umiltà (umilità; umilitade; umilitate; umiltate)
Virtù che assume un posto centrale nell'etica di D. fin dall'epoca della Vita Nuova, in cui essa conserva ancora la sua impronta di origine ‛ cortese ' (v. UMILE, UMILMENTE, in talune loro accezioni), ma acquista già una significazione più specificamente spirituale. L'u. rappresenta infatti l'atteggiamento etico corrispondente all'obbedienza e fedeltà del servo d'amore (cfr. servo umile, Rime dubbie XV 14), che nello stilnovismo perde la connotazione feudale evocata dalla lirica cortese e diventa l'uomo redento dalla viltà di una condizione moralmente inferiore ad opera di Amore e tramite la virtù della donna (v. STIL NUOVO). Contrapposta alla superbia e alla viltà, gli eccessi che s'incontrano in chi non è disposto a ricevere amore e pertanto, nella prospettiva spirituale della lirica dantesca, la grazia divina, l'u. costituisce aristotelicamente il giusto mezzo, la virtù. Come tale viene attribuita alla donna, cui spetta il compito di redimere l'uomo infondendogli appunto l'u. attraverso l'esempio che da lei si sprigiona.
Più volte il sostantivo ricorre in una metafora che illustra l'aspetto esterno della donna, segno della sua interiore ‛ modestia ': con viso vestito d'umilitade (Vn XI 1); d'umiltà vestuta (XXVI 6 7). La spiegazione dell'essenza di questa virtù è nella prosa illustrativa di questo sonetto: Ella coronata e vestita d'umilitade s'andava, nulla gloria mostrando di ciò ch'ella vedea e udia (XXVI 2). Nello stesso sonetto è spiegato il processo che vede l'uomo abbandonare, di fronte all'u. della donna, il proprio ardire e atteggiarsi a umile contemplatore, mentre nel successivo (XXVI 10 12) è chiarita la funzione di elevamento operato dal modello di u. anche nei confronti delle altre donne, onorate dalla sua presenza, incapaci perciò di accogliere il vile sentimento d'invidia. Non solo l'u. allarga in tal modo la sua accezione fino a comprendere una serie di attributi dell'ideale femminile dello Stil nuovo, quali la nobiltà, la gentilezza, la pietà, l'onestà, ma diviene condizione di grandezza, di miracolosa eccellenza.
L'u. è in definitiva il coronamento della virtù, che non può essere tale se non è assolutamente interiore. Anzi con la virtù per eccellenza essa s'identifica: luce de la sua umilitate / passò li cieli con tanta vertute, / che fé maravigliar l'etterno sire (XXXI 10 21). Fu la bellezza della sua anima, infatti, a indurre Iddio a chiamarla con lui. In XXXIV 7 4 il poeta denomina addirittura ciel de l'umiltate quello dove risiede Maria e dove viene collocata Beatrice. Identificando con l'u. la più eccelsa delle virtù umane, perché posseduta dalla Vergine, D. si attiene al principio evangelico che esalta gli umili e che proprio nel " Magnificat " dedicato alla Madonna viene enunciato (e cfr. il posto d'onore riservato alla Vergine nell'illustrazione di questa virtù, in Pg X 41 ss.). Sicché sin da ora si costituisce quel costante rapporto fra u. e grandezza, superbia e viltà, la cui considerazione guiderà la meditazione di D. fino alla Commedia, presupponendo tutta la tradizione ascetica, che sulle orme della regola benedettina si era sviluppata, per poi confluire nella sistemazione tomistica. Tommaso appunto interpreta l'u. quale fondamento della virtù, in quanto consistente nella cognizione e nell'amore della propria limitata realtà, principio quindi di moderazione, di temperanza, di freno al desiderio smodato di grandezza (Sum. theol. II II 161 1), e mostra che essa non si oppone alla magnanimità, apparentemente contraria.
Conformemente al valore che assume anche l'aggettivo ‛ umile ', nel cap. XXIII l'u. designa l'atteggiamento sereno, proprio della beatitudine, del volto di Beatrice apparsa morta al poeta (pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d'umilitade, XXIII 8: cfr. i §§ 26 69, 27 72), e che al poeta stesso comunica tanta pace e serenità d'animo, condizione propria della gentilezza: mi giunse tanta umilitade per vedere lei (§ 9).
Nel segno dell'u. va intesa anche la scelta poetica di D. a proposito del tema laudativo, che assume un posto centrale nella Vita Nuova quale umile omaggio all'eccelsa grandezza della donna, tale tuttavia da adeguarsi al suo livello. La canzone Donne ch'avete intelletto d'amore risponde a un atto di u. chiarito in XVIII 9 (pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare); sicché il proposito di non parlare sì altamente da cadere nella viltà, e di trattare a rispetto di lei leggeramente indica non l'u. dello stile, ma l'atteggiamento umile col quale il poeta evita di rivolgersi direttamente alla sua donna.
In Rime XLVII 3 l'u. è compresa in un elenco di virtù d'ispirazione cortese, disposta in una triade, fra fortezza e largo core (liberalità), in corrispondenza con le tre qualità di cui queste virtù sono il complemento (nobiltà, bellezza, riccore). Il principio secondo cui l'u. è perfezione di bellezza, e ne costituisce quindi aristotelicamente la sostanza, è implicito in tutta la Vita Nuova, ma è esplicito nel Convivio, dove questa volta la Donna gentile è indicata come essemplo d'umiltate (III Amor che ne la mente 70) alle donne che intendessero perfezionare la loro ‛ biltade ' non sufficientemente apprezzata perché non queta e umile.
Tale necessario processo di perfezionamento è esposto in Cv III VIII 21-22 e ribadito in XV 14. Qui l'esposizione allegorica chiarisce che l'u. della Donna gentile, per cui ella diviene ‛ esempio ', designa quella parte che morale filosofia si chiama, riservando quindi alla bellezza, oggetto di contemplazione, la funzione simbolica della ‛ verità ', ossia della parte propriamente speculativa della filosofia. In questo stesso luogo, oltre alla ripresa del tema stilnovistico della donna che con la sua u. umilia ogni perverso, si definisce il concetto di u. come universale simbolo della virtù (essa tuttavia non è compresa nel catalogo delle undici virtù formulato sulla base dell'Etica in IV XVII 4-7), in quanto ricostituisce l'equilibrio raddrizzando chi fuori di debito ordine è piegato (il tema dell'u. è ripreso in Pg X 34 ss.: v. oltre), ma si dice anche che tale operazione essa compie dolcemente, ossia in un modo che rimanda ad ‛ amore ', per il senso specifico che in D. serba la parola ‛ dolce ' con i suoi derivati e sinonimi. Di qui lo stretto e costante rapporto fra u. e amore, ambedue fondamento della vita morale e intellettuale dell'anima. A questo rapporto riconduce anche una particolare struttura simbolica (suggerita anch'essa dallo schema della lirica cortese), sviluppata nelle Rime e nel Convivio, quella che identifica l'u. della donna con la penetrabilità della sua essenza, ossia con la possibilità del suo amore, che è unimento della mente alla scienza, e analogamente la sua superbia con le difficoltà di ordine dottrinale (cfr. Rime LXXX, Cv III Amor che ne la mente 73-86, IV Le dolci rime 5-8), che scoraggiano l'uomo sulla via della scienza. Ma appunto nella seconda canzone del Convivio si precisa che la mancata u. della Donna gentile non è intrinseca alla sua essenza, che non può mancare di tale attributo, ma che è piuttosto dovuta all'incapacità conoscitiva dell'uomo.
Nella Commedia l'u. rappresenta quasi il tema conduttore della seconda cantica, essendo strettamente collegato con quello dell'espiazione e della redenzione (cfr. Pd VII 99; e v. UMILIARE), ma è soprattutto nel c. X del Purgatorio che tale virtù viene ampiamente esaltata attraverso quella serie di esempi che il poeta con una metonimia chiama ‛ umilitadi ' (l'imagini di tante umilitadi, v. 98), e prima di tutto attraverso l'esempio di Maria, la cui u. è segno di umana eccellenza (v. UMILE). Avvertita come il primo passo dell'espiazione (ne è simbolo il giunco schietto di Pg I 95) l'u. si fa strada nel cuore del poeta, comprimendo la sua vana superbia dopo il discorso di Oderisi da Gubbio sulla caducità della fama: Tuo vero dir m'incora / bona umiltà, e gran tumor m'appiani (XI 119). Proprio nel canto dei superbi l'u. viene definita quale la prima e la più tipica delle virtù morali, come la superbia è il primo e più tipico dei vizi, e viene illustrata attraverso la considerazione della duplice antitesi, che vede l'u. risolversi in sublimazione e la superbia in degradazione della natura umana (e cfr. anche Cv III XI 5 ‛ amatore di sapienza '... non d'arroganza, ma d'umilitade è vocabulo).
La teoria dell'u. quale principio di redenzione era, come si è detto, nella tradizione ascetica accolta da Tommaso, ma Bernardo nel Tractatus de gradibus humilitatis et superbiae e Anselmo nel De Similitudinibus (capp. 99 ss.) sembrano particolarmente vicini all'impostazione dantesca, specie il secondo, al quale D. attinse anche per taluni temi di If I (v. ANSELMO d'AOSTA). Infatti, per quel che riguarda in particolare l'u., non solo corrisponde all'immagine di Anselmo la figura del monte illuminato dal sole che bisogna ascendere per gradi (a più lieve salita, Pg I 108; il consiglio va infatti considerato in relazione con lo schema simbolico dell'u., la quale non ammette l'ardire di scalare il monte dalla parte ripida), ma ad Anselmo risalgono la definizione dantesca del peccato, identificato con la superbia (fa parer dritta la via torta [X 3] ricalca " quae sint distorta aeque sectentur ut recta " del De Similitudinibus) e l'insistenza sul fatto che l'u. è volta in alto, laddove la superbia è " demissa ".
In questa prospettiva s'intende anche la raffigurazione di s. Francesco, alla cui u. D. fa riferimento (Pd XI 87, XXII 90), mentre sembra poi sottolineare piuttosto l'atteggiamento " magnanimo " del santo (Né li gravò viltà... / ma regalmente..., XI 88-91). A parte infatti il maggior interesse che il poeta presta al tema della povertà, egli riprende in questi versi l'antitesi u.-viltà, identificando la prima con la vera regalità.
Nel Fiore u. ricorre due volte accanto a ‛ pazienza ' come virtù propria dell'Amante (V 1, LXXIX 9; in questo secondo caso è personificata nella ‛ baronia d'Amore '). Altrove essa è quella virtù che riesce a vincere la resistenza dello Schifo (XI 13, XII 1).
Bibl. - G. Melodia, commento alla Vita Nuova, Milano 1905; U. Bosco, Il nuovo stile della poesia dugentesca secondo D., in " Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di B. Nardi ", Firenze 1955, I, 79-101, poi in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 29-54 (in partic. pp. 33-34 n. 1); ID., Il canto XI del Paradiso, in Lect. Scaligera III 389-414 (ora in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 316-341); F. Tateo, Teologia e " arte " nel canto X del Purgatorio, in Questioni di poetica dantesca, Bari 1972, 137-171.