Un'arte severa
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il trentennio tra il sacco persiano di Atene nel 480 a.C. e la metà del secolo è uno dei più intensi e vivaci periodi di sperimentazione della storia dell’arte greca. La società greca, profondamente mutata dallo scontro con la barbarie orientale, ridefinisce la propria identità ed esprime i propri valori attraverso un originalissimo linguaggio artistico, plasmato da straordinarie personalità creatrici.
Nel 480 a.C. Atene è sconvolta dall’invasione e dal saccheggio ad opera dei Persiani; tra gli episodi che maggiormente feriscono la comunità ateniese in questo momento drammatico, l’asportazione dall’acropoli del gruppo statuario in bronzo dei Tirannicidi, realizzato dallo scultore Antenore intorno al 507 a.C. per celebrare l’assassinio di Ipparco (figlio e successore, con il fratello Ippia, del tiranno Pisistrato) ad opera di Armodio e Aristogitone, il primo monumento realizzato a spese pubbliche per glorificare un atto di eroismo politico. Tre anni più tardi, una volta superata la minaccia persiana, Atene decide di erigere un nuovo gruppo statuario dei Tirannicidi, affidandolo a Crizio e Nesiote, due scultori che probabilmente godono già di una certa fama: la realizzazione di questo monumento, di cui sono note diverse riproduzioni, tra cui copie romane, segna convenzionalmente l’inizio del periodo della storia dell’arte greca definito “severo”, che sostanzialmente si estende fino alla definizione dei progetti di Pericle per la ricostruzione dell’acropoli di Atene (449 a.C.).
Un trentennio di trasformazione e di maturazione, forse il periodo più vivace e fecondo della storia dell’arte greca; ma anche tra i più difficili da definire nel dettaglio, a causa della lacunosità della documentazione materiale in nostro possesso, in confronto alle numerose menzioni presenti nelle fonti letterarie antiche dei capolavori degli artisti dell’epoca. Già Johann Joachim Winckelmann aveva definito “severa” (Streng) l’arte dei predecessori di Fidia, in base ai giudizi degli autori antichi, che qualificano le opere degli artisti del periodo con aggettivi quali durus, rigidus, austerus; tale definizione, entrata nella letteratura archeologica grazie allo studioso danese Vagn Poulsen con il suo studio intitolato Der strenge Stil (1937), trova la propria ragion d’essere nella semplicità che costituisce la cifra essenziale delle manifestazioni artistiche severe, in scultura, in pittura, in architettura: una semplicità che però non è frutto di ingenuità, bensì di una maturità artistica e culturale che definisce i propri contorni e sviluppa la propria originalità dopo l’epocale scontro con il mondo orientale. La società e il regime politico persiani sono agli antipodi rispetto a quelli dei Greci; e l’antigreco per eccellenza è Serse (re dal 486 al 465 a.C.), il sovrano assoluto e tirannico, gonfio di hybris, accecato dalla superbia e amante dello sfarzo, come lo caratterizzano Eschilo nei Persiani e, più tardi, Erodoto nelle Storie.
La vittoria dei Greci, che hanno combattuto per difendere la propria libertà, il proprio modo di vivere e la propria cultura, su un immenso esercito composto da schiavi di un simile tiranno assume l’aspetto di una vittoria della giustizia sulla sopraffazione, della civiltà sulla barbarie, dell’ordine sul caos, della moderazione e del dominio di sé (sophrosyne) sull’eccesso, la superbia e la sfrenatezza. L’arte greca comincia a resistere alle tendenze dell’arte vicino-orientale, che pure aveva esercitato una profonda influenza in Grecia nel corso dell’età arcaica, e attraverso tale processo trova un proprio, originalissimo linguaggio espressivo. L’ostentazione, il decorativismo, l’amore per il variopinto, la predilezione per il magico e il meraviglioso, tutti gli elementi dell’arte e dell’artigianato del Vicino Oriente, che l’arte greca di età arcaica aveva imitato e rielaborato anche dietro impulso degli aristocratici e dei tiranni greci (che con quel mondo avevano contatti importanti e che in esso trovavano un modello e una giustificazione alla propria concezione del potere), vengono superati quasi all’improvviso, in una Grecia che non solo rifiuta il mondo orientale in quanto barbaro, ma in cui mutano i modelli sociali, con la diffusione dell’istituzione democratica e della conseguente idea di uguaglianza tra i cittadini.
La “severità” dell’arte di questo periodo risiede, ad esempio, nell’eliminazione dell’elemento accessorio, lussuoso e puramente decorativo, nell’essenzialità delle acconciature, dei panneggi, degli abiti, nel rifiuto di ogni forma di ostentazione: esemplare, da questo punto di vista, la predilezione per il peplo dorico, un semplice abito di lana, che nelle statue femminili di età severa sostituisce il sottile e svolazzante chitone prediletto in età arcaica, sottolineando con poche e nette pieghe le forme muliebri, come nella Hestia Giustiniani (copia di età romana da un probabile originale del 470 a.C.). Anche quando le figure femminili indossano, come in età arcaica, un himation sopra una tunica sottile, l’effetto è sobrio e geometrico, come nel tipo statuario noto come Aspasia, nel quale è probabilmente da riconoscere l’Afrodite Sosandra (cioè “salvatrice di uomini”) realizzata dallo scultore ateniese Calamide intorno al 460 a.C. e tanto apprezzata, per la sua nobile semplicità e il suo pudore, da Luciano di Samosata ancora nel II secolo (Le statue, 4-6). Il pesante mantello, con le sue profonde pieghe diagonali e verticali, copre il corpo della dea quasi totalmente, e un lembo di esso è rialzato a velarle la testa, dando risalto ai decisi e luminosi piani del volto, dignitoso e austero. Questa figura è un modello di profondità interiore, di dominio di sé, di equilibrio, concetti fondamentali dello spirito greco; e la serietà del volto dell’Aspasia è la stessa che contraddistingue l’espressione di uomini e dèi nella scultura di età severa.
Sono volti che rifuggono dalla facile seduttività del “sorriso arcaico”, espressione della gioia di vivere, per acquisire una voluminosità a volte anche pesante, un’intensità di concentrazione, una profondità intellettuale, che esprimono l’interesse degli artisti dell’epoca per la complessità dell’animo umano, per i suoi conflitti interiori, per il suo tragico destino. È un interesse che gli artisti figurativi condividono con i poeti tragici, Eschilo e Sofocle, le cui tragedie, che con tanta intensità non “narrano” semplicemente, ma rappresentano drammi interiori e passioni violente con le loro conseguenze, non mancano di esercitare una profonda influenza su pittori e scultori. L’ascendente esercitato dagli importanti sviluppi della tragedia è riconoscibile anche nel nuovo interesse per la resa del movimento e dell’azione che esprime tutta la scultura del periodo, e che doveva essere il campo delle più audaci sperimentazioni della pittura parietale che, secondo le fonti letterarie, esercita in questo momento un ruolo di guida, con figure di grandi innovatori come Polignoto di Taso e Micone di Atene: delle opere di questi artisti restano solo poche descrizioni letterarie, ma è possibile individuare riflessi delle loro ricerche formali ed espressive nella ceramografia contemporanea.
È il bisogno di narrare a spingere questi pittori, con i quali la pittura esce dall’artigianato per diventare grande arte, alla conquista di una nuova spazialità pittorica: le figure si dispongono più liberamente in uno spazio che acquista profondità e unità grazie alle prime sperimentazioni nell’ambito della prospettiva. Nelle pitture realizzate probabilmente tra 469 e 467 a.C. da Polignoto per gli Cnidii nella loro Lesche (“luogo di riunione”) a Delfi, raffiguranti la notte dopo il sacco di Troia e la discesa di Odisseo agli inferi, i personaggi si disponevano a diversa altezza sulla parete, a volte seduti su rialzi di terreno, come è possibile desumere dalla descrizione di Pausania (Periegesi della Grecia X, 25, 1 ss.): nella profondità di questo spazio, i protagonisti agivano come su un palcoscenico, esprimendo con i movimenti, le pose, l’intreccio degli sguardi, la loro interiorità, il loro ethos; Polignoto era infatti detto ethographos, “pittore di caratteri”.
Siamo molto lontani dalla disposizione paratattica delle figure che si dispongono su un unico piano di fronte allo spettatore, testimoniata ad esempio dai pinakes di Pitsà databili alla fine del VI secolo a.C. Come la pittura, anche la scultura di età severa si libera con forza delle convenzioni arcaiche, superando il canone della rigida frontalità del kouros e della kore per muovere liberamente nello spazio uomini e dèi, che esprimono anche attraverso la postura e l’azione il proprio ethos. Basta osservare una delle poche statue in bronzo del V secolo a.C. che si siano conservate, lo Zeus-Poseidon di Capo Artemisio: il possente nudo atletico, raffigurato nell’atto di prendere la mira per scagliare un dardo (un fulmine, per chi vi riconosce Zeus; il tridente, per chi invece vi vede Poseidone), teso, ma senza sforzo apparente, calmo e deciso, perfettamente equilibrato, esprime nel modo migliore una concezione della divinità che impone rispetto, reverenza e anche timore: l’essenza stessa del divino.
La disinvoltura con cui gli artisti di età severa affrontano il problema della resa del movimento si giova del contemporaneo progresso nell’ambito degli studi anatomici e chirurgici, che permettono una migliore conoscenza del funzionamento del corpo umano e consentono loro una trattazione particolareggiata delle vene, delle arterie, del sistema muscolare.
Di grande importanza è anche lo sviluppo della tecnica bronzistica: la fusione delle grandi statue con la tecnica “a cera persa” acquisisce potenzialità precedentemente impensabili grazie all’evoluzione delle modalità di saldatura, che permette la realizzazione in parti staccate di statue di grandi dimensioni, caratterizzate da posture molto articolate e da una disposizione più libera degli arti nello spazio. La scultura, in quest’epoca, è principalmente scultura in bronzo: nelle fonti letterarie vengono ricordate diverse scuole di bronzisti, da Egina (dove tra 490 e 460 a.C. è attivo, tra gli altri, il celebre Onata), ad Argo, a Sicione (dove fiorisce la scuola di Canaco il Vecchio), ad Atene, naturalmente, fino alla Magna Grecia, dove è attivo Pitagora di Reggio, forse fino alla metà del secolo. Ma, nonostante i numerosi tentativi proposti da generazioni di studiosi, risulta al momento assai arduo attribuire con certezza i pochi esemplari in bronzo giunti fino a noi e le numerose copie di età romana da originali di stile severo a questo o a quell’artista citato dalle fonti, a questa o a quella scuola di bronzisti. Questo perché lo stile severo è caratterizzato da una sostanziale unitarietà di ricerca stilistica ai livelli più alti, che supera le profonde differenze tra le diverse scuole regionali (peloponnesiaca, attica, ionica) tipiche della scultura greca arcaica.
Appare dunque più sicuro utilizzare, per l’arte di età severa e in particolare per la scultura, la categoria di Zeitstil (“stile dell’epoca”) che esprime il carattere profondamente panellenico di questa cultura artistica, che si diffonde dalla Ionia alla Magna Grecia grazie alla libera circolazione degli artisti nelle varie località del mondo greco, agli stretti rapporti tra madrepatria e colonie, e soprattutto all’orgoglioso sentimento di comune appartenenza culturale che anima tutti i Greci e che trova nelle competizioni sportive di Olimpia un momento di fortissima coesione identitaria.
L’agonismo, l’aspirazione alla gloria, il coraggio dispiegati dai Greci durante la guerra contro i Persiani (mentre i Greci di Sicilia sconfiggevano i Cartaginesi) hanno contribuito ad accrescere l’importanza dei giochi olimpici (iniziati, secondo la tradizione, nel 776 a.C.), e Olimpia diventa in questo momento la vera capitale morale della cultura greca. A Olimpia e a Delfi si moltiplicano le statue che rappresentano gli atleti vittoriosi nelle diverse specialità sportive dei giochi olimpici e dei giochi pitici, celebrandone la perfezione fisica, le abilità atletiche, l’agonismo, l’audacia, ma soprattutto l’areté, quella eccellenza innata che è propria delle nature superiori, elemento centrale nelle Odi di Pindaro, che di queste statue atletiche costituiscono uno stretto parallelo letterario.
Il genere della statuaria atletica costituisce uno stimolante campo di sperimentazione per gli scultori di età severa, come testimoniano anche numerosi bronzetti votivi, di dimensioni ridotte, tra i quali spicca, per qualità formale e dinamismo, l’Oplitodromo di Tubinga, raffigurante probabilmente un corridore armato.
Per ottenere il diritto ad una statua che lo raffigurasse nel momento dell’azione, l’atleta doveva risultare tre volte vittorioso nei giochi: celebra invece una vittoria singola (che dava diritto ad una statua stante, a grandezza naturale) l’unica raffigurazione in bronzo di atleta vittorioso del V secolo a.C. giunta alla modernità, l’Auriga scoperto nel 1896 nei pressi del teatro al di sopra del santuario di Delfi. Si tratta di ciò che resta di un gruppo statuario, raffigurante una quadriga, eretto, come testimonia l’iscrizione sulla base, da Polizelo, tiranno di Gela e fratello di Ierone di Siracusa (tiranno dal 478 al 466 a.C. ca.), per celebrare una vittoria nella corsa dei carri ottenuta ai giochi pitici del 478 a.C. o del 474 a.C. L’Auriga, che indossa una lunga tunica stretta da una cintura alta in vita e regge nella mano destra le briglie, è forse raffigurato nell’atto di effettuare il giro d’onore dopo la gara; l’espressione seria, assorta e concentrata del volto, il frenato, composto dinamismo del corpo costituiscono la migliore illustrazione del modello ideale del kalòs kagathos, nel quale alla serena consapevolezza di sé e delle proprie superiori doti fisiche e morali si associano la modestia e l’autocontrollo. Questa statua, datata con precisione, costituisce inoltre una testimonianza di straordinario valore dell’altissimo livello tecnico raggiunto dalla bronzistica greca già intorno al primo quarto del V secolo a.C.
Del suo autore non sappiamo nulla; tra i molti nomi di artisti proposti dagli studiosi, occorre almeno ricordare quello del già citato Pitagora di Reggio, probabilmente giunto nella città dello stretto dalla natìa Samo (come sembra testimoniare una base di statua rinvenuta ad Olimpia) e attivo tra il 480 e il 450 a.C. ca. Tra i migliori bronzisti della sua epoca, autore di numerose statue di atleti vittoriosi (spesso Greci d’Occidente), ma anche di dèi e di eroi, Pitagora è celebrato dalle fonti per i suoi studi di symmetria (il termine indica un sistema di proporzioni basato sulla commensurabilità delle parti tra loro e con il tutto) e per la sua diligentia (ovvero per l’attenzione nella resa dei dettagli, ma anche per la precisione nell’applicazione delle proporzioni): doti entrambe ritenute indispensabili per uno scultore nella critica d’arte greca, poi ripresa nelle fonti di età romana, grazie alle quali questi giudizi sono stati trasmessi alla modernità.
L’attenzione nei confronti dell’ethos del singolo coltivata dagli artisti di età severa (e che trova una forma espressiva ben definita nelle statue atletiche) potrebbe aver dato impulso alle prime sperimentazioni nell’ambito del ritratto individuale, le cui origini nell’arte greca costituiscono a tutt’oggi una questione controversa. Sembrano rientrare nell’ambito del ritratto tipologico piuttosto che individuale, a giudicare dalle copie romane rimaste, le statue dei Tirannicidi di Crizio e Nesiote, rappresentanti un uomo più giovane ed uno maturo dai volti poco caratterizzati; risulta difficile pensare che il più antico gruppo realizzato da Antenore mostrasse una più realistica rappresentazione fisionomica di Armodio e Aristogitone. Un ritratto tipologico, rappresentante lo stratega in armi in atto di esortare i soldati, era probabilmente anche quello di Milziade nella pittura raffigurante la battaglia di Maratona nella Stoà Poikile (il “Portico dipinto”) di Atene, probabilmente iniziata da Micone prima del 462/461 a.C. e terminata da Paneno, il pittore fratello di Fidia. Tratti somatici decisamente individuali mostra invece un busto in marmo con il nome di Temistocle, scoperto nel teatro di Ostia nel 1939, i cui caratteri stilistici fanno pensare ad una copia romana del II-III secolo da un originale di età severa; le fonti antiche parlano di diversi ritratti di Temistocle, tra cui uno collocato dallo stesso stratega all’interno di un tempio di Artemide nel demo di Melite, presso i possedimenti della sua famiglia (Plutarco, Vita di Temistocle, 22).
Il capolavoro assoluto dell’arte severa è la decorazione scultorea del tempio di Zeus ad Olimpia, l’unico grande edificio sacro del periodo nella Grecia propria, realizzato dall’architetto Libone; la possente, compatta struttura del tempio costituisce un modello esemplare delle tendenze architettoniche dell’età severa, nel corso della quale si assiste alla canonizzazione dell’ordine dorico, con la sua solenne, maestosa essenzialità.
Il tema del frontone orientale è la preparazione della gara tra Pelope ed Enomao, il re di Pisa, antica capitale dell’Elide, che sfida i corteggiatori di sua figlia Ippodamia in una corsa di quadrighe tra Olimpia e Corinto che si conclude regolarmente con la sconfitta e la condanna a morte dei pretendenti, grazie ai cavalli divini di Enomao, donatigli da Ares. Stavolta, però, sarà proprio il re ad essere battuto e ucciso: Pelope ha convinto l’auriga Mirtilo a sabotare le ruote della quadriga reale. La tragedia ha già mostrato, in questi anni, l’importanza di saper scegliere il momento più pregnante del mito da raccontare, quello in cui giunge al massimo la tensione prima che il dramma esploda: l’artista ideatore del programma iconografico di Olimpia ha scelto di rappresentare il momento precedente l’inizio della gara, congelando in un’atmosfera di elettrica attesa protagonisti e spettatori del dramma, rappresentati in una composizione paratattica che trova nella maestosa figura di Zeus al centro del frontone il proprio fulcro compositivo. La drammaticità del momento culmina nella straordinaria figura del vecchio indovino, che, presago di quanto succederà, sembra trattenere il fiato nell’attesa, mentre si distende nella fluidità di posa della personificazione del fiume Alfeo, che con il suo volto inespressivo, che presenta tratti ancora arcaici, sembra simboleggiare l’impassibilità della natura di fronte alla tragicità degli umani destini.
Nel frontone occidentale, invece, l’azione è al suo culmine: il troppo vino bevuto ha risvegliato il lato ferino dei Centauri invitati alle nozze di Piritoo e Deidamia, spingendoli ad attaccare la sposa e le donne presenti, e suscitando la violenta reazione dello stesso Piritoo e di Teseo. Il centro della composizione è in questo caso occupato dalla figura di Apollo, che troneggia altero sui furibondi corpo a corpo tra i Lapiti, splendenti di bellezza e di giovinezza, e i brutti, bestialmente sensuali Centauri; i volti manifestano con un vigore inedito la paura, l’aggressività, lo sforzo, il dolore, una gamma di espressioni che raggiunge l’apice nella fronte contratta e nelle labbra dischiuse in una smorfia di sofferenza del giovane Lapita morso al braccio da un Centauro. Il frontone ovest illustra la lotta tra il sublime e il volgare, e celebra la superiorità del vivere civile, con le sue regole condivise e il suo ordine, sulla barbarie.
Sulle 12 metope del pronao e dell’opistodomo è infine raffigurato il ciclo delle fatiche di Eracle: sulla prima l’eroe, ancora imberbe, si appoggia estenuato sul leone Nemeo dopo averlo ucciso, presagendo il faticoso percorso che lo attende: questa immagine, così umana, di Eracle, preannunzia l’interpretazione che della sua figura proporrà Lisippo con il tipo dell’Eracle Farnese, stanco e malinconico, pesantemente appoggiato alla clava. Le metope successive seguono la maturazione, fisica e morale, di Eracle, la “costruzione” di un eroe attraverso il superamento di imprese che ne mettono alla prova le qualità e la forza d’animo: accanto a lui compare più volte la sua divina protettrice, Atena, la cui figura evolve dalla snella fanciulla della prima metopa fino alla fiera divinità armata che compare nell’ultima, a sottolineare il carattere di Bildungsroman figurato dell’intero ciclo metopale.
Sono almeno sei gli scultori che lavorano alla decorazione del tempio di Olimpia, ma l’intero progetto è da attribuire ad un’unica, straordinaria personalità creatrice: nonostante le numerose ipotesi proposte, questo artista resta anonimo, né, per motivi cronologici, sembra possibile accettare i due nomi di Paionio e di Alcamene ricordati dal periegeta greco Pausania, autore di una dettagliata descrizione delle sculture (Periegesi della Grecia, V, 10, 6-9), preziosissima per l’identificazione dei temi e dei personaggi. In queste sculture, drammatiche e vibranti di azione, giunge a maturazione intorno al 460 a.C. un processo di evoluzione artistica iniziato già dagli anni immediatamente precedenti al sacco persiano, come dimostrano sculture quali l’Efebo biondo (così chiamato per le tracce di doratura sui capelli), databile tra 490 e 480 a.C., e l’Efebo attribuito a Crizio, forse anch’esso anteriore all’invasione persiana, che già superano la frontalità del kouros arcaico inclinando il bacino e spostando il peso del corpo su una sola gamba. Ma il percorso dall’arte arcaica alla piena classicità sarebbe stato, forse, più lungo e più tortuoso se un evento storico di portata epocale quale l’invasione dei Persiani non avesse condotto la civiltà greca ad una profonda ridefinizione dei propri modelli e dei propri ideali, accelerando il superamento della concezione arcaica: tra le rovine dell’acropoli scompare tutta un’antica tradizione figurativa, lasciando ad un nuovo linguaggio artistico la libertà di affermarsi e di raccontare la rinascita della Grecia.