Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Medioevo molti intellettuali vengono accusati di essere caduti nella vana curiositas: con questa espressione si intende un’attenzione superflua o addirittura dannosa verso le cose di questo mondo, che distrae il cristiano dal ritorno a Dio. Il precetto che impone di evitare la vana curiositas agisce come una sorta di limite allo studio e alla libertà di ricerca intellettuale.
Agostino d’Ippona
Riguardo ai cosiddetti filosofi, massimamente ai platonici, nell’ipotesi che abbiano detto cose vere e consone con la nostra fede, non soltanto non le si deve temere ma le si deve loro sottrarre come da possessori abusivi e adibirle all’uso nostro. Ci si deve comportare come gli Ebrei con gli Egiziani. Questi non solo veneravano gli dèi ed imponevano ad Israele oneri gravosi che il popolo detestava fino a fuggirne, ma diedero loro vasi e gioielli d’oro e d’argento e anche delle vesti. Il popolo ebraico all’uscita dall’Egitto di nascosto se li rivendicò come propri, per farne – diciamo così – un uso migliore. Non fecero ciò di loro arbitrio ma per comando di Dio, e gli egiziani a loro insaputa glieli prestarono: ed effettivamente erano cose delle quali essi non facevano buon uso.
Agostino d’Ippona, La dottrina cristiana, a cura di M. Naldini, Roma, Città nuova, 1991
Tommaso d’Aquino
Lo studio della filosofia di per sé è lecito e lodevole per la verità che i filosofi illuminati da Dio riuscirono a conoscere, come dice S. Paolo (Rm. 1, 19). Siccome però alcuni filosofi abusano della loro scienza per combattere la fede, l’Apostolo (Col. 2, 8) ammonisce: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, e non secondo Cristo”.
T. d’Aquino, La Somma Teologica, Bologna, ESD, 1996
La cultura medievale elabora un rapporto complesso col sapere e in particolare con la filosofia. Mentre gli intellettuali leggono, studiano, insegnano, traducono, nello stesso tempo si interrogano sulla legittimità e i limiti di tali attività. È giusto studiare e usare le opere dei pagani? E più radicalmente ancora, studiare non è uno sforzo inutile, una perdita di tempo? Il cristiano – è la tesi di molti – non deve abbandonarsi a letture superflue e dannose, come sono quelle della filosofia, quando gli bastano le Sacre Scritture, le interpretazioni dei Padri della Chiesa e la preghiera. Tutto il resto è pericoloso, è un uso improprio delle capacità dell’uomo: non è altro che vana curiositas, una ricerca superflua che provoca l’allontanamento dalla fede. L’accusa di vana curiositas risuona dall’epoca dei Padri fino agli anni di Jean Gerson, ma si carica progressivamente di valori diversi, perché nel corso dei secoli cambiano il lavoro intellettuale, le istituzioni culturali e di insegnamento, i libri disponibili, i programmi di studio, la percezione di ciò che è legittimo o illegittimo fare per il cristiano. La storia dell’accusa di vana curiositas è perciò la storia degli atteggiamenti nei confronti del sapere e del contrasto tra chi ritiene che la ricerca sia propria dell’uomo, lo migliori e lo aiuti a comprendere Dio e il creato e chi al contrario giudica la ricerca un’attività frenetica, malata, che allontana l’uomo da se stesso e dai suoi veri compiti. Vediamo alcuni momenti di questa storia.
A parlare di vana curiositas sono già i primi intellettuali cristiani. Dalle Lettere di san Paolo è infatti facile trarre il divieto di non approfondire le conoscenze inutili, quando tutto ciò che occorre conoscere è nella fede (Rom. 11, 20; 12, 3; Cor. I, 8, 1). Questo divieto tende ad assumere varie forme: contrappone, ad esempio, l’interesse per la realtà quotidiana, i suoi molteplici stimoli, la conoscenza del mondo materiale alle verità della fede; in altri casi riguarda invece la conoscenza della Scrittura, i limiti dell’interpretazione, i parametri entro cui svolgerla; può infine coinvolgere il rapporto tra la fede e la filosofia, intesa come lo studio delle dottrine dei filosofi pagani. Alcuni Padri, come Tertulliano, legano strettamente curiositas ed eresia, perché la vana ricerca allontana dalla fede.
A fare il discorso più complesso è però Agostino di Ippona. Egli stabilisce sia il rapporto che il cristiano deve avere con il mondo sia l’uso che deve fare del sapere pagano. La curiositas che Agostino critica è quella che si rivolge agli oggetti sbagliati. Egli la intende come una bramosia che si annida nel desiderio di conoscenza. La conoscenza delle cose e la scoperta della verità sono fonte di gioia, un po’ come quando – dice Agostino – si prova gioia a capire il trucco di un prestigiatore.
Ma proprio per questo: ““messe da parte e ripudiate le frivolezze del teatro e della poesia, nutriamo e dissetiamo, con la meditazione e lo studio delle Sacre Scritture, l’animo stanco e tormentato dalla fame e dalla sete della vana curiosità, e che inutilmente aspira a ristorarsi e saziarsi con vuote immagini, simili a cibi dipinti: istruiamoci con questa salutare occupazione, davvero liberale e nobile. Se proviamo piacere per la straordinarietà degli spettacoli e per la bellezza, aspiriamo a vedere quella Sapienza che si estende da un confine all’altro con forza e governa con bontà eccellente ogni cosa ””(Sap. 8, 1). ““Che c’è, infatti, di più mirabile della forza incorporea che crea e governa il mondo corporeo? E che c’è di più bello di essa, che lo ordina e lo adorna?”” (La vera religione, 51, 100, tr. it. La vera religione, intr. A. Pieretti, 1995). L’attenzione verso il mondo è dunque condannata rispetto allo studio e alla contemplazione delle cose celesti. Ciò tuttavia non impedisce che la lettura della Bibbia si giovi delle discipline dei pagani, che vanno però considerate solo degli utili strumenti da usare e sulle quali non ci si deve soffermare in eccesso. Agostino stabilisce quindi un principio importante: lo studio delle arti è legittimo solo se subalterno allo studio e all’amore per le cose superiori. Il resto è vana curiositas. Come esiste una gerarchia delle cose, così esiste una gerarchia del sapere e delle sue discipline.
L’allarme nei confronti della vana curiositas si colora progressivamente di accenti più cupi. Per Isidoro di Siviglia, Bernardo di Chiaravalle, Ugo di San Vittore la vana curiositas è la stessa colpa di cui si sono macchiati i primi uomini, sedotti dal serpente nel Paradiso terrestre e poi gli eretici che vogliono conoscere “i segreti del cielo a loro preclusi” (Isidoro di Siviglia, Sulla Genesi, PL 83, cap. IV).
Bernardo di Chiaravalle insiste molto su questo aspetto. La curiosità è il primo grado di quel terribile vizio che è la superbia. La si scorge nel monaco che si agita, muove gli occhi dappertutto, sta con il capo eretto e non chino. È facile capire dai moti del corpo che quel monaco ha abbandonato la strada dell’umiltà. Ma la vera strada per il sapere passa invece attraverso l’amore verso Dio e non attraverso l’interesse per le cose terrene. Ugo di San Vittore abbraccia la medesima linea. A suo avviso i sapienti di questo mondo hanno commesso un errore di prospettiva: hanno studiato le cose terrene in se stesse, come specie ed elementi, dimenticando di vedere in esse l’espressione di Dio: e cosa è stata questa se non una ricerca guidata dalla vana curiositas (Commentario alla gerarchia celeste, PL 175, 923 B-928B)? Nella condanna espressa da questi autori l’aspetto intellettuale non è mai disgiunto da quello psicologico: la vanitas curiositatis invade le menti degli uomini attraverso il piacere disordinato delle cose transeunti e vane (Omelie sull’Ecclesiaste di Salomone, PL. 175, I, 119 A).
Dal punto di vista dei maestri della cultura monastica, il lavoro di Pietro Abelardo o di Gilberto Porretano sono evidentemente delle forme di vana curiositas: sono empi tentativi di rendere razionali e intellegibili i misteri divini, che sono incomprensibili alla ragione umana. Abelardo sostiene nella Dialettica e nel Dialogus che la dialettica sia una disciplina necessaria alla teologia e che tale tesi sia supportata dall’autorità di Agostino. Ma il suo modo di procedere è troppo distante dalla prassi della cultura monastica, troppo pronto a esaltare la capacità razionale dell’uomo e a minimizzare il ruolo dell’amore e del coinvolgimento emotivo per essere accettato. Non stupisce perciò che le opere abelardiane siano state condannate, sebbene i metodi del sapere delle scuole e delle università abbiano in seguito preso spunto dall’opera di Abelardo più che da quella di Bernardo.
Con il diffondersi delle traduzioni dal greco e dall’arabo, quando cresce il numero delle opere di Aristotele disponibili e l’interesse verso di esse, l’accusa di vana curiositas inizia a spaziare dalle modalità nuove di lettura delle Scritture allo studio della filosofia aristotelica e all’attenzione per le scienze del mondo naturale. Nel 1228 papa Gregorio IX denuncia allarmato che alcuni, per spirito di vanità, si allontanano dai limiti imposti dai Padri e interpretano la Sacra pagina volgendosi alla filosofia naturale. Sebbene nell’arco di qualche decennio lo studio delle arti e della filosofia aristotelica divenga parte integrante del programma di studi, questa preoccupazione e questo monito restano una costante del mondo universitario. Nella vana curiositas si individua “la radice delle eresie e degli errori dei professori universitari” (M.M.H. Thijssen, indi Censure and heresy at the University of Paris, 1200-1400, 1998).
Nei difficili anni degli scontri tra maestri delle Arti e teologi, che portarono alle condanne del 1277 di tesi considerate follie vuote e false (vanitate et insaniae falsae), Bonaventura da Bagnoregio, generale francescano e professore di teologia, riprende le tesi di Ugo di San Vittore. Afferma, infatti, che i filosofi rischiano di perdere di vista Cristo e le verità della fede per la loro curiosità. Diventano superbi e arroganti come era stato Adamo nei confronti di Dio. Arrivano a sostenere che il mondo è eterno e non è mai stato creato, argomenta Bonaventura con probabile riferimento alle tesi dei maestri delle Arti. Ogni forma di sapere, filosofica o teologica che sia, va condannata secondo Bonaventura, se non è orientata alla carità e alla saggezza e se, quindi, alle cose celesti preferisce, con disprezzo, le cose terrene. La critica alla vana curiositas di Bonaventura non è pertanto una preclusione allo studio filosofico, ma un allarme verso una sua assolutizzazione. Il teologo scrive in un sermone: si può amare la filosofia, ma chi ama solo la filosofia si allontana da Cristo (Opera Omnia, 1901, IX).
Di contro a queste posizioni, emergono le tesi di coloro che valorizzano maggiormente la ricerca filosofica ma si mettono al riparo dall’accusa di vana curiositas. È il caso di Tommaso d’Aquino, che non solo scrive numerosi commenti alle opere aristoteliche, ma nella sua riflessione teologica adotta anche concetti ereditati da Aristotele. Ma come può questo modo di procedere essere esente da vana curiositas? Tommaso spiega (Somma Teologica II-II, q. 167) che l’aspetto vizioso del desiderio di conoscere non riguarda né il desiderio né i contenuti a cui si applica, ma lo scopo e le modalità. Perciò è vizioso il desiderio che include la superbia del volersi mostrare sapienti e soprattutto il desiderio che si ferma alle cose di questo mondo e non procede verso quelle immortali.
Le pagine di Tommaso sono costellate di riferimenti ad Agostino, la cui posizione viene perciò giocata a favore della filosofia e non contro di essa, in virtù dell’utilità che la filosofia può avere in un corretto percorso della conoscenza. D’altro canto, sostiene Tommaso, il desiderio di conoscere appartiene alla natura umana, ma come ogni desiderio deve essere disciplinato da una regula rationis, perché, restando nel giusto mezzo, non diventi né curiositas né negligenza (Sul male, 8, 2).
Per i pensatori del basso Medioevo l’idea dei limiti del conoscere si complica: alla distinzione tra una ricerca lecita e una illecita, si affianca una distinzione di compiti tra le discipline. Nel corso del Duecento e del Trecento è frequente l’invito a non oltrepassare i limiti di ciascuna disciplina. Non solo il filosofo deve tenersi lontano da argomenti teologici, ma vale anche il principio opposto: papa Giovanni XXII nel 1317 e papa Clemente VI nel 1346 ricordano ai teologi di non lasciarsi trascinare nelle curiose e inutili dispute della filosofia, ma di dedicarsi alla Sacra Scrittura e alle interpretazioni dei Padri, dove non si trova nessun errore, o peccato, di vanità e curiosità. Perciò certi metodi non risultano illeciti in quanto tali, ma in quanto adottati in modo improprio in ambiti dai quali dovrebbero restare distanti.
Questo allarme è ripreso da Jean Gerson, preoccupato per la condizione in cui versano gli studi di teologia. Nel suo Contro la vana curiosità (1402) tornano i moniti di Ugo di San Vittore e di Bonaventura. Tuttavia l’atteggiamento di Gerson non è di sferzante critica come quello dei monaci del XII secolo, ma è un severo richiamo alla distinzione delle discipline. Egli attribuisce infatti un grosso valore alla ricerca, ricordando e interpretando le parole dell’Ecclesiastico 24, 31 “Coloro che mi renderanno più conosciuto, avranno vita eterna”, ma vuole definire con cura i limiti della filosofia e della teologia, dal cui superamento derivano gravi errori. Criticando l’inutile attenzione per dottrine nuove (la curiosa singularitas), egli ribadisce come tra teologia e filosofia debba esserci armonia e non contrasto e ciò impone che alla teologia restino estranei i metodi e i contenuti della filosofia e viceversa. Evidenzia poi come una teologia fondata sulla ragione debba lasciare spazio una teologia mistica, accessibile a tutti, fondata sull’amore a mirante all’unione e non alla comprensione di Dio. La stessa teologia deve infine ammettere i suoi limiti, che coincidono “con le sacre scritture che ci sono state rivelate”, per concludere, sulla scorta delle tesi della teologia negativa dello Pseudo Dionigi, sostiene che della natura supersostanziale e nascosta di Dio non si deve parlare al di là di ciò che ci è stato rivelato attraverso le parole dei santi.
L’accusa di vana curiositas esprime dunque un’esigenza profonda della cultura medievale, quella di dare un ordine, uno scopo e un limite al sapere e alla ricerca, perché non diventino una fonte di distrazione ed errore nel percorso di ritorno a Dio che i cristiani sono chiamati a compiere. Nello stesso tempo il richiamo ad evitare la vana curiositas agisce, dalla nostra prospettiva, come una forma di censura, per quanto di efficacia discutibile dato il suo reiterarsi, rispetto a quella che oggi definiremmo libertà di ricerca.