umorismo
La capacità (detta anche spirito, humour, wiz) di cogliere e di esprimere gli aspetti divertenti della vita; l’u. è oggetto di studio da parte di varie discipline, quali la linguistica, la filosofia, l’estetica, la sociologia, la psicologia e – più di recente – la psicobiologia. La psicoanalisi ne esplora la funzione nell’economia psichica e la dimensione inconscia dei meccanismi sottostanti.
Nel saggio del 1927, L’umorismo, Sigmund Freud riprende il tema trattato ne Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905), nel quale sottolinea le distinzioni tra le varie espressioni del divertimento. L’u. induce al riso e procura piacere, liberando con poca fatica, in una sorta di cortocircuito tra inconscio e coscienza, impulsi erotici o aggressivi; in relazione quindi con l’area incandescente delle pulsioni (➔). Quasi sempre, infatti, la situazione o la battuta che scatena il divertimento ha per oggetto allusioni scurrili o attacchi ostili. Il riso a piena bocca del comico può essere un’azione innocente e innocua, prevalentemente legata al corporeo e al concreto, che fa regredire all’infanzia: dal ruzzolone del clown alla torta in faccia di tutti i tempi. I bambini, che da poco hanno conquistato la stabilità della posizione eretta, possono identificarsi con il pagliaccio che inciampa, vedendo così il lato buffo del piccolo dramma. Ma in contesti più sofisticati, se a cadere è un individuo smargiasso e presuntuoso, l’uomo qualunque che guarda si può godere un breve attimo di episodico trionfo narcisistico sul potente. Il livello della parola introduce invece nel riso la dimensione dell’ambiguità, della trasgressione, della critica. Così, il sorriso della commedia consente l’evasione, in quanto distrae e allenta la tensione. Il genere della satira e dell’u. vanno invece nel senso dell’eversione, e in effetti in quest’area si concentra la maggiore sorveglianza della censura. Una risata può eludere la censura del Super-Io e anche quella esterna, gratificando per una strada indiretta un desiderio proibito.
Freud sostiene che sono necessarie tre persone per un motto di spirito: chi lo pronuncia, chi ride e un terzo che, anche se è assente, è la vittima che ne fa le spese. Per un effetto comico, ne bastano due: chi cade o fa uno sberleffo e chi lo guarda; invece, per l’u. ciascuno può bastare a sé stesso, nella dimensione intrapsichica del piacere intellettuale. In ogni circostanza si intreccia comunque la doppia dimensione sia interpersonale – tra soggetto e oggetto dell’azione o del motto – sia intrapsichica – tra parti di sé che si mettono in gioco tra proiezione e identificazione (➔). Inoltre, mentre il genere comico gode di un’efficacia universale, al di là dello spazio e del tempo, il motto di spirito richiede una sintonia, una base comune di cultura e di linguaggio tra chi lo conia o lo pronuncia e chi lo legge o lo ascolta. Comunque, il contesto è sempre più importante dell’oggettiva qualità umoristica; come è noto, per es., più è elevato il tasso alcolico di una compagnia, più è facile suscitarne il riso. È inevitabile inoltre che ogni indagine tesa a smontare e rivelare i meccanismi del comico o dell’umoristico ne sciupi l’effetto: una battuta, un motto di spirito, uno scherzo, dopo che siano stati analizzati, non sono più divertenti. Cesare Musatti, per es., in ordine a tale considerazione, ha osservato che il saggio di Freud sull’u. è istruttivo, ma un po’ noioso. Sappiamo inoltre che ciò che diverte è la rottura degli schemi logici, la sovversione di un ordine, solo però se abbiamo ben saldi in mente i criteri razionali del pensiero. Qualora invece non si crei nella mente tale contrasto – come accade per es. negli schizofrenici che perdono la capacità di stabilire nessi logici, di distinguere tra cose e parole, tra concreto e astratto – non c’è il riso, ma l’angoscia. All’opposto, un eccesso di ragione spegne il riso.
La funzione psicologica dell’u. è regolata dal Super-Io ed è connessa con la maturazione, con il controllo dei propri impulsi, con la capacità di negoziare tra desideri e realtà, nella dimensione della libertà interiore di giocare. Nel caso dell’u., dunque, il Super-Io appare in una dimensione benigna, inconsueta nella psicoanalisi, poiché offre agli umani un’occasione di riscatto dalle proprie miserie e debolezze. L’u. – scrive ancora Freud – è «una dote rara e preziosa»; rafforza la nostra autostima senza aggredire gli altri (o per lo meno senza danneggiarli troppo) e ci consente di sfidare le avverse fortune della realtà senza negarla. È un modo per riguadagnare un po’ di orgoglio in ossequio all’ideale dell’Io (➔) e di episodica libertà di pensiero, rendendo il conflitto interno più tollerabile. Un’occasione particolarmente favorevole all’u. si verifica quando l’intenzione critica ribelle è diretta contro la propria persona, o meglio ancora verso la collettività alla quale si appartiene; tale tendenza per es., osserva Freud, si realizza ampiamente nella cultura ebraica, dove circolano tante storielle create da ebrei e rivolte contro le stesse peculiarità ebraiche. Si appagano così esigenze a vari livelli: l’orgoglio di esercitare l’autocritica, gratificando il proprio narcisismo; la trasformazione ‘in attivo’ di ciò che altrimenti viene vissuto passivamente nelle situazioni di antisemitismo; la presa di una certa distanza da sé stessi che compensa, con un sentimento di superiorità, la condizione troppo spesso svantaggiata delle minoranze. Non è raro infatti che il senso dell’umorismo sia il risultato di aspetti depressivi ben compensati.
Ridere, e anche sorridere, dà piacere, fa bene, ma l’u. può essere più di una generica consolazione agli insulti della realtà. Nel rapporto tra potere, satira e censura, affinché l’u. possa mettersi al servizio del cambiamento, occorre però uno spazio potenziale di tensione ideologica e morale tra repressione del potere da una parte e pensiero critico dall’altra. Se la forza della censura è troppo forte, questo potenziale si azzera, o è ridotto a serpeggiare nelle pieghe innocue e clandestine della comunicazione privata. Ma se invece è troppo bassa, la satira risulta ugualmente inefficace. La possibilità di attaccare impunemente tutto e tutti con lazzi e vignette, scoraggia la capacità di indignazione e di ribellione. L’economia dell’u. si rivela dunque sempre più complessa. Certamente dà piacere al singolo e alla collettività, ma la sua funzione nell’economia di un gruppo o di una società è di assai variabile portata: dal giullare al fool, alle trasgressioni episodiche delle feste carnascialesche, può servire tanto a mantenere gli equilibri del potere quanto a sovvertirli. Con una non troppo forzata analogia tra individuo e collettività, si consideri che qualora una situazione repressiva duri troppo a lungo, oppure si eserciti troppo brutalmente su una personalità fragile e immatura, si corre il rischio che il divieto inibisca alla fonte la funzione stessa del pensiero del dissenso, favorendo il falso sé, l’imitazione, la compiacenza, l’ambiguità. In tutti i regimi totalitari infatti la funzione repressiva più efficace è esercitata dall’autocensura.