Un condamné à mort s'est échappé
(Francia 1956, Un condannato a morte è fuggito, bianco e nero, 95m); regia: Robert Bresson; produzione: Alain Poiré, Jean Thuillier per Gaumont/Nouvelles Éditions des Films; soggetto: dalle memorie del comandante André Devigny; sceneggiatura: Robert Bresson; fotografia: Léonce-Henri Burel; montaggio: Raymond Lamy; scenografia: Pierre Charbonnier.
Il comandante Fontaine, esponente della Resistenza, è catturato dai nazisti e condannato a morte. Lo vediamo tentare la fuga una prima volta, mentre è trasferito in macchina alla prigione del forte di Montluc, ma è ripreso e picchiato a sangue. Rinchiuso da solo in una cella, riesce a poco a poco a stabilire sia pur precari contatti con i detenuti delle celle vicine e con quelli che passeggiano in cortile, poi a scambiare qualche parola (informazioni, incoraggiamenti) con quelli che incontra la mattina, per pochi minuti, al lavatoio. Si accorge che, con un po' di pazienza, è possibile smontare alcune assi della porta della cella, e si accinge al lavoro utilizzando un cucchiaio di ferro limato in modo da diventare una specie di coltello. Non tutti i compagni sono d'accordo con i suoi piani, molti sono rassegnati, il pastore cerca di dare conforto morale, uno dei detenuti tenta una fuga prematura, è ripreso e fucilato. Fontaine lavora pazientemente, e alla fine riesce ad uscire dalla cella, esplorando il corridoio della prigione e le possibili vie di fuga. Occorrono corde e ganci per superare le mura del carcere, e Fontaine se li fabbrica ingegnosamente, utilizzando le coperte del letto ridotte a strisce, la rete del materasso e gli indumenti che gli arrivano con un pacco. Quando è pronto, all'improvviso, gli viene assegnato un compagno di cella dall'atteggiamento sfuggente, il giovane Jost, di cui si fida poco. Tuttavia, è giocoforza tentare: i due escono insieme dalla cella e scalano le mura della prigione. Fontaine deve uccidere una sentinella tedesca, ma il tentativo di evasione non riuscirebbe senza l'aiuto del giovane.
L'ambientazione carceraria di Un condamné à mort s'est échappé, con le sue regole particolarmente rigide, per cui ai detenuti, neppure nei pochi minuti in cui si incontrano (ad esempio per lavarsi) è concesso parlare tra loro, fa sì che, eccezionalmente, qui diventi 'realistico' il ricorso alla 'inespressività' degli attori/modelli, la loro frontalità trasognata, che di solito ha funzione straniante nel cinema bressoniano. Sottoposti alla sorveglianza dei tedeschi, i detenuti si muovono più o meno come robot, guardando davanti a sé con gli occhi fissi nel vuoto, e se devono pronunciare qualche parola, cercano di farlo quasi senza muovere le labbra, comunque senza guardarsi. Come sempre in Robert Bresson, è escluso il palesarsi di qualsiasi emozione, in un mondo disertato dalla pietà: ma tutto ciò, nell'universo concentrazionario, diventa d'una paradossale normalità. La condizione di solitudine assoluta del prigioniero scandisce i ritmi della sua disperazione, ma diventa anche, nel caso di Fontaine, il presupposto del tentativo d'evasione, cioè della speranza. Solo nella sua cella, Fontaine può lavorare a preparare la fuga, senza doversi preoccupare d'altro che di evitare la sorveglianza dei carcerieri; per questo, il fatto che all'ultimo momento gli venga assegnato un compagno di cella costituisce un trauma. Si tratta di un giovane sconosciuto, potrebbe essere un collaborazionista, una spia ‒ ma soprattutto si tratta dell'irruzione dell'Altro nel rigoroso universo giansenista di Fontaine, scandito dalla regola del silenzio e dall'economia dei gesti. Eppure, sarà proprio grazie all'aiuto del giovane che l'evasione andrà a buon fine. Jost, dopotutto, è un dono inaspettato, potremmo anche dire una specie di Grazia che si è deciso di elargire nelle pieghe dell'imperscrutabile, ed è probabilmente questo che ha interessato Bresson più di ogni altra cosa, nelle memorie del comandante Devigny.
Al tempo stesso, l'arrivo del giovane e l'evasione vera e propria (lo scavalcamento finale delle mura) risultano elementi sì necessari, ma non è un caso che intervengano solo verso la fine, quasi a coronarne l'implacabile coerenza con una conclusione 'narrativa'. Il fulcro del film è costituito invece proprio dal lavorio incessante e solitario di Fontaine, scandito dalla necessità di eludere la sorveglianza, documentato dall'occhio di una macchina da presa che, come in Rossellini, gioca sulla durata. Solo che qui la durata (la corrispondenza rigorosa del tempo filmico con quello delle riprese) deve fare i conti con l'ansia: Fontaine sta tentando di eseguire un'operazione esposta in ogni momento al rischio di essere scoperta, e a evitare questo (non ai soliti criteri di montaggio ed eliminazione dei tempi morti) sono subordinate interruzioni e riprese. Nessuno lo guarda mentre scava ‒ nessuno deve vederlo (pena il fallimento); ed è come se l'occhio della macchina da presa fosse quello stesso di Fontaine, che si sdoppia, guardandosi lavorare nell'ombra.
Tempo reale? Fino a un certo punto. Il vero ritmo della prigione sarebbe insostenibile, occorrono ellissi, sintetizzate dalla voce fuori campo di un Fontaine sdoppiato, quasi fosse il lettore d'un ideale diario, e dal collegamento delle sequenze tramite dissolvenze appena accennate (quasi dei fondu). Quanto alla musica, risuonano qua e là brani della Messa in do minore di Mozart, ma quasi sempre non si odono che rumori reali (di passi, di chiavi che tintinnano, di colpi battuti alle pareti, di fucilazioni in lontananza, parole smozzicate, appena udibili, ordini secchi di guardie quasi sempre senza volto). Alla fine, la costanza di Fontaine è premiata, premiato il suo rifiuto di rassegnarsi, di abbandonarsi alla disperazione ‒ ma le scelte della Grazia somigliano troppo a quelle del caso: il motto giovanneo che fa da sottotitolo al film, "il vento soffia dove vuole", non è fatto certo per rassicurarci.
Interpreti e personaggi: François Leterrier (comandante Fontaine), Roland Monod (pastore), Jacques Ertaud (Orsini), Charles Le Clainche (François Jost), Maurice Beerblock (Blanchet), Jean-Paul Delhumeau (Hebrard), Roger Tréherne (Terry), Jean-Philippe Delamarre (prigioniero n. 110), César Gattegno (prigioniero), Jacques Orlemans.
E. Rohmer, Le miracle des objets, in "Cahiers du cinéma", n. 65, décembre 1956.
A. Kyrou, Le cinéma condamné à mort, in "Positif", n. 20, janvier 1957.
A. Sarris, A Man Escaped, in "Film Culture", n. 14, November 1957.
R. Bresson, Notes sur le cinématographe, Paris 1975 (trad. it. Venezia 1986).
R. Predal, Robert Bresson. L'aventure intérieure, Paris 1992 (trad. it. Milano 1998).
S. Arecco, Robert Bresson. L'anima e la forma, Recco 1998.
Sceneggiatura: in "Schermi", suppl. al n. 9, dicembre 1958.