto si avvertono abbastanza chiaramente.Pressappoco nello stesso torno di tempo, ormai nel secondo decennio del Trecento, intervennero maestri senesi, che tuttavia si adeguarono all'impostazione decorativa elaborata con ogni probabilità da Giotto stesso. Pietro Lorenzetti dipinse un altro trittico murale nella seconda cappella Orsini, all'altra estremità del transetto sinistro, e poi, in questo, gli episodi della Passione di Cristo. Sempre entro il secondo decennio, Simone Martini dipinse la cappella di S. Martino, di patronato del cardinale Gentile Partino da Montefiore, dove evidenti appaiono i richiami all'ambiente angioino.Nella cappella di S. Stanislao, un altro allievo locale di Giotto, Puccio Capanna, attivo in più luoghi di Assisi, affrescò un'Incoronazione di Maria e le Storie del santo, che lasciò incompiute, nel mentre lui stesso, o un altro discepolo - da Ghiberti (Commentari) indicato in Stefano Fiorentino -, prese a dipingere nell'abside una Gloria celeste, senza tuttavia compierla (la parte eseguita venne poi distrutta nel Seicento, quando Cesare Sermei vi eseguì un Giudizio finale). Bisogna a questo punto aggiungere che nemmeno l'affrescatura delle vele centrali venne interamente finita, il che fa pensare a un'unica circostanza traumatica che interruppe bruscamente l'opera di rinnovamento decorativo della chiesa. L'avvenimento potrebbe essere individuato nell'occupazione violenta di Assisi nel settembre 1319 da parte del ghibellino Muzio di Francesco e nella conseguente guerra che si protrasse per più di due anni, mettendo sottosopra tutta la città e aprendo una crisi da cui Assisi si sarebbe risollevata solo nella seconda metà del secolo. Di fatto l'unica impresa pittorica di rilevante mole, dopo le opere citate, si ebbe solo nel 1368, quando il bolognese Andrea de' Bartoli affrescò la cappella di S. Caterina, all'estremità del transetto d'accesso, per volontà del cardinale spagnolo Egidio Albornoz che l'aveva scelta per il suo sepolcro.
Tornando ora alla grande fioritura di capolavori del primo Trecento (e tra i grandi artisti è da considerare il Maestro di Figline, l'autore della Maestà della sagrestia della basilica inferiore, talvolta identificato con il vetraio assisano Giovanni di Bonino, anch'egli operoso in basilica), bisogna dire che essa trovò immediato riscontro tra gli umbri. In particolare a Perugia, dove a una vivace attività pittorica che accolse le impressionanti novità e le inserì entro il contesto tradizionale di un'arte descrittiva, e talvolta anche popolaresca, fa riscontro una produzione miniatoria assai varia e ricca, spesso di alta qualità. Tra i massimi rappresentanti della miniatura gotica italiana vanno indubbiamente considerati gli artisti che, nel corso del secondo decennio, lavorarono ai corali di S. Domenico e poi, un po' più tardi, a quelli di S. Lorenzo (Perugia, Bibl. Capitolare, 7, 9, 13, 14, 45), inserendo, entro una cultura d'immagine francesizzante, continue citazioni dalle recentissime, quasi contemporanee, imprese assisiati. Altri prodotti, le miniature degli Statuti e delle Matricole delle Arti, i libri devozionali, le illustrazioni di testi letterari, fanno di Perugia uno dei centri più importanti di quest'arte, forse inferiore alla sola Bologna. E questo si verificò anche nella seconda metà del secolo, in un periodo ritenuto comunemente di crisi, quando, per es., si sviluppò la forte personalità di Matteo di Ser Cambio, o quando un anonimo illustrò, con disegni acquarellati, con grande, delicata sensibilità, le tavole tipologiche dello Speculum humanae salvationis, del 1370 ca. (Parigi, Ars., 593), e alcune scene della Commedia dantesca (Napoli, Bibl. Naz., XIII C. 2), solo adesso restituite all'ambiente perugino (Subbioni, in corso di stampa).A Gubbio una nutrita produzione continuò a svilupparsi per tutto il Trecento. Dopo la fase espressionista testimoniata da tavole e affreschi, per es. quelli nella cappella Sforzolini in S. Francesco (1320 ca.), si affermò, in un secondo momento, una linea più strettamente legata a Siena, in particolare con l'arte di Pietro e Ambrogio Lorenzetti (v.) e anche con miniatori come Niccolò di Ser Sozzo (Neri Lusanna, 1977; 1985). Un nutrito nucleo di opere è stato attribuito a Guido Palmerucci, citato in vari documenti, ma uno dei dipinti del gruppo, la tavola con la Madonna e il Bambino in una mandorla tra angeli, proveniente dalla Pieve d'Agnano (Gubbio, Mus. Diocesano), è risultato, dopo il restauro, firmato da Mello da Gubbio (Santi, 1979); pertanto l'ipotetico catalogo palmerucciano deve essere trasferito, almeno in parte, sotto il suo nome. L'attività di Mello valica certamente la metà del secolo e si accompagna a quella di altre personalità attive anche nelle vicine Marche, come il Maestro di Montemartello, autore di alcuni affreschi nel santuario della Madonna della Misericordia presso Cagli. Del resto, tutta la congiuntura eugubina del secondo Trecento attende di essere chiarita, anche per mettere bene a fuoco le origini di Ottaviano Nelli, che si chiamava, in realtà, Ottaviano di Martino di Mello ed era probabilmente il nipote dell'artista sopra ricordato.Altra area dove le conoscenze sono insufficienti è quella di Città di Castello e in genere dell'alta valle del Tevere. Agli inizi del Trecento, un eletto allievo di Duccio di Buoninsegna, detto appunto il Maestro di Città di Castello, dipinse per S. Domenico una monumentale Maestà (Città di Castello, Pinacoteca Com.). In seguito si sviluppò nel capoluogo e nel territorio una notevole attività pittorica, ricollegabile, oltre che con Assisi e gli altri centri umbri, con la zona di Arezzo e talvolta anche con la Romagna.Nel Sud della regione, soprattutto nella zona di Spoleto, dove l'attaccamento alla tradizione restava molto forte, e molto radicati risultavano certi stilemi e abitudini iconografiche, il discorso è diverso. A parte il Maestro di S. Alò - in contatto, oltre che con Assisi, anche con il mondo romano, e operoso intorno al 1300 -, il Maestro di Cesi, il Maestro del Dittico Cini (o della Crocifissione di Trevi) e poi, più tardi, il raffinato Maestro del Crocifisso d'argento e il Maestro di Fossa, ambedue operosi anche nel vicino Abruzzo, accolsero con cautela le novità assisiati. Queste invece si affacciano con grande evidenza nei due pittori, di gusto più popolaresco, che operarono nella cappella di Santa Croce nel convento di S. Chiara a Montefalco, datata 1333, e che furono attivi in tutta l'area spoletana. A ogni modo, l'originalità della c.d. scuola del ducato tese ad affievolirsi nella seconda metà del Trecento, quando i rapporti con i vicini centri marchigiani e con l'area Terni-Orvieto si fecero più stretti e le presenze locali meno caratterizzate. Una figura interessante è, tuttavia, il Maestro della Dormitio di Terni, dall'opera esistente nella chiesa di S. Pietro in quella città, la cui attività si pone oramai a cavallo del nuovo secolo.Foligno fu certo città pittoricamente molto viva nel corso del sec. 14°, sotto la signoria dei Trinci, che favorirono molto le arti. Oltre agli edifici religiosi erano dipinte anche le case "dentro e fuori", come si desume da una cronaca di Ludovico Morgante del 1421 (Scarpellini, 1976, p. 22). Purtroppo, di questa singolare fioritura resta oggi ben poco, affreschi frammentari riaffiorati qua e là nelle chiese (le maggiori delle quali interamente trasformate in età barocca); si tratta di materiale interessante, ma non tale da permettere di individuare i tratti distintivi di una linea artistica locale, che pure senza dubbio vi fu. Il complesso più organico è forse la serie di affreschi che ornavano la cappella interna dell'antico palazzo Trinci e che oggi si trovano, staccati, nel palazzo Valenti a Trevi. Vi operò, tra settimo e ottavo decennio del secolo, un forte maestro ispirato certamente dalle pitture giottesche della cappella della Maddalena in S. Francesco ad Assisi, ma con cadenze che fanno pensare anche all'ambiente veneto o lombardo. Comunque, da questi presupposti prese le mosse il folignate Giovanni di Corraduccio, interessante neotrecentista, il quale operò tuttavia ormai quasi per intero nel nuovo secolo (Scarpellini, 1976).Di poco migliori sono le conoscenze relativamente a un altro centro di forte importanza come Todi. Qui si hanno tracce di un'attività pittorica nel Duecento: i frammenti di affreschi (1267 ca.) nella sala delle Pietre nel palazzo pubblico; il crocifisso di un maestro umbro giuntesco (1270 ca.) nella cattedrale; i resti di una Crocifissione (fine sec. 13°), ispirata ai prototipi assisiati, nel salone del palazzo del Capitano del popolo. Nel 1295, Rogerino da Todi firmò e datò un rovinatissimo affresco con la Madonna in trono nella chiesa di S. Niccolò a Sangemini, e affreschi frammentari, pressappoco coevi, si possono ancora intravedere nella cappella del Crocifisso nella chiesa todina di S. Fortunato, dove pure sono altri dipinti di alcuni decenni più tardi, ispirati anch'essi ai cicli assisiati. Di grande interesse iconografico è l'affresco con il Purgatorio di s. Patrizio nel coro delle Clarisse nel convento di S. Francesco in Borgo (in origine dei Servi di Maria), databile, a quanto sembra, al 1346 e forse di un artista locale, presumibilmente identificabile in quel Bastiano che firma una Madonna con il Bambino in S. Agostino a Gualdo Cattaneo (1350). Nella seconda metà del secolo, Todi sembra risentire particolarmente della presenza di pittori dell'Umbria meridionale e in particolare dell'area orvietana.La città meno umbra della regione è proprio Orvieto, dove la cultura figurativa appare più strettamente legata a Roma, alla Tuscia e poi a Siena. Esiste, è vero, in età romanica, un certo rapporto con l'ambiente spoletino, testimoniato, per es., dalla già ricordata presenza di Simone e Machilone. E forse qualcosa dell'arte del ducato si può rintracciare nei pittori che lavorarono nell'abbazia dei Ss. Severo e Martirio verso la metà del Duecento, dove però le principali referenze, oltre all'innesto giuntesco nella grande Crocifissione, sembrano inclinare verso la Francia. La Madonna dei Servi (Orvieto, Mus. dell'Opera del Duomo), assegnata a lungo a Coppo di Marcovaldo, è piuttosto lavoro di un pittore molto vicino a Guido da Siena (Boskovits, 1977). L'autore della Madonna di S. Brizio, conservata nella cappella Nuova del duomo, è un artista locale operoso verso il 1290, che può considerarsi il capostipite di una linea di produzione specificamente orvietana (Previtali, 1977). A questo autore è stato anche ragionevolmente attribuito il disegno su strisce di lino, solo parzialmente ricamate (Orvieto, Mus. dell'Opera del Duomo; Bellosi, 1985b).
Le chiese di Orvieto, in particolar modo quella specie di vera e propria pinacoteca che è S. Giovenale, offrono numerose testimonianze di un'operosità assai viva che si sviluppò nei primi decenni del Trecento e che prese le mosse dal suddetto autore della Madonna di S. Brizio (Fratini, 1989). E tuttavia nel grande cantiere del duomo, apertosi nel 1290, la presenza di questi pittori locali risulta abbastanza limitata. Giunsero in forze artisti da fuori, come l'assisano Giovanni di Bonino, documentato per le vetrate del finestrone absidale (1334) e, più tardi, per i mosaici di facciata; pittori senesi come Lippo Memmi; orafi, pure di Siena, come Ugolino di Vieri e Viva di Lando; miniatori perugini, come nell'antifonario eseguito dal Primo Maestro dei Corali di S. Lorenzo (Orvieto, Mus. dell'Opera del Duomo, 192, 197-202). Dal terzo decennio dominò a Orvieto la figura di Simone Martini, autore di tre polittici per S. Francesco (Orvieto, Mus. dell'Opera del Duomo; Ottawa, Nat. Gall. of Canada; Firenze, Coll. Berenson), S. Domenico (del quale restano cinque pannelli; Orvieto, Mus. dell'Opera del Duomo) e S. Maria dei Servi (Boston, Isabella Stewart Gardner Mus.), e certo la sua presenza incise fortemente sullo sviluppo della scuola orvietana. Essa però acquistò forte importanza e una fisionomia molto originale solo nella seconda metà del secolo, quando Ugolino di Prete Ilario venne incaricato di dipingere nel duomo la cappella del Corporale (1357-1364) e la tribuna (1370-1380). Fu appunto in queste grandi imprese che si formarono le originali personalità dei suoi discepoli Giovanni di Buccio, Cola Petruccioli, Pietro di Puccio, Andrea di Giovanni, che esportarono lo stile orvietano non solo nell'Umbria settentrionale, ma anche in area senese e persino, con Pietro di Puccio, a Pisa.Sono abbastanza numerose, nelle chiese e nelle varie raccolte umbre, le testimonianze dell'antico patrimonio tessile. Solo in qualche caso però le opere risultano ben collocabili nel tempo e nel luogo di origine, come i due famosi, grandi dossali ricamati (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco), di manifattura palermitana, databili al primo quarto del sec. 13° (Bonito Fanelli, 1980). Più complesso il caso dei parati di Benedetto XI, conservati nella sagrestia di S. Domenico a Perugia, forse databili agli inizi del sec. 14°, dove i ricami dello stolone della pianeta sembrano derivare da modelli locali. Per quanto riguarda la produzione corrente - i famosi tessuti perugini, la cui collocazione geografica e l'estensione cronologica rimangono tuttavia oggetto di discussione - sono numerosi i reperti esistenti in vari musei. Tuttavia, la loro datazione si rivela spesso difficile, dato che certe caratteristiche formali e certi motivi decorativi rimasero inalterati per secoli. Il fatto di venire rappresentati in numerosi dipinti di varie epoche, a partire dal sec. 13°, dimostra comunque la loro grande diffusione. In un corso di restauro e in una mostra tenutasi a Spoleto (Il patrimonio tessile antico, 1986) sono stati presentati interessanti materiali ed è stata discussa la problematica relativa.
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